di Matteo Barbero
Nel nostro ordinamento continua a valere la regola secondo cui le aliquote dei tributi e le tariffe dei servizi devono essere approvate prima dell’approvazione del bilancio di previsione ed entro la data di scadenza del termine, legislativamente fissato, per approvare il documento contabile.
La prevedono sia l’articolo 1, comma 169, della L. 296/2006 che l’articolo 53 comma 16 della L. 388/2000. Ma è una regola che ha ancora senso?
Ad avviso di chi scrive no, al punto che essa conosce orami numerose eccezioni, sia una tantum che a regime. Tacendo per carità di patria le varie traversie della c.d. mini Imu, possiamo citare la Tari (che può essere approvata entro il 30 aprile) e l’imposta di soggiorno (che ogni ente può istituire in qualsiasi momento).
Da due anni a questa parte la regola è saltata anche per l’addizionale comunale Irpef, per consentire agli enti di scegliere se di mantenere i vecchi scaglioni dell’imposta nazionale o adeguarsi a quelli nuovi. Quindi di fatto oggi, nella sfera dei tributi, vale solo più per Imu e Canone unico patrimoniale (su cui, peraltro, gli enti hanno margine di manovra limitato).
Dal punto di vista manageriale, ogni ente dovrebbe poter prontamente adeguare i propri “prezzi” al mercato, anche prima di trovare in una situazione di disequilibrio e dover applicare l’art. 193 del Tuel o peggio.
Si tratta del retaggio di una concezione ormai superata dell’ente locale (uno dei tanti) come azienda burocratica, che varrebbe la pena superare definitivamente, entrando in una logica di gestione dinamica delle entrate e limitando il terreno per contestazioni puramente formali, come quella ancora diffusa basata sull’equivoco fra la data di approvazione del bilancio da parte del singolo ente ed il termine fissato (e spesso) prorogato d livello nazional