Premessa di inquadramento
Tra i più significativi decreti attuativi (delegati) della legge n. 190/2012 (c.d. Anticorruzione), il decreto legislativo n. 39/2013 ha introdotto nel nostro ordinamento una serie di norme (a volte di difficile comprensione) con lo scopo di contrastare (in chiave preventiva) fenomeni di corruzione, e, nello specifico, quelle ex ante posizioni di conflitti di interesse (volute dal “legislatore governativo”) [1] allo scopo di garantire il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione e assicurare, allo stesso tempo, che i pubblici impiegati, da ricomprendere tutti coloro che esercitano una funzione/prestazione pubblica, pure in chiave privatistica, (ap)prestino l’attività al servizio esclusivo dell’Amministrazione di appartenenza (ex art. 2105 c.c.), ossia il datore di lavoro pubblico, in una estesa platea di soggetti (ex art. 2 bis del d.lgs. n. 33/2013), nei forgiati canoni costituzionali cristallizzati dagli articoli 97 e 98 della Costituzione, nonché in applicazione del più generale principio di uguaglianza (ex art. 3 Cost.) [2].
Il legislatore, consapevole dell’esistenza di situazioni di conflitto ineliminabili ha disposto un “decalogo” di previsioni legate a determinate condizioni (descritte nel d.lgs. n. 39/2013) preclusive all’assolvimento dei compiti (incarichi) eventualmente affidabili, decretandone l’inconferibilità (temporanea o permanente) o incompatibilità (con l’esigenza dell’opzione pena la decadenza) [3].
Le nomine degli incaricati seguono regole di procedimentalizzazione e di trasparenza (annuale), affinate dalla soft law ANAC [4] in decisioni e suggerimenti al potere politico (il legislatore) affinché siano affinate le misure di prevenzione della corruzione, escludendo zone franche per una lettura sostanziale del precetto normativo, osservando che il d.lgs. n. 39/2013 si disinteressa dei meccanismi rappresentativi e si concentra piuttosto, avendo riguardo alla visione anti corruttiva che lo ispira, sulle situazioni di inconferibilità/incompatibilità riferibili a chi riveste contemporaneamente incarichi politici e incarichi amministrativi o gestionali nell’ente partecipato, ed in quanto norma di rango primario[5], in ossequio al principio di gerarchia delle fonti ed al principio di temporalità prevale sulle previsioni dello statuto sociale, ed in ossequio al principio di temporalità, nonché di specialità su altre fonti [6].
In effetti, una condanna (anche non definitiva) per reati contro la PA o l’aver ricoperto o il ricoprire determinati ruoli/incarichi senza un periodo di “raffreddamento”, costituirebbe un limite all’esercizio del ruolo ricoperto se le finalità del decreto sarebbero quelle di scongiurare il rischio di condizionamenti impropri, quella partecipazione (in tensione con l’interesse primario pubblico) spesa per agevolare l’interesse secondario di natura essenzialmente privatistica: la presenza del conflitto di interessi altererebbe l’agire e il processo decisionale (e le c.d. porte girevoli).
Invero, la disciplina sulle inconferibilità e incompatibilità, oggetto di riordino della disciplina precedente si caratterizza per un’elevata complessità, oltre a comportare rilevanti limitazioni all’accesso al lavoro, il quale costituisce un diritto come «fondamentale diritto di libertà della persona umana» [7], osservando, altresì, per ciò che interessa, che la perimetrazione del campo di applicazione delle previsioni in materia di prevenzione della corruzione deve essere effettuata avendo come obiettivo la tutela delle finalità di pubblico interesse perseguite dal legislatore e, quindi, la natura delle attività esercitate dai soggetti destinatari delle norme.
A completamento, dell’apparato normativo non è possibile giungere a desumere dall’analisi del diverso meccanismo di governance che disciplina gli enti pubblici economici e le società sottoposte a controllo pubblico, alcuna ragionevole giustificazione di una possibile esclusione dei primi dall’applicazione della disciplina in materia di inconferibilità degli incarichi [8], con le precisazioni (dichiarazione di incostituzionalità) della Corte nella certezza riposta (come si avrà modo di percepire) di una lontananza di dominio della politica da coloro che “formalmente” non provengono dalla stessa.
Fuori tema
Quest’ultimo aspetto, essenza motivazionale del giudizio, esigerebbe un qualche approfondimento, senza andare nelle sottigliezze del diritto, in quegli atti di nomina di “alta amministrazione” dove per ruoli tecnici, altamente specialistici e professionali (dal CV eccelso), si intravede uno spettro fiduciario (da alcuni indicato in altro modo) che lega il soggetto designato/incaricato al titolare della competenza (alla nomina), dove le convergenze premiano (solamente) l’appartenenza (l’esemplare unicum).
Sono incarichi tecnici (ad es. nei Cda delle partecipate pubbliche, da includere tutte le diverse cariche gestionali) di specchiatissima provenienza partitica (pure se il termine è caduto in desuetudine), o di qualche altro centro di potere, emanazione di interessi particolari, una parte rispetto al tutto, dove il c.d. conflitto di interessi o meccanismo “scambiatore” di favori e ricambi segna l’avvicendamento, senza soluzione di continuità, pur in presenza di un celato raffreddamento, in attesa della costruzione del posto o dell’occasione giusta: (ma) si andrebbe (troppo) fuori tema con il rischio prevedibile (anche in questo caso) di essere non compresi [9].
La pronuncia
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 98 del 4 giugno 2024, traccia un percorso sull’inconferibilità degli incarichi manageriali, ritenendo incostituzionale la lettera f), dell’art. 1, comma 2 [10], e la lettera d), dell’art. 7, comma 2 [11], del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190, nella parte «in cui non consentono di conferire l’incarico di amministratore di ente di diritto privato – che si trovi sottoposto a controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a quindicimila abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione – in favore di coloro che, nell’anno precedente, abbiano ricoperto la carica di presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato controllati da amministrazioni locali (provincia, comune o loro forme associative in ambito regionale)», non potendo assimilare – quale condizione ostativa – un incarico di provenienza “dirigenziale” (rectius vertice amministrativo) con un incarico di natura “politica”: un eccesso di delega.
Il fatto
La questione nella sua essenzialità viene posta all’attenzione della Corte dal TAR Lazio (quattro ordinanze di remissione) [12], con riferimento alla parte della norma che equiparando gli incarichi di «presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico», ovvero la loro provenienza da incarichi in enti con popolazione superiore a 15.000 abitanti, ne vieta la nomina in presenza di una precedente partecipazione a organi di indirizzo politico, per la violazione degli artt. 3, 4, 5, 51, 76, 97, 114 e 118 Cost.
Nella legge n. 190/2012, al comma 50, dell’articolo 1 (legge di un solo articolo) [13], con la lettera c), viene disposto (in ragione di una “colleganza” preclusiva) la stesura (da parte del Governo, non intervenuto nel giudizio) di norme (delegate) atte a:
– «disciplinare i criteri di conferimento nonché i casi di non conferibilità di incarichi dirigenziali ai soggetti estranei alle amministrazioni che, per un congruo periodo di tempo, non inferiore ad un anno, antecedente al conferimento abbiano fatto parte di organi di indirizzo politico o abbiano ricoperto cariche pubbliche elettive»;
– stabilire che «i casi di non conferibilità devono essere graduati e regolati in rapporto alla rilevanza delle cariche di carattere politico ricoperte, all’ente di riferimento e al collegamento, anche territoriale, con l’amministrazione che conferisce l’incarico», in questo senso viene esplicitato un legame (il rischio di condizionamenti non ammissibili) di provenienza.
Il TAR Lazio doveva decidere sulle impugnazioni a delibere dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) con le quali, ai sensi dell’art. 7, comma 2, lettera d), del d.lgs. n. 39 del 2013, veniva:
– dichiarata l’inconferibilità di un incarico di amministratore delegato di una società pubblica in quanto, in quel momento, il soggetto ricopriva la carica di amministratore delegato di una società partecipata dal Comune;
– accertata l’inconferibilità, e dichiarata la relativa nullità, degli incarichi, a lui già assegnati e ancora ricoperti, di amministratore unico di società appartenenti al medesimo gruppo (di quelle partecipate), in ragione dell’incarico precedentemente ricoperto di amministratore delegato di società in house partecipata da altro Comune.
Il punto centrale dei motivi dei ricorsi si poneva sull’errata interpretazione delle norme (gli artt. 1 e 7 del d.lgs. n. 39 del 2013), norme interpretate «in modo distonico rispetto al significato costituzionalmente conforme e rispondente all’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile», dove l’elemento di provenienza non poteva che riferirsi a precedenti incarichi politici, escludendo una diversa provenienza di natura “professionale” (dove manca il conferimento dell’investitura popolare o di indirizzo politico, ricompresi o inquadrati (provenienti) tra gli «organi di indirizzo politico o abbiano ricoperto cariche pubbliche elettive»), quali quelli di amministratore di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico non considerati dalla legge di delega: la ratio del divieto a ricoprire gli incarichi gestionali e/o amministrativi rivolta a soggetti che appaiono “politicamente schierati”, capaci di precostituire le condizioni finalizzate a garantire (perpetuare) una continuità di potere sotto altre “spoglie” (c.d. revolving doors), in pregio ai principi di imparzialità dell’azione amministrativa e della trasparenza (il riferimento è quello dell’accesso meritocratico e selettivo, previo possesso di titoli), aspetti avulsi da coloro che operano professionalmente per capacità e non per affinità (elettiva).
L’analisi delle norme e del caso
La Corte prima di giungere alla dichiarazione di incostituzionalità analizza il quadro normativo, dove il legislatore deleganteha:
– posto attenzione agli incarichi «che comportano funzioni di amministrazione e gestione», con l’esplicito obiettivo «della prevenzione e del contrasto della corruzione, nonché della prevenzione dei conflitti di interessi» in tutti quegli enti che sono chiamati a svolgere una funzione pubblica, a prescindere dalla natura giuridica (pubblica o privata) e, nel caso degli enti privati, dalla tipologia societaria prescelta [14];
– incluso nella categoria di “funzionario pubblico” (colui che assolve i compiti con «disciplina e onore», ex 54, comma 2, Cost.) tutti coloro cui sono affidate «funzioni pubbliche» di rilievo amministrativo, a prescindere dalla natura, pubblica o privata, dell’ente presso il quale l’incarico è ricoperto.
Il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi ai citati principi e i criteri direttivi (in una prospettiva di spiccata prevenzione) nel definire i decreti attuativi sugli istituti della inconferibilità e della incompatibilità, dove il tratto comune risiede nell’esercizio imparziale delle funzioni affidate, rendendole immune dall’influenza che può derivare dallo svolgimento di incarichi pubblici elettivi e dalla provenienza politica, donde il “periodo di raffreddamento”, da un minimo di uno a un massimo di due anni.
In dipendenza di ciò, l’art. 7 del d.lgs. n. 39 del 2013 distingue le inconferibilità applicabili, con relative soglie ostative (sia dal lato degli incarichi di provenienza e sia dal lato di quelli di destinazione):
– al livello di governo regionale (comma 1);
– al livello di governo locale (comma 2), oggetto delle ordinanze di remissione.
I casi sottoposti riguardano sole le situazioni di provenienza non politica impeditive del conferimento dei nuovi incarichi, caratterizzante per lo svolgimento nel corso del tempo, da parte del professionista dell’incarico di amministratore delegato presso diversi enti di diritto privato, tutti controllati da comuni di piccole dimensioni (aventi, cioè, popolazione inferiore ai quindicimila abitanti): le pregresse esperienze, prettamente amministrativo-gestionale di aziende in controllo pubblico, risultano prive di connotazione politica, pur tuttavia acquisendo portata ostativa al conferimento del nuovo incarico di amministratore delegato presso enti di diritto privato controllati da un comune più grande (oltre i quindicimila abitanti).
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