Tratto da: leautonomie.it

a cura di Luigi Oliveri – 

L’idea di attribuire una sorta di premio di permanenza ai dipendenti del comparto Funzioni locali di cui dà conto il portale Lentepubblica non può che definirsi come una clamoroso maquillage volto a non risolvere il problema.

Per aumentare il trattamento economico dei dipendenti del comparto Funzioni locali non c’è che da aumentare … il trattamento economico.

Il comparto ha da sempre un trattamento economico medio inferiore, perchè per decenni ha avuto 8 qualifiche funzionali invece di 9: mediamente, gli aumenti di stipendio, nell’epoca della disciplina pubblicistica, si sono computati, quindi, su un inferiore numero di livelli, dando vita ad un più limitato plafond di risorse.

Questo fenomeno non è stato corretto con la prima tornata della contrattazione del 1996 e si è trascinato ulteriormente.

Solo nel 2004, col Ccnl 22.1.2004, si cercò di avvicinare un minimo il trattamento economico dei dipendenti del comparto a quello degli altri, attraverso l’indennità di comparto, disciplinata dall’articolo 33 di quel Ccnl.

Ma, è stato e resta un’operazione molto discutibile. Infatti, non è un incremento del trattamento economico posto a carico dei bilanci, come dovrebbe essere qualsiasi intervento vero e concreto sulla paga, bensì un vincolo di destinazione imposto al fondo della contrattazione decentrata, che deve obbligatoriamente finanziare il necessario per pagare questa indennità.

Molti enti, a causa di questa previsione, si ritrovarono a metà degli anni 2000 con i fondi decentrati totalmente soffocati dalle progressioni orizzontali e dall’indennità di comparto, andando incontro a guai seri con gli uffici ispettivi del Mef e la Corte dei conti.

In ogni caso, da allora sono passati altri 20 anni e il problema ha continuato ad incancrenirsi, senza la vera e unica soluzione possibile: una revisione della spesa pubblica complessiva volta ad equilibrare i trattamenti economici dei vari comparti. Revisione che comporterebbe solo una strada: prevedere, nell’ambito delle risorse destinate agli aumenti contrattuali, incrementi un po’ meno consistenti negli altri comparti e più robusti per le Funzioni locali, sostenendoli almeno parzialmente con trasferimenti.

Tale unica soluzione si intravede in una norma presente da 7 anni e da 7 anni disapplicata: l’articolo 23, comma 1, del d.lgs 75/2017, ai sensi del quale “Al fine di perseguire la progressiva armonizzazione dei trattamenti economici accessori del personale delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, la contrattazione collettiva nazionale, per ogni comparto o area di contrattazione opera, tenuto conto delle risorse di cui al comma 2, la graduale convergenza dei medesimi trattamenti anche mediante la differenziata distribuzione, distintamente per il personale dirigenziale e non dirigenziale, delle risorse finanziarie destinate all’incremento dei fondi per la contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione”.

La contrattazione collettiva nazionale da 7 anni, già da ben due tornate di rinnovi, ha bellamente ignorato e disatteso questa disposizione normativa e i forti differenziali economici esistenti sono rimasti intoccati. Per altro, è proprio a causa di questa inerzia molto grave che resta ancora in piedi l’esiziale comma 2 dell’articolo 23 citato, quello che continua a porre i molti problemi connessi al “tetto” al salario accessorio: “Nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, assicurando al contempo l’invarianza della spesa, a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016. A decorrere dalla predetta data l’articolo 1, comma 236, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell’anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l’ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell’anno 2016”.

Il famigerato tetto è, quindi, previsto solo “nelle more”, in attesa, cioè, del riequilibrio tra comparti, che, però, non arriva mai.

Quindi, la direttiva che parla di un “premio fedeltà” e si limita ad introdurre una sorta di “bonus” per il dipendente che scelga di non trasferirsi in altro comparto (alla faccia, poi, dei tanti bei discorsi sulla mobilità intercompartimentale…) è soltanto uno specchietto per le allodole, un modo per continuare a non risolvere i problemi alla loro vera radice.

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