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L’annullamento del concorso comporta la decadenza anche del conseguente contratto di lavoro
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
Nelle ipotesi in cui le operazioni concorsuali siano illegittime anche il conseguente contratto individuale di lavoro è nullo: la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 21528, del 20 agosto 2019, ha rigettato il ricorso di un dipendente di un Comune che aveva partecipato ad un concorso per dirigente annullato in autotutela, dall’ente locale stesso.
Il contenzioso
La Corte d’Appello ha rigettato il ricorso proposto da un funzionario comunale proposto avverso la sentenza del Tribunale che aveva disatteso l’azione da lui proposta e finalizzata a far accertare l’illegittimità della sua retrocessione alla posizione di provenienza, disposta dal Comune, in ragione dell’annullamento in autotutela del concorso svolto per la copertura di un posto dirigenziale.
La Corte territoriale ha ritenuto che la revoca in autotutela del provvedimento definitorio del concorso fosse in sé legittima, poiché la procedura era stata riservata esclusivamente al personale interno, in violazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 387 del 1998 e del D.Lgs. n. 165 del 2001.
Per tale motivo ha negato che si potesse parlare di inadempimento, ma semmai di responsabilità precontrattuale, riscontrando però come i danni lamentati risultassero non provati, sia sotto il profilo dell’impoverimento professionale, avendo il ricorrente continuato a svolgere altri incarichi a termine, sia sotto il profilo del pregiudizio all’immagine, non fondandosi la revoca su ragioni di ordine soggettivo e risultando, infine, del tutto generiche le allegazioni in punto di danno morale soggettivo.
Avverso la sentenza sfavorevole il funzionale comunale ha proposto ricorso per Cassazione.
Le motivazioni del ricorso in Cassazione
Diverse sono le motivazioni del ricorso in Cassazione del funzionario comunale; si riassumono brevemente le principali:
– con il primo motivo denuncia l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell’affermare che non vi sarebbe stata prova della stipula tra le parti di un contratto a tempo indeterminato di livello dirigenziale, allorquando la relativa prova documentale risultava in atti;
– con il secondo motivo censura l’interpretazione della normativa di riferimento (D.Lgs. n. 165 del 2001artt. 24 e 5, nonché dell’art. 2126 c.c., del D.Lgs. n. 165 del 2001art. 36 e dell’art. 1441 c.c. ed infine della L. n. 2359 del 1865artt. 4 e 5), sostenendo che erroneamente era stato ritenuto che l’annullamento d’ufficio implicasse automaticamente la nullità del contratto e ciò pur nel difetto dell’esercizio di poteri negoziali o di azione di annullamento da parte del datore di lavoro;
– con il terzo motivo afferma la violazione della normativa vigente in materia di responsabilità contrattuale, in quanto una volta provato il contratto, il danno patrimoniale andava riconosciuto nella mancata erogazione delle competenze stipendiali in esso stabilite, mentre il danno non patrimoniale poteva essere fissato equitativamente.
L’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione ritiene che il primo motivo di ricorso sia inammissibile. La Corte territoriale, pur avendo incidentalmente ritenuto che mancasse prova della stipula del contratto di lavoro dirigenziale a tempo indeterminato su cui si fondavano le pretese del ricorrente, ha poi deciso l’intera controversia come se quel contratto esistesse, sicché quel rilievo su cui si appuntano le censure del primo motivo è del tutto irrilevante.
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. E’ infatti del tutto consolidato presso la Cassazione l’orientamento per cui l’annullamento dei provvedimenti di selezione da cui dipende il contratto di lavoro poi in base ad essi stipulato, è causa di nullità, per venir meno dell’inderogabile presupposto dell’assunzione sulla base di (valido) concorso (cfr. Cass. 8 aprile 2010, n. 8328Cass. 31 maggio 2017, n. 13800Cass. 21 marzo 2018, n. 7054Cass. 8 gennaio 2019, n. 194).
Tale orientamento non può ritenersi contrastato dalla Cass. 1 ottobre 2015, n. 19626, su cui fanno leva le difese del ricorrente, in quanto quella pronuncia richiama esattamente i principi appena menzionati, pur poi giungendo a confermare la pronuncia di merito sfavorevole alla P.A..
Per i giudici di legittimità può essere che ciò, per quella causa, derivi da ragioni attinenti alle modalità di deduzione dei motivi di ricorso, ma comunque quanto in concreto deciso in quella sede e rispetto a quel caso poco importa, in quanto ciò che rileva è il principio, qui condiviso, nella medesima espresso e conforme alle plurime pronunce antecedenti e successive ad essa – sopra richiamate.
Per la Cassazione infondata è anche la tesi – sostenuta anche nei motivi di ricorso – che riconduce il vizio all’annullabilità e non alla nullità e che a tal fine fa leva sul tenore letterale del D.Lgs. n. 165 del 2001art. 63, comma 2, seconda parte, secondo cui le sentenze con le quali il giudice riconosce “il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”.
L’art. 63, comma 2, prima parte, prevede infatti, in via generale, il potere del giudice ordinario di adottare tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati e tale principio non è certamente derogato, ma soltanto esplicitato, dalla seconda parte di esso, sicché, per quanto la norma sembri evocare un effetto costitutivo della pronuncia, come tale incompatibile con la natura dichiarativa dell’accertamento della nullità, tuttavia è proprio l’automatica derivazione della “estinzione” dall’accertamento della violazione delle norme inerenti l’assunzione che finisce per smentire la riconducibilità del vizio all’azione di annullamento, confermando che appunto di nullità si tratta, perché solo quest’ultima può operare d’ufficio e per il solo fatto dell’accertata violazione della norma inderogabile, richiedendo l’annullamento per errore ulteriori presupposti (la domanda della parte legittimata e, soprattutto, la riconoscibilità dell’errore), dai quali, invece, il legislatore ha voluto prescindere nel prevedere un’automatica incidenza della pronuncia sulle sorti del rapporto.
Per la Cassazione non essendovi questione sulla legittimità della delibera di annullamento del concorso, va dunque da se’ che il Comune ha provveduto in modo del tutto legittimo a prendere atto del verificarsi di una ragione di nullità consequenziale del contratto di lavoro che su tale poi rimossa delibera giuridicamente si fondava.
I giudici di legittimità ricordano un importante precedente giurisprudenziale (cfr. Cass. 25 giugno 2019, n. 17002) il quale afferma che “nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché alla stipula del contratto di lavoro si può pervenire solo a seguito del corretto espletamento delle procedure concorsuali previste dal D.Lgs. n. 165 del 2001art. 35, comma 1, lettera a) o, per le qualifiche meno elevate, nel rispetto delle modalità di avviamento di cui al combinato disposto del richiamato art. 35, comma 1, lettera b) e del D.P.R. n. 487 del 1994artt. 23 e seguenti, la mancanza o l’illegittimità delle richiamate procedure si traduce in un vizio genetico del contratto, affetto, pertanto, da nullità, che l’amministrazione, in quanto tenuta a conformare il proprio comportamento al rispetto delle norme inderogabili di legge, può fare unilateralmente valere, perché anche nei rapporti di diritto privato il contraente può rifiutare l’esecuzione del contratto nei casi in cui il vizio renda il negozio assolutamente improduttivo di effetti giuridici. Pertanto il legittimo annullamento in autotutela del concorso interno sulla cui base era stato poi stipulato il contratto di lavoro, consente alla P.A. di considerare caducato il rapporto di lavoro e di non darvi ulteriore esecuzione”.
Quanto poi all’omessa pronuncia sui danni comunque conseguiti al comportamento della P.A., il danno da perdita di retribuzioni in quanto riconnesso ad un inesistente inadempimento contrattuale, non è poi vero afferma la Cassazione quanto affermato dal ricorrente, ovverosia che non vi sarebbe stata pronuncia sul danno da impoverimento professionale (avendo la Corte ritenuto che non ve ne fosse prova, avendo il ricorrente continuato ad essere destinatario di incarichi dirigenziali a termine), all’immagine, risultando nel caso in esame comunque riportati in modo assai generico ed apodittico, inadeguato anche rispetto al principio di specificità dei motivi di ricorso, i profili attinenti alle perdite di altre occasioni lavorative, al malessere psicologico creato ed al danno denominato come “curriculare”.
Le conclusioni
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore delle controparti delle spese del giudizio di legittimità.

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