Richiesta del DURC ai fini dei pagamenti tra enti locali.
Oggetto
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Richiesta del DURC ai fini dei pagamenti tra enti locali.
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Massima
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Il rapporto convenzionale tra l’UTI, che agisce quale centrale di committenza, e i Comuni che fruiscono del servizio erogato dalla controparte contrattuale dell’UTI medesima non si ritiene annoverabile tra le tipologie di accordo tra pubbliche amministrazioni che ricadono nell’ambito oggettivo di applicazione del DURC.
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Funzionario istruttore
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ROSA MARIA FANTINI
rosamaria.fantini@regione.fvg.it |
Parere espresso da
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Servizio affari istituzionali e locali, consiglio autonomie locali ed elettorale
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Testo completo del parere
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L’Unione Territoriale Intercomunale rappresenta che, su delega di 21 Comuni, provvede a gestire il servizio di raccolta rifiuti, che è stato affidato in appalto ed è regolato da apposito contratto.
I rapporti tra l’Unione e i Comuni sono disciplinati da specifica convenzione, ai sensi della quale l’Unione medesima provvede mensilmente a liquidare le fatture emesse dall’appaltatore, richiedendo poi ai Comuni il pagamento della quota di loro spettanza. Poiché un Comune ha recentemente sospeso i pagamenti, in quanto il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dell’UTI risulterebbe irregolare, quest’ultima chiede di conoscere se nei rapporti economici tra enti locali debba essere obbligatoriamente richiesto il DURC. Sentito il Servizio centrale unica di committenza si formulano le seguenti considerazioni. Occorre, preliminarmente, rilevare che la disciplina del DURC si rinviene in una pluralità di norme, contenute in contesti legislativi diversi. Ai fini di cui si discute, la principale disposizione di riferimento è costituita dall’art. 2, commi 1 e 1-bis, del decreto-legge 25 settembre 2002, n. 210[1], i quali dispongono, rispettivamente, che «Le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare alla stazione appaltante la certificazione relativa alla regolarità contributiva[2] a pena di revoca dell’affidamento» e che la medesima certificazione «deve essere presentata anche dalle imprese che gestiscono servizi e attività in convenzione o concessione con l’ente pubblico, pena la decadenza della convenzione o la revoca della concessione stessa». Per quanto attiene all’ambito dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture occorre anche richiamare, in particolare, l’art. 31 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69[3], il cui comma 4 dispone che il DURC deve essere acquisito da amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti in determinate fasi della procedura di gara e del rapporto contrattuale, inclusa quella del “pagamento degli stati di avanzamento dei lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture”. Ne deriva, pertanto, che l’UTI (controparte contrattuale del fornitore del servizio) deve necessariamente acquisire il DURC dell’appaltatore per poter procedere ai pagamenti in suo favore.[4] Per quanto attiene, invece, alle convenzioni, si osserva che l’art. 2, comma 1-bis, del D.L. 210/2002 fa riferimento unicamente alle “imprese” che gestiscono, attraverso tale forma contrattuale, servizi e attività pubblici. Ciò potrebbe far ritenere che l’adempimento in esame non si estenda alla diversa fattispecie di convenzionamento tra soggetti pubblici, ma così non è. Va, infatti, segnalato che l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture – sulla scorta dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza comunitaria – ha ritenuto che anche gli accordi tra pubbliche amministrazioni, ove non ricorrano determinate condizioni, devono ritenersi assoggettabili alla normativa sui contratti pubblici[5]. L’Autorità, dopo aver rilevato che la Corte di Giustizia ha più volte affermato «il principio secondo cui un’amministrazione pubblica può adempiere ai compiti ad essa attribuiti attraverso moduli organizzativi che non prevedono il ricorso al mercato esterno per procurarsi le prestazioni di cui necessita, avendo piena discrezionalità nel decidere di far fronte alle proprie esigenze attraverso lo strumento della collaborazione con le altre autorità pubbliche»[6] chiarisce, nel contempo, che la medesima Corte «ha dichiarato non conforme al diritto comunitario escludere a priori dall’applicazione delle norme sugli appalti i rapporti stabiliti tra amministrazioni pubbliche, indipendentemente dalla loro natura». Viene, in particolare, evidenziato che la Corte di Giustizia afferma che «la normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è applicabile agli accordi a titolo oneroso conclusi tra un’amministrazione aggiudicatrice ed un’altra amministrazione aggiudicatrice, intendendo con tale espressione un ente che soddisfa una funzione di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale e che, quindi, non esercita a titolo principale un’attività lucrativa sul mercato»[7]. Con riferimento all’ordinamento interno, poi, l’Autorità afferma la piena legittimità dell’impiego dello strumento convenzionale di cui all’art. 15, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 – ai sensi del quale «Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 14[8], le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.» – precisando quali caratteri esso deve possedere, affinché non si configuri un’ipotesi di elusione della normativa sugli appalti pubblici[9]. Relativamente al significato da attribuire all’espressione “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, contenuta del predetto comma 1, l’Autorità rileva che la sua formulazione sembra circoscrivere la possibilità di stipulare accordi alle ipotesi in cui sia necessario disciplinare un’attività che risponde non solo all’interesse di entrambe le parti, ma che è anche comune. Poiché l’art. 15 della L. 241/1990 «prefigura un modello convenzionale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni coordinano l’esercizio di funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in modo complementare e sinergico, ossia in forma di “reciproca collaborazione” e nell’obiettivo comune di fornire servizi “indistintamente a favore della collettività e gratuitamente” (cfr. Cass. civ., 13 luglio 2006, n. 15893)» l’Autorità afferma che si comprende, allora, perché la norma non contrasta con la normativa a tutela della concorrenza: le amministrazioni decidono di provvedere direttamente con propri mezzi allo svolgimento dell’attività ripartendosi i compiti, il che vale a dire, trattandosi di una collaborazione, che entrambi i soggetti forniscono un proprio contributo. Qualora, invece, un ente si procuri il bene di cui necessita per il conseguimento degli obiettivi assegnati a fronte del pagamento del rispettivo prezzo il discorso è diverso: in siffatta situazione, sia che ci si rivolga ad un privato, sia che ci si rivolga ad un soggetto pubblico, è difficile sostenere l’applicabilità dello schema della collaborazione, atteso che si è di fronte ad uno scambio tra prestazioni corrispettive che risponde alla logica del contratto e che perciò richiede, in assenza di altre circostanze esimenti, l’espletamento di una gara pubblica[10]. In considerazione di quanto fin qui illustrato, si ritiene che il rapporto convenzionale tra l’UTI, che agisce quale centrale di committenza, e i Comuni che fruiscono del servizio erogato dalla controparte contrattuale dell’UTI medesima non risulti annoverabile tra le tipologie di accordo tra pubbliche amministrazioni che ricadono nell’ambito oggettivo di applicazione del DURC. ——————————————————————————– [1] Convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 2002, n. 266. [2] L’art. 16-bis, comma 10, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, dispone che «le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d’ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge». [3] Convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98. [4] Si veda anche il comma 7 del medesimo art. 31, ai sensi del quale «Nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai fini della verifica amministrativo-contabile, i titoli di pagamento devono essere corredati dal documento unico di regolarità contributiva (DURC) anche in formato elettronico.». [5] V. par. 2 della determinazione 21 ottobre 2010, n. 7. [6] Al riguardo l’Autorità sostiene che «A ben vedere, quella esposta è la stessa ratio che è alla base dell’esenzione dall’espletamento della gara nell’ipotesi di utilizzo dell’in house providing: anche in questo caso l’amministrazione opta per una scelta contraria al processo di outsourcing, stabilendo di affidare l’attività a cui è interessata ad un altro ente che solo formalmente è distinto dalla propria organizzazione, ma su cui sostanzialmente essa esercita un controllo analogo a quello che espleterebbe nei confronti di un proprio servizio e che realizza con essa la parte più importante della sua attività.». [7] L’Autorità richiama anche la risoluzione del Parlamento Europeo del 18 maggio 2010, che ha ribadito la legittimità di forme di collaborazione pubblico-pubblico che «non rientrino nel campo d’applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, a condizione che siano soddisfatti tutti i seguenti criteri: • lo scopo del partenariato è l’esecuzione di un compito di servizio pubblico spettante a tutte le autorità locali in questione, • il compito è svolto esclusivamente dalle autorità pubbliche in questione, cioè senza la partecipazione di privati o imprese private, • l’attività in questione è espletata essenzialmente per le autorità pubbliche coinvolte.». [8] L’articolo regolamenta la conferenza di servizi. [9] A tal fine, risulta chiarito che: «1. l’accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l’obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalità istituzionali degli enti coinvolti; 2. alla base dell’accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilità; 3. i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono l’accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno; 4. il ricorso all’accordo non può interferire con il perseguimento dell’obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. […]». [10] L’Autorità ricorda che il giudice amministrativo (cfr. T.A.R. Puglia – Lecce, sez. I, 21 luglio 2010, n. 1791) ha svolto le medesime considerazioni, affermando che «difetta l’interesse comune nell’accordo interamministrativo quando un’amministrazione ha inteso acquisire da un’altra amministrazione un servizio di proprio esclusivo interesse verso corrispettivo. […] La presenza di un corrispettivo è dunque da considerarsi quale elemento sintomatico della qualificazione dell’accordo alla stregua di appalto pubblico, da assoggettare alla relativa disciplina secondo le prescrizioni del codice degli appalti.». |
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