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L’impiegato pubblico che esercita in malattia una professione abusiva risponde di truffa aggravata nei confronti dello Stato

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista
La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 17423, del 23 aprile 2019, nel rigettare il ricorso di un dipendente pubblico, ha affermato che risponde di truffa aggravata ai danni dello Stato, l’impiegato pubblico che non in servizio per causa di malattia, si reca in studio professionale ad esercitare abusivamente l’attività di dentista.
Il contenzioso penale
Con la sentenza del marzo 2018 la Corte di appello ha confermato la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare che, previa riduzione della pena per effetto del rito abbreviato, condannava un impiegato pubblico alla pena sospesa di dieci mesi di reclusione ed euro 300,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, per il reato continuato di truffa aggravata perché commessa in danno dello Stato.
Secondo l’ipotesi accusatoria accolta dai giudici della Corte di appello, l’impiegato pubblico induceva in errore l’amministrazione statale con artifici consistiti nel far apparire, con certificati medici, uno stato di salute che non gli consentiva di recarsi al lavoro presso l’ufficio del dirigente amministrativo del Tribunale , mentre invece espletava abusivamente l’attività di medico dentista presso uno studio odontoiatrico della stessa città , così perseguendo l’ingiusto profitto degli emolumenti percepiti da luglio a settembre 2012, per un importo complessivo pari a oltre 2mila euro.
L’impiegato pubblico è ricorso in Cassazione ritenendo che i giudici di merito hanno travisato il significato della messa alla prova richiesta nel diverso procedimento penale che lo vedeva imputato per i reati connessi all’esercizio abusivo della professione medico dentistica in quanto, diversamente da quanto ritenuto dal G.u.p. e dalla Corte di appello, la scelta di definire il giudizio con tale modalità non costituisce ammissione implicita di responsabilità, così mancando un riconoscimento di colpevolezza.
La difesa osserva che, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, «la mancanza di un riconoscimento di colpevolezza dell’imputato a seguito della definizione del processo per messa alla prova deriva dalla mancanza di una condanna e, correlativamente, mancanza di un’attribuzione di pena e responsabilità dell’imputato il quale sceglie liberamente un trattamento alternativo alla pena – di talché non ci sarà violazione del principio di presunzione di non colpevolezza e della determinatezza del trattamento sanzionatorio».
Sulla base di tale osservazione si denuncia un travisamento dei fatti, perché con riguardo all’esercizio abusivo della professione è stata pronunciata una sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato, senza che vi sia stata l’affermazione della sussistenza del fatto storico, al di là di ogni ragionevole dubbio, così che, aggiunge la difesa, «l’aver ritenuto che le condizioni patologiche dell’odierno ricorrente non fossero sussistenti in ragione dello svolgimento di altra attività lavorativa (ancorché, si ribadisce; priva di qualsivoglia prova formatasi in contraddittorio) rappresenta (…) , un’illogicità che inficia l’intero percorso logico-giuridico seguito dai giudici di merito».
In merito allo stato di malattia la difesa osserva che il G.u.p. ha conferito un incarico peritale a un medico psichiatra al fine di accertare la capacità dell’imputato di presenziare al processo; che tra i documenti acquisiti dal perito c’è una certificazione dell’ASP che consente di datare l’insorgenza della patologia all’anno 2001; che la mancata valutazione di tale circostanza ha fuorviato il convincimento del giudice circa la corretta qualificazione giuridica del fatto; che un eventuale riconoscimento della responsabilità dell’impiegato pubblico per il reato di cui all’art. 316-ter, c.p., avendo riguardo al profitto conseguito, comporterebbe l’applicazione di una sanzione amministrativa.
L’analisi della Cassazione
Per la Corte di Cassazione il ricorso è inammissibile perché difetta del requisito della specificità.
Il ricorrente ha osservato che la messa alla prova non può essere considerata a fini probatori, in conformità all’orientamento della Corte di cassazione secondo cui essa non ha portata di accertamento sulla responsabilità.
La Cassazione osserva che nella sentenza impugnata la vicenda dell’esercizio abusivo della professione è ricostruita sulla base dagli atti versati nel giudizio abbreviato, ossia la denuncia sporta da un soggetto terzo, dall’individuazione fotografica effettuata dallo stesso e i successivi accertamenti investigativi, puntualmente descritti.
La difesa dell’impiegato pubblico ricorrente elude il confronto con tali atti e con il risultato probatorio scaturito dalla loro valutazione complessiva e unitaria e, conseguentemente, non indica quale sarebbero l’impatto e l’incidenza che l’eliminazione della valutazione della messa alla prova avrebbe in punto di accertamento del fatto e della responsabilità del ricorrente.
La Corte di appello ha osservato che, ai fini della configurabilità dell’induzione in errore e, quindi, della truffa, non era rilevante l’esistenza di una pregressa patologia (di natura psichiatrica), perché l’artificiosa alterazione della realtà era consistita nella reiterata rappresentazione di una condizione patologica tale da impedire all’imputato la prestazione dei lavoro, mentre , in realtà, quello svolgeva attività lavorativa altrove, cosi dimostrandosi che la patologia sofferta non impediva l’attività lavorativa, per come falsamente rappresentato.
La Corte di appello ha, altresì, aggiunto che la reale esistenza di una malattia che giustifichi l’assenza dal lavoro implica la necessità di uno specifico e autonomo accertamento da parte dei datore di lavoro.
Sulla base di tale premessa la Corte di appello ha osservato che tale evenienza escludeva la configurabilità del reato di cui all’art. 316-ter c.p., che non include l’elemento costitutivo dell’induzione in errore, in quanto l’ente erogatore, a differenza che nella truffa aggravata, è chiamato solo a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere un’autonoma attività di accertamento, come invece è avvenuto nel caso in esame.
Il ricorrente non si confronta con tali argomentazioni e ribadisce i medesimi argomenti contenuti nell’atto di appello, continuando a valorizzare la patologia psichiatrica sofferta dall’imputato, senza mai contrastare la motivazione spesa dalla Corte territoriale per escluderne ogni valenza probatoria.
Analoghe considerazioni valgono con riguardo alle circostanze delle attenuanti generiche, visto che la Corte di appello ha osservato come la pena fosse dosata nel minimo edittale, a dispetto dell’elevata intensità del dolo e dalla mancanza di indicazioni idonee a indurre a una mitigazione della pena; la Corte territoriale sottolineava, inoltre, che il tribunale aveva evidenziato l’assenza di elementi positivi da cui evincere la sussistenza delle circostanze di cui all’art. 62-bis c.p..
Anche in questo caso il ricorrente non si confronta con la risaltata intensità del dolo e con la sottolineata assenza di elementi positivi idonei a giustificare la sussistenza di circostanze attenuanti generiche, limitandosi a richiamare i medesimi argomenti indicati nell’atto di appello, riferiti a situazioni neutre o a evenienze genericamente affermato quali lo stato di disagio dovuto a condizioni fisiche.
Per la Corte di Cassazione l’impugnazione in esame, dunque, elude le argomentazioni spese dalla Corte di appello e ripropone le identiche questioni da questa affrontate e risolte, così che l’odierno ricorso, in assenza di rilievi critici alla sentenza impugnata, non è altro che una mera riproposizione delle questioni di merito, la cui valutazione non è consentita in sede di legittimità.
Le conclusioni
La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila.

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