Le incognite di “quota 100” e le rigidità delle PP.AA.
di Villiam Zanoni
In attesa della conversione in legge del decreto-legge n° 4 del 28 gennaio 2019 (Reddito di Cittadinanza e Quota 100) e delle apparentemente poco probabili modifiche all’articolo 14 (Disposizioni in materia di accesso al trattamento di pensione con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi), tante sono le fibrillazioni provocate da un lato dalle turbolenze che caratterizzano la navigazione del Governo, dall’altro da alcuni aspetti poco chiari che anche la circolare INPS n° 11 del 29 gennaio 2019 non ha contribuito a sciogliere, e dall’altro ancora da un testo normativo che contiene imprecisioni tecnico-giuridiche da cui scaturiscono interpretazioni abbastanza bizzarre.
Ovviamente una delle preoccupazioni abbastanza diffuse riguarda tutti coloro i quali vorrebbero avvalersi della disposizione richiamata, ma temono di rimanere in mezzo al guado nel caso in cui il decreto-legge non fosse convertito e di conseguenza decadrebbe l’intero impianto.
E’ del tutto evidente che nessuno è in grado di azzerare tale rischio poiché tutto potrebbe accadere, ma è altrettanto evidente che la valenza politica del decreto per tutti i suoi contenuti è talmente elevata al punto da ipotizzare che il Parlamento e la maggioranza di Governo faranno di tutto e di più per presentarsi poi alle elezioni europee e alle altre consultazioni elettorali con le bandierine del “reddito di cittadinanza” e degli “interventi previdenziali contro Fornero” issate sul pennone più alto.
Personalmente rimango quindi convinto che quel rischio sia assolutamente remoto.
Potrebbe, invece, ovviamente non essere remoto il rischio di una mancata permanenza nel tempo di talune misure a carattere sperimentale in funzione del loro impatto con la finanza pubblica, ma questa è un’altra storia.
Sul testo della norma ci sono poi alcune scelte che lasciano molto a desiderare, come ad esempio già nel comma 1 quando si individuano i potenziali beneficiari elencando “gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, gestite dall’INPS, nonché alla gestione separata”.
È una formula vecchia come il mondo che è sempre stata utilizzata nell’elencare le forme di previdenza che possono concorrere a determinate operazioni, ma per la prima volta nel decreto in esame, dopo il termine “forme esclusive e sostitutive”, viene inserita la frase “gestite dall’INPS”.
Ora non ci sono problemi per le forme esclusive poiché tutte sono confluite nell’INPS (ex Fondo FS, ex IPOST, ex INPDAP), mentre rimane qualche problema per i fondi esclusivi.
Taluni, infatti, erano già gestiti dall’INPS e sono solo stati armonizzati o sciolti (Fondo Volo, ex Fondo Autoferrotranvieri, ex Fondo Elettrici, ex Fondo Telefonici), comunque rimasti nell’INPS.
Taluni altri sono stati soppressi e trasferiti nell’INPS (ex INPDAI, ex ENPALS).
Uno solo non è stato né armonizzato, né tantomeno sciolto, ma ha mantenuto la sua natura di fondo sostitutivo ancorché dotato di autonomia gestionale (alla stessa stregua delle Casse professionali) al di fuori dell’INPS, come è accaduto all’INPGI [sia che si tratti dell’INPGI 1 (giornalisti dipendenti), sia che si tratti dell’INPGI 2 (gestione separata)].
Ebbene, il comma 2 dell’articolo 14 in esame esclude dalla possibilità di accedere a quota 100 mediante il cumulo delle contribuzioni i lavoratori iscritti all’INPGI.
Poiché la norma già citata esclude comunque anche le Casse professionali dal suddetto specifico cumulo per “quota 100”, verrebbe subito da pensare al fatto che il legislatore non abbia voluto caricare di ulteriori costi le gestioni previdenziali la cui autonomia gestionale è subordinata alla autonomia finanziaria, ma probabilmente qualcuno ha perso un pezzo di memoria.
Come si ricorderà, in particolare dal 1.1.2001, diversi dipendenti pubblici (giornalisti o pubblicisti) che esercitavano attività giornalistica all’interno degli enti, furono obbligati ad essere iscritti all’INPGI piuttosto che all’INPDAP con tutti i problemi di gestione delle rispettive posizioni assicurative.
Ebbene, oggi il decreto n° 4/2019 consegna loro l’amaro calice della impossibilità di accedere a “quota 100”, a meno che si facciano carico dei costi abbastanza rilevanti di una ricongiunzione ai sensi dell’articolo 2 della legge n° 29/1979.
Tale situazione appare ancora più paradossale se si pensa che l’INPGI fu in assoluto il primo fondo a dialogare gratuitamente con l’INPS ai fini dell’accesso alle pensioni sulla base della sommatoria delle rispettive contribuzioni prevista delle norme di cui all’articolo 3 della legge n° 1122/1955 (cosiddetta legge Vigorelli).
Sugli altri meccanismi per l’accertamento del diritto a pensione, sia che si tratti di quello contributivo, sia che si tratti di quello anagrafico, non ci sono particolari problemi, se non legati invece a quelli relativi alla decorrenza, altrimenti definita “finestra”.
Già la scelta di individuare due diversi termini di decorrenza (tre mesi per i dipendenti privati, sei mesi per i dipendenti pubblici) appare abbastanza irrazionale e discriminatoria, fermo restando che dovremo barcamenarci fra termini di decorrenza della finestra che potranno essere altrettanto diversi in funzione sia della natura giuridica del rapporto di lavoro, sia della tipologia di gestione pensionistica, sia dello strumento utilizzato per perfezionare il requisito contributivo.
La pensione in “quota 100” acquisita con il “cumulo” avrà sempre decorrenza dal 1° giorno del mese successivo quello in cui si apre la finestra trimestrale o semestrale, mentre in altri casi per i fondi esclusivi il giorno successivo all’apertura della finestra trimestrale o semestrale, ed in altri casi ancora per i fondi non esclusivi dal 1° giorno del mese successivo quello in cui si apre la finestra trimestrale o semestrale.
La vicenda più complicata, tuttavia, rimane quella dei rapporti fra lavoratori aspiranti a “quota 100” e le pubbliche amministrazioni.
Il comma 6 dell’articolo 14, infatti, alla lettera c) prevede per i dipendenti pubblici il seguente vincolo: “la domanda di collocamento a riposo deve essere presentata all’amministrazione di appartenenza con un preavviso di sei mesi”.
Dal punto di vista logico-amministrativo la ratio della norma è assolutamente comprensibile: per evitare un improvviso depauperamento degli organici della pubblica amministrazione, già spesso provata da parziali turn over del passato, e per non mettere in crisi il funzionamento dei servizi, si è voluto dare un margine di tempo più ampio per la sostituzione dei lavoratori dimissionari.
In verità ha anche giocato molto a favore della scelta la necessità di limitare l’incremento della spesa pensionistica che insisterà sul bilancio del 2019, anche se poi a regime i problemi resteranno tutti.
La soluzione tecnica, però, non convince poiché nella pubblica amministrazione non esiste la “domanda di collocamento a riposo”; esiste il collocamento a riposo d’ufficio per il raggiungimento del limite di età ordinamentale in presenza di qualsiasi diritto a pensione (tranne quota 100), esiste la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro che l’amministrazione può facoltativamente utilizzare al raggiungimento del diritto e della decorrenza della pensione anticipata di cui al comma 10 dell’articolo 24 del decreto-legge n° 201/2011, ed esistono le dimissioni volontarie.
Nel primo caso la risoluzione avviene senza vincolo di preavviso, nel secondo caso l’amministrazione deve dare sei mesi di preavviso, nel terzo caso il lavoratore deve dare il preavviso contrattuale, tendenzialmente di due mesi.
In verità esiste anche la “domanda di cessazione”, ma questa procedura trova applicazione solo nei confronti del personale della scuola che, ad esempio, per cessare dal 1° settembre 2019 ha dovuto presentare la domanda entro il 12 dicembre 2018 soprattutto per far fronte alle esigenze di continuità didattica e di sostituzione del personale soprattutto docente.
Tale procedura ha però una particolarità: le domande sono gestite dal MIUR, ma soprattutto verificate dall’INPS, poiché nel caso in cui non esista il diritto a pensione viene data al personale l’opportunità di revocare la stessa domanda.
L’introduzione della “domanda di collocamento a riposo” attraverso il decreto in esame, fra l’altro solo per l’accesso alla “quota 100”, appare quantomeno irrazionale e incomprensibile (se non in sede di primo impatto), soprattutto quando poi la si associa alla necessità di preavviso di sei mesi.
Ed è proprio su questo ultimo punto che si concentrano le maggiori incertezze, soprattutto a fronte di un colpevolissimo silenzio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica.
La Funzione Pubblica ci ha purtroppo abituato a non vederla più come una fonte di interpretazione delle varie disposizioni poiché da tempo non emana circolari e soprattutto non risponde più ad alcun quesito delle pubbliche amministrazioni, ma di fronte ad una novità come quella in esame ci aspettavamo almeno una eccezione.
Ebbene, in assenza di indicazioni, ogni amministrazione si sta muovendo in ordine sparso con atteggiamenti che a volte appaiono assurdi.
Già sulla modalità di inoltro della “domanda di collocamento a riposo” c’è chi da un lato ha costruito modulistica orientata sostanzialmente a delle richieste “condizionate” contenenti soprattutto la nullità delle dimissioni e fronte della eventuale mancata conversione del decreto, ma dall’altro c’è chi, come l’INPS in quanto datore di lavoro pubblico, non accetta in alcun modo dimissioni condizionate ritenendo le dimissioni stesse una assoluta manifestazione di volontà unilaterale, ed in quanto tale priva di condizioni a pena della nullità.
Ma il nodo vero è quello della dimissione e del preavviso.
Il “preavviso di sei mesi” per l’inoltro della “domanda di collocamento a riposo” avrebbe infatti bisogno di una precisa qualificazione giuridica rivolta soprattutto agli intrecci contrattuali e civilistici.
Ora l’articolo 2118 del Codice civile prevede che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità” e che “in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”.
Ma la norma correttamente parla di “recesso dal contratto di lavoro”, e non di “domanda di collocamento a riposo”.
Altrettanto accade nei contratti collettivi di lavoro; prendendo ad esempio l’articolo 67 del CCNL Funzioni centrali del 12 febbraio 2018 (ma anche gli altri tre CCNL degli altri comparti dicono, seppure in articoli diversi, la stessa cosa), riscontriamo quanto segue:
1. In tutti i casi in cui il presente contratto prevede la risoluzione del rapporto con preavviso o con corresponsione dell’indennità sostitutiva dello stesso i relativi termini sono fissati come segue:
- a) 2 mesi per dipendenti con anzianità di servizio fino a 5 anni;
- b) 3 mesi per dipendenti con anzianità di servizio fino a 10 anni;
- c) 4 mesi per dipendenti con anzianità di servizio oltre 10 anni.
- 2. In caso di dimissioni del dipendente i termini di cui al comma 1 sono ridotti alla metà.
- 3. I termini di preavviso decorrono dal primo o dal sedicesimo giorno di ciascun mese.
- 4. La parte che risolve il rapporto di lavorosenza l’osservanza dei terminidi cui ai commi 1 e 2 è tenuta a corrispondere all’altra parte un’indennità pari all’importo della retribuzione spettante per il periodo di mancato preavviso. L’Amministrazione ha diritto di trattenere su quanto eventualmente dovuto al dipendente, un importo corrispondente alla retribuzione per il periodo di preavviso da questi non dato, senza pregiudizio per l’esercizio di altre azioni dirette al recupero del credito.
- 5. È in facoltà della parte che riceve la comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro di risolvere il rapporto stesso, sia all’inizio, sia durante il periodo di preavviso, con il consenso dell’altra parte. In tal caso non si applica il comma 4.
- 6. L’assegnazione delle ferie non può avvenire durante il periodo di preavviso.”
Ebbene, di fronte a tali norme ognuno sta facendo quello che gli pare.
Abbiamo amministrazioni che in modo assolutamente rigido applicano il massimo possibile, e cioè pretendono che il lavoratore consumi tutte le ferie maturate, dopo di che lavori tutto il preavviso di cui al comma 2 dell’articolo 14 del decreto-legge n° 4/2019 (6 mesi), dopo di che finalmente se ne può andare in pensione. Se uscisse prima gli verrebbe richiesto di indennizzare l’amministrazione a fronte del mancato preavviso.
Abbiamo per contro altre amministrazioni che addirittura si avvalgono della norma di cui al comma 5 dell’articolo sopra citato derogando il lavoratore, in accordo con lo stesso, dalla prestazione del preavviso, o tuttalpiù chiedendo allo stesso il solo preavviso contrattuale.
Fra l’una e l’altra c’è di mezzo il mare.
Ma il paradosso è che se il lavoratore presentasse semplicemente le dimissioni volontarie rispettando i termini di preavviso contrattuale, potrebbe successivamente presentare domanda di quota 100, avendone ovviamente i requisiti, senza che nessuno possa addebitargli alcunché.
Facciamo quindi un accorato appello al Ministro Giulia Bongiorno affinché dia disposizioni a tutte le strutture del proprio ministero (o meglio dipartimento) al fine di mettere tutte le amministrazioni pubbliche periferiche nelle condizioni di agire con la necessaria tranquillità.
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