#lavoro pubblico #spendingreview Corte dei conti certifica i fallimenti dei vari governi
Pubblicato il 10 gennaio 2015 di rilievoaiaceblogliveri
Una certificazione in piena regola del fallimento delle politiche di spending review e di razionalizzazione dell’organizzazione pubblica.
La deliberazione della Corte dei Conti, Sezione centrale di controllo sulle Amministrazioni dello Stato 9 gennaio 1015, n. 23, mette in evidenza che il re è nudo.
Lo scriviamo da tempo: se è sacrosanta la necessità di rivedere e ammodernare gli assetti organizzativi della pubblica amministrazione nel suo complesso, i metodi utilizzati in questi ultimi anni in particolare si sono rivelati totalmente sbagliati. E la dimostrazione non è data tanto dall’impietosa analisi della Corte dei conti, ma dalle nude cifre. La spesa pubblica, infatti, a scorno della spending review tanto proclamata continua a crescere sempre più, come dimostra il Def.
L’unico aggregato di spesa che si riduce, in un quadro di aumento costante della spesa pubblica, è proprio quello del lavoro pubblico, nei confronti del quale le spending review si sono concentrate, brillando per scelte operative forfettarie, lineari, irrazionali, per utilizzare gli aggettivi diffusi nell’analisi della Corte dei conti.
Se ci si pensa, dunque, il risultato complessivo è paradossale: in un quadro di aumento complessivo della spesa pubblica, si riducono le risorse lavorative, senza un’evidente simmetrico incremento di produttività, in quanto non si è investito su formazione, innovazione, digitalizzazione. Nella realtà, il mix micidiale di aumento della spesa pubblica e depauperamento organizzativo ed amministrativo implica riduzione drastica della qualità dei servizi e degli investimenti (questi ultimi ridotti all’osso a causa delle regole assurde del patto di stabilità interno) ed incremento della corruzione a fronte della slavina della gestione di servizi di natura pubblica verso i privati. I quali, a disdoro di chi racconta la favola che solo il privato è bello, a fronte di un pubblico che è sempre spendaccione, inefficiente e corrotto, spesso si dimostrano ancor meno efficienti e produttivi. L’esempio palpabile è sotto gli occhi di tutti: la gestione dei centri di accoglienza di immigrati o nomadi a Roma; ma la sanità racconta decenni di truffe, corruzioni e pessima amministrazione delle strutture private accreditate.
Certo, la politica e l’amministrazione non sono estranee a queste malversazioni. Tuttavia, quando si gestiscono servizi per loro natura pubblica ed il privato opera, specie se in regime di accreditamento, utilizzando finanziamenti pubblici o comunque pagamenti in qualità di appaltatore, non è certo la personalità giuridica di diritto privato del gestore che modifica la sostanza: sempre di servizi pubblici, finanziati dall’erario si tratta. Il che incide moltissimo sulla teorica capacità di ottimizzare costi e ricavi da parte della libera imprenditoria: ciò avviene nell’ambito di un mercato davvero aperto e concorrenziale. Dove, invece, si rendono servizi sottratti al mercato o, comunque, poco idonei a vera concorrenza, saltano anche i meccanismi propri dell’imprenditoria.
Pensare, dunque, di riorganizzare lo Stato solo immaginando di “affamare la bestia” porta fuori strada.
Le varie spending review, ad esempio, non sono riuscite ad inviduare e ad imporre ambiti operativi nei quali non ha alcun senso l’impegno organizzativo e finanziario del pubblico: si pensi, in particolare alle molteplici società partecipate, nell’ambito delle quali lo Stato si mette a fare l’imprenditore, con scarsa capacità e sottraendo risorse ai servizi da rendere.
La Corte dei conti, dunque, non può che accertare il fallimento delle spending review: “L’esigenza di un riordino generale, pur diffusamente avvertita e riconosciuta, è stata perseguita mediante interventi normativi, le cui prescrizioni progressive palesano come il fine di razionalizzare rivedendo la spesa sia stato superato, essendosi introdotte riduzioni indifferenziate, adottate a prescindere dal contesto di un’adeguata valutazione del rapporto tra attribuzioni intestate, risorse impiegate e servizi da rendere”.
In altre parole, si è fatto esattamente l’opposto di quanto esigerebbe una vera revisione della spesa:
1. individuare i servizi irrinunciabili, strettamente connessi allo scopo e all’esistenza stessa dell’ente;
2. valutare quali fabbisogni sono necessari per renderli;
3. controllare se si rendano servizi di altra natura e si svolgano attività non intimamente connesse allo scopo generale da perseguire;
4. individuare le risorse dedicate a tali fini e comprendere se vi sono distorsioni rispetto agli standard;
5. rivedere il disegno organizzativo, rafforzando i servizi necessari, e riducendo se non azzerando gli altri;
6. conseguire in ultimo eventuali risparmi.
Invece, si è seguito il procedimento opposto, anche utilizzando l’opera di soggetti provenienti dall’esterno della PA, poco avvezzi alle sue regole ed affascinati molto da rilevazioni statistiche generali ed onnicomprensive, inidonee, tuttavia, alle analisi specifiche sintetizzate sopra. Per questo motivo, si è giunti a tagli indifferenziati e lineari e a dare preminenza all’obiettivo del taglio della spesa su quello della razionalizzazione. Lo spiega la Corte dei conti: “Le misure adottate rivelano l’evoluzione della ratio ispiratrice delle medesime, le quali, dettate originariamente a fini di razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni amministrative, sono proseguite indipendentemente da una strategica revisione degli assetti organizzativi esistenti, mutando lo spirito riformatore, indirizzandolo principalmente verso l’obiettivo del conseguimento di economie”,
Rivolta allo Stato, questa indicazione pare fotografare la follia della riforma delle province: un’irrazionale disegno riformatore, in realtà malamente teso a conseguire risparmi. Che con la legge 190/2014 hanno creato un buco a regime di 3 miliardi, che né regioni né comuni vogliono accollarsi, creando anche un paradossale sovrannumero di 20.000 dipendenti, in un quadro nel quale, come chiarisce la magistratura contabile, tutto vi è tranne che esubero di dipendenti pubblici.
Sicchè, chiosa la Corte “Ulteriori interventi, attesa l’assenza di soprannumero di risorse umani dirigenziali e non, potrebbero non consentire una adeguata cura dei servizi”.
Basterà per far comprendere al Governo che non è sbagliato l’obiettivo di riorganizzare e razionalizzare, ma sono sbagliatissimi i modi di operare sin qui adottati?
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