Il giudicato penale non preclude una rinnovata valutazione in sede disciplinare dei fatti accertati dal giudice penale, data la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, appunto quella penale e quella disciplinare. Rimane però fermo il limite dell’accertamento dei fatti nella loro materialità, ovvero della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’imputazione. A sottolinearlo è la Sezione lavoro della Cassazione con la sentenza n. 15464, depositata ieri.
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La decisione
La massima sanzione disciplinare veniva così impugnata dinanzi ai giudici del lavoro che, a distanza di circa 10 anni dai fatti di reato, concludevano con la bontà del licenziamento irrogato. Alla stessa conclusione è pervenuta la Cassazione, che ha respinto i diversi motivi di ricorso dell’ormai ex dipendente pubblico. La Suprema corte ha sottolineato la correttezza della valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto i fatti oggetto del giudizio penale «di gravità e disvalore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, poiché una condotta siffatta aveva senz’altro compromesso il rapporto fiduciario» tra datore di lavoro e dipendente, rapporto che deve essere improntato al rispetto della «lealtà e affidabilità reciproca».
In sostanza, affermano i giudici di legittimità, l’amministrazione, in sede disciplinare, ha rispettato l’articolo 55-ter comma 4 – nella versione risultante dalla riforma Madia – in base al quale il giudicato penale fa stato in ordine ai fatti storici e alla commissione degli stessi da parte dell’imputato. Ciò posto, la stessa amministrazione ha apprezzato in termini di gravità e disvalore la condotta tenuta dal dipendente, ritenendo definitivamente pregiudicato il rapporto di fiducia che deve sussistere tra l’amministrazione pubblica e il lavoratore. Tanto basta per ritenere legittimo il licenziamento.
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