06/06/2019 – Conflitti tra normativa statale in tema di liberalizzazioni, norme regionale e pianificazione urbanistica comunale: le soluzioni offerte dalla giurisprudenza

Conflitti tra normativa statale in tema di liberalizzazioni, norme regionale e pianificazione urbanistica comunale: le soluzioni offerte dalla giurisprudenza

di Michele Deodati – Responsabile SUAP Unione Appennino bolognese e Vicesegretario comunale
Una società attiva nella distribuzione commerciale ha impugnato davanti al competente Tribunale amministrativo regionale gli atti di assenso rilasciati dal Comune a favore di altra società concorrente, interessata ad avviare due medie strutture di vendita. in particolare, oggetto di impugnazione sono stati il permesso di costruire e relative varianti, l’autorizzazione commerciale e la presa d’atto relativa alla scia presentata per successivo ampliamento.
Il giudizio davanti al T.A.R.: concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato
Nel merito, dopo una approfondita ricostruzione del quadro normativo in materia di liberalizzazione, il giudice di primo grado ha respinto il ricorso.
Il ragionamento del giudice è partito dalle esigenze di favorire la più ampia apertura dei mercati, in applicazione dei principi sanciti dalla direttiva Servizi, n. 2006/123/CE, meglio nota come direttiva Bolkestein, con particolare riferimento a quei settori dominati da situazioni di monopolio, come energia, gas, trasporti, servizi postali, telecomunicazioni, ecc.. I numerosi interventi normativi che si sono avvicendati in questo ambito hanno inteso eliminare i diritti speciali, le esclusive e i privilegi concessi alle imprese ivi operanti, favorendo la concorrenza “nel” mercato. Casi emblematici, quelli del trasporto ferroviario, del mercato del gas, dell’energia elettrica, nei quali l’intervento normativo si è sostanziato nella scissione tra la proprietà delle infrastrutture, rimasta in capo alla mano pubblica, e la gestione delle stesse, affidata ad operatori economici dotati dei necessari requisiti tecnico-organizzativi.
Oltre a liberalizzare i settori economici, con le regole di concorrenza “per” il mercato, si è anche inteso garantire che il mercato delle commesse pubbliche avvenisse in base a regole competitive, e cioè attraverso procedure ad evidenza pubblica finalizzate anche ad assicurare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici del settore, in ossequio alle libertà sancite dall’ordinamento comunitario.
Liberalizzazioni e fuga dal regime autorizzatorio
Altra declinazione conosciuta dal fenomeno delle liberalizzazioni, attiene al rapporto con il regime amministrativo previsto per l’accesso di nuove imprese in un determinato mercato. In questo senso, l’avanzare del libero mercato è concepito come il progressivo affrancarsi delle attività economiche dal potere autorizzatorio o di controllo esercitato dai pubblici poteri. L’obiettivo del Legislatore è qui identificato nella facilitazione dell’accesso al mercato di nuovi competitors attraverso il ricorso in via generalizzata e residuale del sistema a controlli successivi ed eventuali, mentre le ipotesi soggette ad autorizzazione espressa vengono relegate ad ambiti marginali o tassativi. A questa categoria appartengono le disposizioni legate alla c.d. “stagione delle liberalizzazioni”, culminata con l’adozione del D.L. n. 201 del 2011(Salva Italia), in particolare degli artt. 31 e 34. Con l’art. 31, comma 2 si è stabilito che costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Salvo il termine del 30 settembre 2012 per adeguare i rispettivi ordinamenti, Regioni ed Enti locali hanno la possibilità di prevedere, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. L’art. 34 completa il quadro disponendo che la disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Concorrenza in senso “statico”, in senso “dinamico” e in senso “trasversale”
A completare ulteriormente il concetto di concorrenza, è utile richiamare l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale, che ha sempre inteso tale nozione comprendendovi sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, a contrastare gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione (senso statico); sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (senso dinamico). Infine, dato il suo carattere finalistico, la tutela della concorrenza non è una materia di estensione certa o delimitata, ma è configurabile come trasversale, “corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle regioni.
Intercalando tali considerazioni sull’art. 31D.L. n. 201 del 2011, si ricava che tale previsione appartiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Liberalizzazioni statali, normative regionali e pianificazione locale: come risolvere le antinomie
Alla luce di questi principi, secondo il T.A.R., le possibili antinomie tra questa previsione statale e la normativa regionale e/o le previsioni pianificatorie adottate dagli enti locali, vanno risolte nel senso che un eventuale provvedimento limitativo non potrà fondarsi sullo stato della pregressa legislazione e/o pianificazione, ma dovrà contenere una specifica motivazione – oggetto di specifico scrutinio giurisdizionale – in ordine alla sussistenza dei suddetti motivi imperativi di interesse generale (da valutarsi ex novo), come tali legittimanti restrizioni ai cennati principi comunitari.
Ne consegue che il conflitto tra la legislazione regionale e i suddetti principi di liberalizzazione comporta la sanzione dell’illegittimità costituzionale, mentre si parla di disapplicazione del diritto nazionale nel caso si riscontri un’incompatibilità con le previsioni europee formulate in modo chiaro, preciso e incondizionato. Di fronte invece all’inerzia delle regioni e degli enti locali, nel caso non abbiano provveduto ad eliminare dai rispettivi ordinamenti le previsioni pianificatorie o regolamentari confliggenti con il regime di liberalizzazione, la conseguenza è l’abrogazione implicita. Tali previsioni andranno considerate come caducate.
L’Appello al Consiglio di Stato
Per quanto abbia riconosciuto che la ricostruzione della normativa in tema di liberalizzazioni fosse corretta, il Collegio d’appello ha respinto le conclusioni a cui è giunto il Tribunale, e con la sentenza n. 3419 del 24 maggio 2019 ha accolto l’appello e il ricorso di primo grado. Si richiama in primis la distinzione tra atti di programmazione economica, su cui prevale la normativa di liberalizzazione, e atti di programmazione non economica, in grado di porre limiti allo sviluppo insediativo in ragione di esigenze legate a motivi imperativi di interesse generale. Secondo il Collegio, tale distinzione opera anche nell’ambito degli atti di programmazione territoriale, nei confronti dei quali deve essere valutata in concreto la finalità perseguita (vedi anche sentenza 7 novembre 2014, n. 5494). Esiste quindi da sempre la possibilità di intendere il regime di liberalizzazione in senso relativo e non assoluto, ammettendo al possibilità, per l’amministrazione, di controbilanciare la libertà di iniziativa economica privata con l’esercizio delle potestà connesse alla pianificazione urbanistica. Del resto, quando la Corte costituzionale si è espressa sull’art. 31 del decreto Salva Italia (D.L. n. 201 del 2011), lo ha fatto ricordando che tale norma non pone al legislatore regionale divieti assoluti di regolazione delle zone adibite alle attività commerciali attraverso gli strumenti urbanistici, né obblighi assoluti di liberalizzazione, ma, al contrario, consente alle Regioni e agli enti locali la possibilità di prevedere “anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali”, purché ciò avvenga senza discriminazioni tra gli operatori e a tutela di specifici interessi di adeguato rilievo costituzionale, quali la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali (sentenza 11 novembre 2016, n. 239).
Il Collegio ha poi accolto l’appello perché, alla luce delle premesse, non è stata sollevata alcuna questione in merito alla potenzialità restrittiva o lesiva della concorrenza offerta dalle norme regionali o di pianificazione locale. In altre parole, non è stato richiesto un giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte dall’autorità comunale rispetto alle effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio. Pertanto, non sono state riscontrate ragioni per considerare le norme locali abrogate, disapplicabili o in ogni caso superate.

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