tratto da quotidianopa.leggiditalia.it
L’autorizzazione allo svolgimento di incarichi esterni deve precedere l’inizio dell’attività, l’autorizzazione “ora per allora” è illegittima
di Massimo Asaro – Specialista in Scienza delle autonomie costituzionali, funzionario universitario Responsabile affari legali e istituzionali
 
L’argomento del regime delle incompatibilità dei dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, è molto trattato da giurisprudenza e dottrina, sia per gli aspetti di responsabilità disciplinare sia per quelli di responsabilità patrimoniale (di tipo sanzionatorio e non risarcitorio, Cass. civ. SSUU sent. n. 1415/2018 e ord. n. 17125/2019). I fondamenti della materia, quali il principio costituzionale di esclusività (art. 98, comma 1, Cost.) e i divieti stabiliti dall’art. 60 del D.P.R. n. 3/1957 (richiamati dall’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001 e dai CCNL per il personale contrattualizzato), possono darsi per cogniti così da proseguire nella disamina della questione per gli aspetti di interesse particolare presenti nella decisione relativi: all’autorizzazione e al procedimento sanzionatorio a carico del terzo.
Tralasciando (di trattare oggi) la responsabilità disciplinare individuale, l’assenza di autorizzazione determina, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del citato D.Lgs. n. 165/2001, l’obbligo di versamento di una somma pari al compenso, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto delle entrate del bilancio dell’amministrazione di appartenenza per essere destinata a incremento dei fondi di produttività o equivalenti. L’omissione del versamento da parte del dipendente pubblico, indebito percettore, costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti (comma 7 bis), come si vdà più avanti. L’Amministrazione procede nei confronti del terzo erogante quando quest’ultimo non abbia ancora corrisposto i compensi al dipendente (Cons. Stato, Sez. I, parere n. 671/2019).
Riguardo all’autorizzazione, la Suprema Corte ribadisce che essa deve essere formalmente rilasciata prima dell’inizio dell’incarico esterno poiché è solo tale atto autorizzativo, adottato a seguito di verifica della compatibilità e dell’assenza del conflitto di interessi, che rimuove il divieto legislativo sopra ricordato e rende legittima la percezione dei compensi derivanti dall’incarico esterno. In questa materia non sono ammesse autorizzazioni con decorrenza antecedente alla data di rilascio; le autorizzazioni hanno effetti pro futuro. L’autorizzazione postuma (successiva alla conclusione dell’incarico esterno) è «ontologicamente incompatibile con la finalità dell’istituto» perché il potere datoriale deve essere esercitato ex ante. La violazione dell’obbligo (formale, ex commi 7 e 9) non può essere sanata da un’autorizzazione intervenuta successivamente (con effetti anche “ora per allora”, cioè retroattivi) al conferimento dell’incarico. Inutile distinguere tra decorrenza ex nunc e decorrenza ex tunc dell’autorizzazione, la sua assenza, anche solo per parte dell’incarico, rende abusiva l’attività svolta dal dipendente pubblico (per la parte non autorizzata, nel caso di autorizzazione successiva all’inizio ma antecedente alla fine dell’attività esterna). Nel contesto del lavoro alle dipendenze dalle PP.AA. non è consentito il rilascio di autorizzazioni postume, differentemente dai casi quali le attività edilizie abusive (autorizzazione in sanatoria) e l’autorizzazione paesaggistica che sono chiaramente ispirati da ragioni differenti. Invece l’art. 53, comma 7, citato si pone quale norma preclusiva a ogni autorizzazione postuma (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, sent. n. 614/2013 e TAR Calabria, Reggio Calabria, sent. n. 195/2017). Le autorizzazioni postume “ora per allora” sono viste con assoluto sfavore dai Giudici amministrativi perché non hanno fondamento legislativo (TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, sent. n. 263/2017 e, più di recente, n. 205/2019 con cui il Tribunale ha persino disposto la trasmissione degli atti alla Procura erariale).
L’art. 53 prosegue, al comma 9, con una prescrizione secondo cui “Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. In caso di inosservanza si applica la disposizione dell’articolo 6, comma 1, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni. All’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della L. 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze.”. La disposizione è diretta a sanzionare una violazione di carattere «formale», integrata cioè dal semplice fatto di un privato che abbia conferito un incarico a un dipendente pubblico senza avere ottenuto preventivamente l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza del dipendente. Qui la norma non richiede alcun (sostanziale) accertamento di danno alla P.A. (ben potendo il pubblico dipendente aver correttamente adempiuto tutti gli altri obblighi lavorativi malgrado lo svolgimento di altra attività non autorizzata). Tanto si deduce dal fatto che il procedimento sanzionatorio, a carico del privato conferente, sia rimesso a un soggetto pubblico diverso dall’Ente pubblico datore di lavoro (Agenzia delle Entrate).
La fattispecie delineata dal comma 7 dell’art. 53 del D.Lgs n. 165/2001, che ha come destinatario il dipendente pubblico che abbia esercitato incarichi in assenza di preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza volta al recupero di quanto illegittimamente percepito, deve essere tenuta ben distinta da quella di cui al comma 9 della medesima disposizione normativa che costituisce autonoma e ulteriore fattispecie sanzionatoria diretta nei confronti dei soggetti privati che hanno conferito incarichi senza autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza al dipendente pubblico e che si sostanzia nella irrogazione di una sanzione amministrativa che rimane incamerata dal Ministero delle finanze (oggi la competenza è riconducibile all’Agenzia delle Entrate) e non dal bilancio dell’ente di appartenenza; non vi è ne bis in idem (TAR Marche, Sez. I, sent. n. 469/2020).
Gli aspetti di giurisdizione. La procedura di irrogazione della sanzione di cui al comma 9 è regolata dalla L. n. 689/1981 e le relative controversie spettano alla cognizione del Giudice ordinario. Diversamente, le controversie sul recupero delle somme da parte della P.A. verso il dipendente, ai sensi del comma 7, spettano alla giurisdizione del Giudice del lavoro per i dipendenti contrattualizzati e a quella del Giudice amministrativo per i dipendenti rimasti in regime pubblicistico. La giurisdizione contabile è ravvisabile “solo se alla violazione del dovere di fedeltà e/o all’omesso versamento della somma pari al compenso indebitamente percepito dal dipendente si accompagnino specifici profili di danno” ed è pure ravvisata nei confronti di dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria Amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, anche se la percezione dei compensi si è avuta in epoca precedente all’introduzione del medesimo art. 53, comma 7 bis (Cass. civ. SSUU ord. n. 17124/2019C. Conti, Sez. giurisd. Campania, sent. n. 333/2019)

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