Appunti per la riforma della Grande Malata italiana: la rivoluzione dei tempi standard per riorganizzare la PA orientandola al cittadino e incentivi per il personale che non siano una mera finzione simbolica
di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
Il Messaggero del primo marzo 2021, nell’articolo a firma di Andrea Bassi “Nega il voto massimo a Tutti – I sindacati: via la dirigente” racconta nel dettaglio il perché del fallimento delle norme sulla valutazione nella pubblica amministrazione. Norme che, si spera, il ministro Renato Brunetta, tornato a Palazzo Vidoni, abbia voglia di correggere, proprio alla luce delle loro storture.
In breve, una dirigente dell’Ispettorato del lavoro di Rimini è sotto accusa, da parte dei sindacati, perché non ha assegnato il voto 100, cioè il massimo, a tutti i dipendenti, ma solo ad alcuni. Per altro, contenendo comunque le valutazioni in un range molto stretto che va da 95 a 100, con la sola eccezione di una valutazione molto più bassa. Da qui, le ire dei dipendenti, sostenuti dai sindacati, che non hanno ottenuto 100, con una “penalizzazione” nella paga – riferisce l’articolo – tra i 10 e i 20 euro.
Cosa ci dice la vicenda? Senza entrare nelle sterili e scivolose polemiche sul ruolo dei sindacati, si ha la conferma dell’errore di impostazione dell’intero impianto normativo sulla valutazione nella PA, malamente costruito scimmiottando le teorie del New Public Management anglosassone, ormai da tempo superate, con la convinzione della possibile efficace estensione alla pubblica amministrazione di tecniche di gestione aziendale.
Cosa valutare, prima del come
C’è un piccolo, ma insuperabile problema: le pubbliche amministrazioni non sono aziende, non producono beni o servizi da vendere sul mercato, non producono dividendi. Gestiscono funzioni e servizi, spesso anche diseconomici (per questo sostenuti dalla fiscalità), per regolare le attività che il legislatore consideri da sottoporre a specifiche normative generali, con l’ambizione (non sempre, purtroppo, confermata dai fatti) di garantire benefici alla comunità amministrata.
L’intera riforma del 2009, applicando in maniera eccessivamente radicale e formalista l’ “aziendalismo” è inficiata dal difetto di aver parlato quasi solo di “performance”, di “ciclo della performance”, di “sistemi di valutazione”, dimenticandosi totalmente del vero cuore del problema: che cosa valutare.
La pandemia ed il ricorso forzato al lavoro agile hanno svelato che, invece, la questione centrale non è come valutare, ma cosa valutare. E che sia necessario conoscere quali sono i compiti che i dipendenti pubblici debbono svolgere, con quali mezzi (finanziari, strumentali, di controllo e di competenza professionale), con quali modalità e tempi.
I bizantinismi della valutazione
È del tutto inutile regolare i sistemi di valutazione, se non si sa cosa si valuta. La riforma del 2009 ha creato un apparato complicatissimo. Ha imposto a tutte le amministrazioni pletorici Organismi Indipendenti di Valutazione, spesso dimostratisi inutilmente costosi e operanti solo sul piano formale. Impone articolate e tortuose modalità di programmazione del sistema di valutazione. Obbliga alla “differenziazione delle valutazioni” dei dipendenti, ma in modo forzato.
Nella sua versione originaria, la riforma del 2009 aveva imposto tre fasce di valutazione, poi superate dalla ulteriore riforma targata Madia del 2017. Che, però, ha reso ulteriormente complicato il sistema, perché impone la presenza di strumenti ed organismi per “ricorrere” contro le valutazioni, allungando i tempi ed esasperando gli animi. Esattamente come accade all’Ispettorato di Rimini.
Il termine certo
Che la normativa oggi in vigore non abbia alcuna aderenza alla realtà lo dimostra un fatto oggettivo. La legge sul procedimento amministrativo, la 241/1990, pone un principio sacrosanto: la pubblica amministrazione deve concludere con un provvedimento espresso entro un termine certo.
Ecco, Titolare, questo termine potrebbe e dovrebbe essere lo strumento principale per determinare l’efficienza dell’operato. Ma, come viene determinato? In modo del tutto astratto e forfettario: 30 giorni. Svariate norme di ogni tipo, sparse nell’ordinamento, possono prevedere per materie diverse termini diversi, ma comunque determinati sempre dal legislatore, così, ad intuito.
Per altro, la stessa legge 241/1990 consente alle amministrazioni di portare i termini da 30 a 90 giorni, ma anche a 180, se lo richieda la sostenibilità effettiva dei 30/90 giorni, sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento.
Come si capisce, la forfettizzazione dei termini e la loro estensibilità ad elastico sono la prova che essi sono imposti dall’alto, perché il legislatore non sa e non ha modo di conoscere il “processo produttivo” delle migliaia e migliaia di funzioni ed attività di competenza della PA. E il termine di 30 giorni, in generale, vale per il ministero, per l’ufficio della regione, del grande comune, del piccolissimo comune e dell’autorità portuale: a prescindere da ogni valutazione della composizione del personale presente, del numero, della competenza, delle risorse finanziarie, informatiche, strumentali possedute, dei carichi di lavoro, delle concrete competenze operative dei dipendenti.
Conoscere (i processi) per deliberare (i tempi)
Insomma, il Legislatore non ha la minima idea di cosa fanno e come lo fanno le amministrazioni e, per questo, in via totalmente astratta e generale prevede tempi e sistemi di valutazione, del tutto ridondanti e fuori mira.
Solo se si abbia cognizione delle metriche del lavoro sarebbe possibile sia definire tempi seri per assicurare ai cittadini la conclusione dei procedimenti. Applicare alla PA simile criterio è difficile, ma non impossibile. La “metrica” prevede un’analisi consapevole delle attività standard necessarie per svolgere un certo processo.
Pensiamo ad un procedimento molto diffuso, quello che si attiva con una richiesta di accesso agli atti amministrativi. La legge dispone che occorra rispondere entro 30 giorni. Per giungere alla decisione di accoglimento o diniego occorre dipanare il processo nei vari compiti da svolgere: acquisire la domanda dal protocollo; smistarla all’ufficio di competenza; prenderla in carico da parte del responsabile del procedimento; avvisare dell’avvio del procedimento l’interessato; leggere il contenuto della domanda; comprenderne il merito; verificare se vi siano dei controinteressati da informare, per farli intervenire ed eventualmente esprimere sull’ostensibilità delle informazioni personali; stabilire se la domanda sia ammissibile; controllare se l’informazione o il documento siano in effetti trattati e conservati in qualche banca dati; verificare se l’interesse all’accesso sia effettivamente concreto, attuale e direttamente collegato all’informazione o al documento; formare il provvedimento finale, col contenuto decisorio; sottoscriverlo; trasmetterlo al richiedente, attraverso i passaggi di protocollazione e spedizione vigenti.
Il proprietario dei processi
Quanto può durare questo processo? Trenta giorni? Oggettivamente, il termine appare molto ampio e comodo. Ma, la sostenibilità del termine dipende dai numeri. Per ogni compito individuato dalla metrica, si può provare a determinare un tempo standard, ricordando che “standard” non vuol dire “fisso”, ma “di riferimento”, quindi comunque flessibilizzabile nella pratica concreta. L’insieme dei compiti svolti, a ben vedere, richiede qualche ora di lavoro, 2 o 3 (non entriamo del dettaglio), che possono aumentare nel caso di particolare complessità dell’istruttoria.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il responsabile dell’accesso non fa solo questo, ma, al contrario, svolge moltissime altre attività. Può essere responsabile dell’accesso il titolare dell’edilizia privata, oppure un assistente sociale, o anche il responsabile di una gara d’appalto: nella vita, svolgono molti lavori e attività.
Non è, dunque, detto, che possano dedicare le ore di lavoro necessarie per l’accesso in modo esclusivo, pronto e deciso, dovendo conciliare questa funzione con le ordinarie altre.
Allora, sarebbe necessario conoscere gli altri compiti che ordinariamente svolgono, per sapere quanto sia il loro impegno standard, la sua distribuzione preventivata nel corso della settimana lavorativa, le scadenze da gestire, almeno quelle programmate. Incastrando questi dati, si riesce a comprendere come e quando sia possibile evadere ogni specifico compito e, dovendo mettere le cose in un certo ordine e, spesso, “in fila” quando.
Possono essere 30 giorni, ma anche meno, o anche di più: dipende, come si è visto, da moltissimi fattori.
Il Legislatore, allora, dovrebbe fare a meno di lanciarsi nella forfettizzazione dei termini, ma studiare gli standard, lasciando agli enti il compito di analizzare le attività e determinare da se stessi termini e modalità.
Il “decreto semplificazioni”,il d.l. 76/2020, convertito in legge 120/2020, lo ha in parte compreso, modificando proprio la legge 241/1990 in modo da introdurvi nell’articolo 2 questo comma 4-bis:
Le pubbliche amministrazioni misurano e pubblicano nel proprio sito internet istituzionale, nella sezione “Amministrazione trasparente”, i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, previa intesa in Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti modalità e criteri di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti, nonché le ulteriori modalità di pubblicazione di cui al primo periodo.
Misurare il lavoro, fissare standard
È chiaro, Titolare, che laddove le PA sappiano misurare il lavoro o quanto meno fissare standard, a quel punto hanno solo da tirare il calcio di rigore: vi sarebbe il set di informazioni necessario per capire se e come i tempi standard sono rispettati, i passaggi realizzati, i processi gestiti e conclusi. La valutazione dei risultati degli uffici, come capacità di realizzare le proprie competenze nel rispetto di standard e di obiettivi politico amministrativi risulterebbe molto più chiara e connessa all’effettiva attività svolta. E, con strumenti capaci di individuare la titolarità delle attività svolte(l’informatica lo consente), anche la valutazione dell’apporto individuale risulterebbe trasparente, sì da non giustificare nemmeno contestazioni sulle valutazioni conseguenti.
Allo scopo, però, Titolare, occorre che la spesa non sia maggiore dell’impresa e che il “premio” al “merito” sia davvero incentivante.
Nel comparto dei comuni, secondo il Conto annuale del personale riferito al 2018, lavorano 356.262 dipendenti; l’ammontare complessivo della spesa connessa ai premi di risultato, nel 2018 fu di euro 357.494.205. Dunque, in media, il “premio” attribuito ai dipendenti è stato di euro 1.003,46 lordi annui.
A queste condizioni, ciclo della performance, Oiv, differenziazione della valutazione, tempi, metriche del lavoro, sembrano davvero ridondanti. Sarebbe molto più economica e chiara un’onesta quattordicesima.
D’altra parte, Titolare, enfatizzare troppo i sistemi di valutazione nella PA e renderli oltremodo complessi e bizantini, perché anche nel “privato” si fa così è un errore clamoroso. I datori privati non si sognano nemmeno di valutare il risultato dei propri dipendenti nel modo complesso ed arzigogolato previsto nella PA e i premi, se sono attribuiti, hanno in generale ammontari per i quali valga la pena costruire un sistema di valutazione da gestire anche per le sue conflittualità.
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