Egregio Titolare,
nell’intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore dell’1.8.2021 “La nuova Pa apre le porte ai giovani”, il Ministro Renato Brunetta insiste su uno degli aspetti che caratterizzerebbero le recentissime riforme sulla pubblica amministrazione ed il reclutamento.
Tuttavia, è proprio il “decreto reclutamento” (il d.l. 80/2021) come modificato dalla legge di conversione che in questi giorni vedrà la luce, ancora una volta, a, non diciamo “smentire l’assunto”, bensì a renderlo molto meno concreto di quanto non sia raccontato.
Infatti, le “porte” che si aprirebbero ai giovani sono precedute da tanti portoni e cancelli, col risultato che i giovani davvero in grado di accedere agli uffici della PA, abbassandone l’età media e favorendo l’ingresso di nuove energie e competenze a ben vedere saranno ben meno di quanto non si preveda. Proviamo a capire.
La corsia rapida con freno per i giovani
Il “decreto reclutamento” prevede la possibilità di assumere con sistema che lo stesso Ministro definisce “fast track”. Le persone interessate potranno candidarsi per lo svolgimento di prove selettive che non sboccheranno direttamente nell’assunzione ma nell’inserimento in un elenco-graduatoria, organizzato su base nazionale per territori e profili. Le amministrazioni interessate potranno assumere senza indire alcun concorso, ma semplicemente attingendo alle graduatorie così formate, nel rispetto del loro ordine.
Ottimo. Ma, il problema è che questo sistema non appare tarato esattamente sui giovani. Infatti, questa modalità di assunzione (che la legge di conversione rende possibile non solo per gli enti che attuino progetti del PNRR, ma a tutte le PA) è rivolto alle cosiddette “alte specializzazioni”, cioè a soggetti che dovranno possedere, alternativamente o anche congiuntamente:
a) dottorato di ricerca o master di secondo livello;
b) documentata esperienza professionale continuativa, di durata almeno triennale, maturata presso enti e organismi internazionali ovvero presso organismi dell’Unione Europea.
Dovrebbe risultare sufficientemente chiaro: non si tratta di modalità di reclutamento adeguate a giovani neolaureati. I requisiti previsti, infatti, sono rivolti a chi abbia titoli post laurea per ottenere i quali occorrono anni, o abbia svolto già attività lavorativa, di durata non breve. Certo, si tratta di assumere chi sia dotato di “alta specializzazione” e questa non può che essere attestata da titoli o esperienze specifici. Ma, allora, andrebbe precisato che la modalità “fast track” non è propriamente un sistema che apre le porte ai giovanissimi.
Mobilità interna solo volontaria
Vi sono, Titolare, tuttavia altri ostacoli che il “decreto reclutamento” frappone all’assunzione di giovani, in contraddizione con l’intento e l’enunciazione che ne sta alla base.
Col decreto, il Legislatore elimina parzialmente il cosiddetto “nulla osta” alla mobilità del personale pubblico. Attenzione: la mobilità nel lavoro pubblico è cosa molto diversa dall’istituto (ormai abolito) di medesima denominazione nel lavoro privato. Nel pubblico è semplicemente il trasferimento da una PA ad un’altra.
Per comprensibili ragioni di contemperamento dell’interesse pubblico ad un’organizzazione stabile dell’ente e dell’aspirazione del singolo lavoratore ad una collocazione reputata più vantaggiosa, il nulla osta è null’altro che l’assenso facoltativamente espresso dall’ente presso il quale presta servizio un dipendente all’intesa raggiunta da questo con un altro ente per il trasferimento verso quest’ultimo.
Potenzialmente, la mobilità potrebbe essere utilissima per allocare in modo migliore i 3,2 milioni di dipendenti pubblici. Uno dei problemi di efficienza del sistema consiste proprio nell’eccessiva concentrazione di dipendenti in certi territori, cui fa fronte una chiara carenza di personale in altri.
Il fatto è, però, caro Titolare, che la mobilità di cui si parla è quella volontaria: cioè il frutto della volontà del singolo dipendente di trasferirsi, laddove colga l’opportunità pubblicizzata da un bando pubblico di un ente che voglia assumere per mobilità.
La volontarietà della mobilità non necessariamente consente la riallocazione ottimale del personale. Anzi, moltissimo personale, prevalentemente del Sud, che lavora al Nord, non vedrebbe l’ora di poter ritornare nelle terre d’origine, sfruttando la mobilità volontaria.
È per questa ragione che il testo originario del decreto reclutamento ha escluso dalla liberalizzazione della mobilità connessa alla soppressione del nulla osta i comparti della sanità e della scuola: il rischio di spopolare le amministrazioni del settentrione era troppo evidente.
La legge di conversione del decreto, dopo fortissime pressioni dei sindaci, esclude dalla soppressione del nulla osta anche i comuni con un numero fino a 99 dipendenti, per evitare di gettare nel caos le amministrazioni locali.
Detto questo, per poco meno della metà dei dipendenti pubblici la mobilità dipenderà praticamente solo dalla loro volontà di trasferirsi. Risulta estremamente chiaro che per una PA assumere mediante mobilità sarà ben più facile e veloce in confronto ad un concorso. Dunque, il decreto dà una spinta comunque molto forte alla mobilità.
Spazio alle promozioni interne
Ma, con la mobilità si assume personale che già è dipendente pubblico: non si assumono ex novo giovani. L’utilizzo, per molti versi comunque opportuno, della mobilità è di per sé, quindi, un ostacolo alla copertura del turn over.
Non basta. Nell’intervista il Ministro evidenzia, a ragione, che il decreto consente “progressioni di carriera più fluide”. Per essere più chiari, la progressione di carriera, nota anche come progressione “verticale”, prima possibile solo superando un concorso pubblico con una limitata (non superiore al 50%) riserva di posti al personale dipendente dell’ente che intendeva assumere, torna ad essere (come circa 12 anni fa) una procedura non concorsuale, ma comparativa, riservata esclusivamente al personale già dipendente dall’ente intenzionato ad offrire l’opportunità della crescita di carriera.
Il decreto consente alle amministrazioni pubbliche di riservare, nella sostanza, il 50% delle assunzioni possibili, sulla base della loro pianificazione dei fabbisogni e delle risorse finanziarie disponibili, alle progressioni verticali.
Il tema delle progressioni è molto delicato: i sindacati, anche se la legge e la contrattazione collettiva non ammette alcuna “relazione industriale” su questo tema, spingono molto per l’apertura alle “promozioni” di carriera. È ovvio che moltissimi sono i dipendenti fortemente attratti dalla possibilità di una crescita.
Il risultato non può che essere uno: le PA, impossibilitate praticamente dal 2011 al 2019 ad attivare le progressioni verticali a causa dei vari tetti alle assunzioni, saranno estremamente affascinate dalla verticalizzazione dei propri dipendenti. Non è difficile immaginare un ricorso di massa a tale procedura. Il che significa che dei posti disponibili per nuove assunzioni, in realtà una percentuale non lontanissima dal 50% teorico ammesso dal decreto sarà in effetti riservato proprio a progressioni rivolte a chi già sia dipendente dell’ente. Il che corrisponde ad una ulteriore barriera ai nuovi ingressi nella PA.
Non Le sfugge, Titolare, che mobilità e progressioni verticali non possono ovviamente dare alcun contributo all’abbassamento dell’età media dei dipendenti, visto che sono rivolte appunto a chi già è dipendente pubblico.
E l’allargamento a mobilità e progressioni verticali lascia aprire qualche dubbio sull’effettiva perseguibilità dell’altro obiettivo sempre enunciato accanto a quello dell’apertura ai giovani: l’acquisizione di “nuove competenze”, necessarie a sopperire alle conclamate carenze tecniche, digitali e “green” della PA. Infatti, il Ministro nell’intervista esulta affermando che oltre a 100.000 assunzioni all’anno (mobilità e progressioni verticali permettendo…), le PA potranno arricchirsi di “decine di migliaia di ingegneri, informatici, professionisti della contabilità, giovani da affiancare alle figure più mature”.
Ma, se si apre così tanto a processi di trasferimento tra enti dei dipendenti già in servizio e alla loro progressione di carriera, allora l’assunto secondo il quale l’età è troppo avanzata e le competenze possedute troppo basse viene clamorosamente smentito.
Consentire di coprire fino alla metà del fabbisogno di personale non con assunzioni di nuovo personale, bensì promuovendo personale già in servizio, implica necessariamente due conclusioni: o non è vera l’affermazione che nel pubblico impiego non vi sono competenze adeguate e che, al contrario, ve ne sono talmente tante da permettere di riservare agli interni metà delle assunzioni programmate; oppure, le stime sui fabbisogni e sui metodi per rinforzare numeri e competenze nella PA, alla base del decreto reclutamento, sono fuori mira.
Qualificati ma precari e poco remunerati
Infine, un’ulteriore barriera “psicologica”. Le assunzioni connesse al PNRR, siano riservate ad alte professionalità o a qualsiasi altro profilo, saranno tutte a tempo determinato, magari anche oltre i 36 mesi, ma comunque a tempo determinato.
Dice il Ministro che occorre “rompere il tabù dei contratti a termine vissuti come occasioni perse”. Bene. Non si capisce, allora, perché la riforma allora abbia lasciato in piedi la previsione dell’articolo 36, comma 1, del testo unico del pubblico impiego: “Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”; bastava modificarlo.
In secondo luogo, una delle ragioni del flop clamoroso del “concorsone per il Sud” è dovuta alla retribuzione prevista, poco più di 1.450 euro netti al mese, per figure professionali considerate di elevata specializzazione.
Il “decreto reclutamento” per le “alte specializzazioni” da assumere con contratti a tempo determinato prevede un inquadramento contrattuale non dissimile da quello azionato col concorsone. Una delle attrattive del lavoro pubblico è sempre consistita nella stabilità del rapporto lavorativo.
Eliminare i “tabù” può anche essere utile, se questo serva ad ottenere risultati utili. Ma, se nel lavoro pubblico si introducono elementi di incertezza sul rapporto di lavoro come il tempo determinato, il loro abbinamento con rigidità contrattuali molto forti (assenza totale di fringe benefit, ad esempio) e la remunerazione non certo elevata, non si vede come ciò possa rendere attrattivo il reclutamento nella PA, specie per chi comunque un lavoro nel privato già lo abbia.
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