Incostituzionali incarichi dirigenziali ai funzionari
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Con la sentenza 180/2015 la Consulta estende, come era inevitabile, alle regioni le conclusioni già tratte nei confronti delle Agenzie fiscali nella pronuncia 37/2015. Quando i comuni si adegueranno?
La Corte costituzionale continua nel suo meritorio processo di demolizione degli incarichi dirigenziali a funzionari delle amministrazioni conferenti, posto in essere dalle amministrazioni in modo sempre da violare gli stretti vincoli pur previsti dalle norme che li regolano. Norme come gli articoli 19, commi 6 e seguenti, del d.lgs 165/2001 e l’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 che sarebbe opportuno abolire, comunque, al più presto, ma che invece con la legge delega di riforma della PA il Governo pare volersi tenere ben strette.
La Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 2, comma 9-bis della legge regionale della Basilicata 31/2010, introdotto dall’articolo 51, comma 4, della legge regionale 26/2014.
Il contenuto della norma incostituzionale è sostanzialmente identico alle disposizioni regolamentari adottate negli anni dalle Agenzie fiscali, per crearsi norme ad hoc per potere incaricare, ovviamente senza alcun concorso, propri funzionari come dirigenti: prassi incostituzionale e come tale censurata dalla Consulta nell’ormai celeberrima sentenza 37/2015.
Era chiarissimo che quest’ultima pronuncia non potesse considerarsi come circoscritta al sistema delle Agenzie: la Corte costituzionale, quale giudice delle leggi, tratta di principi generali, validi per l’intero ordinamento.
Amministrazioni statali, regioni ed enti locali avrebbero dovuto da subito trarre le conclusioni e correggere il tiro, ravvedendosi sul sistema di cooptazione degli incarichi, come si è avuto modo già di scrivere (vedasi La Settimana degli Enti Locali 11/2011, L. Oliveri, “Chiudere per sempre l’esperienza degli incarichi dirigenziali a funzionari”).
Sta di fatto che, invece, regioni ed enti locali non se lo sono nemmeno sognato e continuano come nulla fosse ad elargire incarichi dirigenziali senza concorsi.
La norma costituzionalmente illegittima della regione Basilicata, sintetizza la Consulta, “prevede la possibilità di attribuire, nelle more dell’espletamento dei concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica dirigenziale e, comunque, per non oltre due anni, le funzioni dirigenziali a dipendenti a tempo indeterminato di ruolo dell’amministrazione regionale appartenenti alla categoria D3 giuridico del comparto Regioni-Enti locali in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, previo espletamento di apposite procedure selettive, stabilendo, altresì, che al dipendente incaricato spetti, per la durata dell’attribuzione delle funzioni, il trattamento tabellare già in godimento e il trattamento accessorio del personale con qualifica dirigenziale”. Esattamente lo stesso “trucco” escogitato dalle Agenzie: attribuire incarichi dirigenziali ai funzionari “nelle more” di concorsi che poi non si espletano mai, e costruirsi un apparato di dirigenti “fedeli”, che debbono sdebitarsi della qualifica dirigenziale “ottriata”, grazie alla dazione feudale dell’organo politico.
Il fenomeno della dirigenza a contratto, attribuita senza concorsi, nel sistema degli enti locali è diffusissimo ed ormai fuori controllo. La Corte dei conti, Sezione Autonomie, con la deliberazione 16/2015 ha attestato che su 8000 dirigenti presenti in regioni ed enti locali, 6038 sono di ruolo, assunti con concorso; 1962 sono quelli “a contratto”, per una percentuale complessiva pari al 32%. In particolare nelle province su 971 dirigenti di ruolo, 240 sono incaricati a contratto, il 24,7%; nelle regioni 1891 sono i dirigenti di ruolo e 261 quelli a contratto, per una percentuale del 13,8%; nei comuni i dirigenti di ruolo sono 3176, mentre quelli a contratto sono 1461: una percentuale del 46%!
Si capisce, dunque, perché il d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014 ha esteso per i comuni al 30% la percentuale di dirigenti incaricabili a contratto: è solo il tentativo di sanare la violazione dei limiti numerici imposta a seguito della riforma Brunetta.
Dei 1962 dirigenti a contratto non è noto quanti siano i funzionari beneficiati della cooptazione incostituzionale. Ma probabilmente sono in tanti, comunque troppi.
La pronuncia della Consulta 180/2015 è estremamente importante per una serie di ragioni, tali da chiarire moltissimi aspetti, furbescamente considerati controversi dalle amministrazioni.
In primo luogo, la Consulta richiama e conferma le statuizioni della sentenza 37/2015. E’ opportuno ricordarle: “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (sentenza n. 194 del 2002; ex plurimis, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009)”. Si tratta di indicazioni erga omnes, valevoli per l’intero ordinamento pubblico, anche se molte amministrazioni continuano a fare orecchie da mercante e a permanere nell’illegalità.
In secondo luogo, la Corte costituzionale si occupa del problema del rapporto che si innesca tra conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari interni ed attribuzione di mansioni superiori.
La Consulta nega la possibilità di introdurre disposizioni normative (leggi regionali o regolamenti che siano) tendenti a qualificare il conferimento di incarichi dirigenziali un surrogato delle “mansioni superiori” per il fine di coprire posti della dotazione organica dirigenziale nelle more dei concorsi: “il comma 9-bis introdotto al citato art. 2 con la norma regionale ora impugnata (l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26 del 2014) interviene a dettare norme specificamente in tema di assegnazione temporanea di personale ad altre mansioni (nella specie di rango dirigenziale), norme che, peraltro, risultano difficilmente riconducibili alle fattispecie delineate dal d.lgs. n. 165 del 2001. Esse, infatti, non configurano un’ipotesi di legittimo conferimento di mansioni superiori (di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), in quanto, oltre a non soddisfare i requisiti prescritti dal citato decreto legislativo (e dal relativo contratto collettivo), delineano il conferimento di funzioni corrispondenti ad una diversa ‘carriera’ (quella dirigenziale, appunto), piuttosto che di mansioni superiori, sanzionato dall’art. 52, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001. Nè si può ravvisare la fattispecie della reggenza, poichè quest’ultima ricorre solo in caso di vacanza di posto in organico, di temporaneità e straordinarietà, con la conseguenza che non si producono gli effetti retributivi propri del riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori. Nella specie, infatti, la norma regionale dispone che la temporaneità dell’incarico potrebbe espandersi fino a due anni e riconosce ai soggetti investiti del medesimo incarico sulla base di apposite procedure selettive il trattamento retributivo accessorio del personale con qualifica dirigenziale”.
E’ centrale il passaggio in neretto. La Consulta spiega, si spera una volta e per sempre, che il passaggio da funzionario a dirigente implica il salto da una carriera funzionale ad un’altra. Dunque, l’istituto delle mansioni superiori proprio non può minimamente applicarsi, in quanto la disciplina dell’articolo 52, comma 2, del d.lgs 165/2001, stabilisce che “il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore”. Ma, la dirigenza non è una qualifica immediatamente superiore a quella di funzionario, bensì, appunto, una diversa carriera, alla quale si può accedere esclusivamente per concorso.
L’unico aggancio tra carriera delle qualifiche nella posizione di funzionario e carriera dirigenziale è l’istituto della reggenza, diverso da quello delle mansioni superiori perché, come spiega sempre la Consulta, non comporta gli effetti retributivi propri delle mansioni superiori.
Terzo fondamentale insegnamento della Consulta: l’unica fonte che possa legittimamente disciplinare l’accesso alla dirigenza è la legge statale. Sancisce la Consulta: “E’ indirizzo costante di questa Corte quello secondo cui per effetto della ‘intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che interessa, altresì, il personale delle Regioni, la materia è regolata dalla legge dello Stato e, in virtù del rinvio da essa operato, dalla contrattazione collettiva’ (sentenza n. 286 del 2013). Infatti, a seguito della suddetta privatizzazione, la materia cui va ricondotto il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ivi comprese le Regioni è quella dell’ordinamento civile, che appartiene alla potestà del legislatore statale, il quale ‘ben può intervenire […] a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, anche in relazione ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni (sent. n. 19 del 2013)’ (sentenza n. 228 del 2013). In altri termini, ‘la disciplina del rapporto lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato è rimessa alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., in quanto riconducibile alla materia ‘ordinamento civile’, che vincola anche gli enti ad autonomia differenziata (cfr. sentenza n. 151 del 2010; sentenza n. 95 del 2007)ª (sentenza n. 77 del 2013)”.
Dunque, le regioni (come le Agenzie) non dispongono di alcuna potestà normativa per “adeguare” a proprio uso e consumo la disciplina statale e crearsi regole particolari, per beneficiare i funzionari. Tanto meno lo possono gli enti locali, con fonti quali statuti e regolamenti, persino di rango inferiore alle leggi regionali, alle quali è precluso interpolare le leggi statali, data l’esclusività della potestà normativa in tema di ordinamento civile.
Chissà se il messaggio risulterà finalmente chiaro. C’è da dubitarne. Ciascun ente aspetterà una singola pronuncia della Corte costituzionale per rassegnarsi. E poiché le norme degli enti locali non passano per il vaglio della Consulta, c’è da scommettere che gli incarichi a contratto a funzionari interni continueranno a fioccare, complice la normativa apparentemente ambigua che li consente.
Non si finirà mai, tuttavia, di ricordare che l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 pone vincoli strettissimi per incaricare funzionari come dirigenti. Intanto, si pone il problema irrisolvibile della verifica dell’assenza di professionalità interne. La Corte dei conti ha formulato la “bugia pietosa, al medico concessa” che la verifica della professionalità debba limitarsi alla provvista di dirigenti e non all’intero ente, cosa, ovviamente, semplicemente assurda. Si prospetta, cioè, al tempo stesso l’assenza di professionalità, come presupposto per fornire un incarico dirigenziale ad una professionalità presente (che potrebbe perfettamente essere utilizzata con apposite deleghe). Un capolavoro di ipocrisia giuridica.
Poi, occorre ricordare che i requisiti soggettivi richiesti dall’articolo 19, comma 6, sono costruiti in modo tale da presupporre che detti requisiti siano non inferiori a quelli accertati in capo ai dirigenti pubblici per effetto del concorso. Gli incarichi dirigenziali a contratto, infatti, possono essere conferiti a “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale”:
- a) che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali;
- b) o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza;
- c) o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
Scartata la possibilità che i funzionari delle amministrazioni possano rientrare nella fattispecie c), essi potrebbero essere destinatari dell’incarico dirigenziale solo a condizione che si accerti in capo a loro il possesso dei requisiti di cui alle lettere a) e b).
In particolare, i requisiti di cui alla lettera b) debbono essere posseduti in modo cumulato: non basta, cioè, la semplice circostanza di avere condotto con l’amministrazione conferente un’esperienza di lavoro di almeno 5 anni in posizione funzionale che consentano l’accesso alla dirigenza: questo è un requisito ordinario che vale per partecipare ai concorsi. Occorre qualcosa in più, per giungere al possesso della particolare e comprovata qualificazione professionale: il funzionario pubblico, per poter essere incaricato come dirigente senza concorso, deve disporre della formazione postuniversitaria e deve aver prodotto pubblicazioni scientifiche. Questo plusvalore consente di poter considerare l’interessato potenzialmente in grado di entrare temporaneamente nella carriera dirigenziale, senza passare per una procedura di accertamento della capacità, concorrenziale ed aperta a tutti, come il concorso.
Poi, si potrà opinare in merito alla capacità effettiva dei concorsi di selezionare davvero i migliori, si potrà discettare sull’autonomia del datore di lavoro privato che seleziona i dirigenti sulla base di personali valutazioni, lamentare, dunque, i lacci e laccioli che ingessano la funzione datoriale pubblica. Tutto possibile, ogni argomentazione è valida. Ma, lo è finchè riguardi la teoria generale del diritto e dell’azienda e il diritto da costruire come si vorrebbe fosse. Se si tratta di commentare il diritto come esso è, come la Costituzione lo disciplina e come la legge lo dettaglia, questi discorsi, interessanti su un piano astratto, in punto di diritto risultano oziosi e, comunque, non trovano spazio nella giurisprudenza costituzionale.
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