Tratto da: lavoripubblici.it

In tema di abusi edilizi, le misure ripristinatorie si caratterizzano per il fatto che attengono al bene e non al reo, motivo per cui si applicano anche a chi si trovi in una data relazione giuridica con la cosa, in qualità di attuale proprietario dell’immobile, a differenza della sanzione intrinsecamente afflittiva che si applica nei confronti dell’autore della violazione.

 

Si sofferma sul principio di proporzionalità tra tutela dell’interesse pubblico al ripristino della legalità e diritto alla proprietà e all’abitazione la sentenza del Consiglio di Stato del 10 maggio 2024, n. 4247 con la quale i giudici di Palazzo Spada hanno respinto l’appello presentato contro l’ordine di demolizione di un edificio, ricadente in una zona dove era consentita la sola realizzazione di “attrezzature sportive”, interamente realizzato sine titulo e oggetto di un’istanza di sanatoria accolta solo per il piano seminterrato e per quello rialzato.

Secondo il ricorrente, sarebbe stato violato l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, laddove stabilisce che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale». In particolare, la disposizione imporrebbe una valutazione della proporzionalità della misura demolitoria rispetto alla posizione giuridica sulla quale va ad incidere che nella specie non vi sarebbe stata.

Spiega il Consiglio che per essere considerata compatibile – quindi non in contrasto – con l’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU, l’ingerenza dello Stato nella proprietà privata deve soddisfare alcuni requisiti con relative condizioni:

  • una base legale che la giustifichi;
  • lo scopo legittimo della stessa;
  • il perseguimento di tale scopo in maniera necessaria e proporzionale.

In sintesi, il processo logico che deve essere svolto, caso per caso, vuole il rispetto, per gradi:

  • del principio di legalità;
  • del principio di necessità;
  • di quello di proporzionalità.

 

Con riferimento all’applicazione del principio di proporzionalità, occorre ricordare che il fenomeno sanzionatorio non è unitario. Quale che ne sia la natura, sottolineano i giudici, le misure ripristinatorie si caratterizzano per il fatto che attengono al bene e non al reo. Per tale ragione, esse si applicano anche a chi si trovi, casualmente, in una data relazione giuridica con la cosa, in qualità di attuale proprietario dell’immobile, laddove la sanzione intrinsecamente afflittiva si applica nei confronti dell’autore della violazione, in considerazione della sua funzione preventiva, e richiede pertanto l’elemento psicologico nel relativo autore.

D’altro canto, i rimedi ripristinatori hanno l’insostituibile funzione di garantire, con uno strumento pratico, il buon governo del territorio del quale la necessità del previo titolo edilizio costituisce attuazione singola al pari della pianificazione urbanistica, che invece declina in termini generali la vocazione dello stesso.

Ciò è talmente vero che il legislatore consente, ma non impone, di scongiurare la demolizione accedendo alla sanatoria ordinaria nei soli casi di doppia conformità dell’opera al regime di edificabilità dei suoli vigente al momento della sua realizzazione e a quello di presentazione dell’istanza: la distinzione che ne consegue tra abusi solo formali e abusi sostanziali non cambia cioè il regime delle conseguenze, laddove non sia l’interessato ad optare per la richiesta regolarizzazione postuma dell’illecito.

Questo vale a maggior ragione ove si consideri come spesso un intervento edilizio finisce per intersecare altri interessi pubblici oltre a quello al corretto assetto del territorio, quali, a mero titolo di esempio, la tutela del paesaggio, nell’accezione ampia da ultimo assunta dalla stessa, o qualsivoglia regime vincolistico speciale, a fronte del quale la proprietà assume rilievo in termini di valore economico destinato a soccombere ove lo ius aedificandi non venga esercitato in conformità con le superiori regole imposte in materia.

Diritto all’abitazione: l’abuso di necessità

Con questo, il Consiglio ha voluto evidenziare che sotto il profilo contenutistico anche la giurisprudenza della Corte EDU, ha assunto sempre quale tertium comparationis per valutare la proporzionalità delle sanzioni demolitorie non la sola proprietà, ma il suo concerto utilizzo, valorizzando cioè un bene primario quale la casa, strumento ed espressione della possibilità di vita dignitosa dell’individuo, senza peraltro mai omettere il richiamo all’ampia discrezionalità di scelta lasciata dal Protocollo al legislatore nazionale.

Tuttavia, finanche quando venga all’evidenza il diritto di abitazione, non si può configurare alcun autonomismo interpretativo, motivo per cui i giudici di legittimità hanno introdotto alcuni elementi sintomatici del c.d. abuso di necessità, tali tuttavia da non operare mai isolatamente ma in concorso gli uni con gli altri, e comunque sempre avuto riguardo alla destinazione del bene ad esigenze abitative, non ludiche, ricreative, culturali, imprenditoriali o altro.

Si è dunque dato rilievo a fattori inerenti la situazione soggettiva dell’autore, quali l’età anagrafica avanzata, la povertà o comunque il basso reddito, ma anche, congiuntamente e in senso diametralmente opposto, la consapevolezza dell’illiceità della propria condotta sin dal momento del suo averla posta in essere; e ancora la decorrenza di un vasto lasso di tempo tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l’attivazione del procedimento di esecuzione, ovvero tra quest’ultima e la possibilità di regolarizzazione, o di ricerca di una soluzione alternativa alle proprie esigenze abitative.

Ne deriva che le contingenze eccezionali, la buona fede, nonché la assoluta mancanza di alternative devono dunque essere addotte e provate dal ricorrente, tenuto conto altresì della dimensione dell’abuso, e dunque della proporzionalità, a valori invertiti, dello stesso rispetto ai bisogni primari del soggetto agente.

Nella specie, non solo manca tale allegazione, ma finanche la sua mera enunciazione. D’altro canto, il procedimento di sanatoria, dal cui diniego è scaturito quello sanzionatorio, era finalizzazione a legittimare ex post «la realizzazione di una sala da adibire a tennis da tavolo, con annessi servizi, a piano primo». Il tutto a completamento di un’edificazione, essa pure abusiva, ma avallata dal Comune, destinata esclusivamente ad attività imprenditoriale, o comunque sportiva, la cui rilevanza in termini di tutela prioritaria rispetto al sistema sanzionatorio vigente in materia urbanistico-edilizia non è in alcun modo dato comprendere.

Né, si può evocare una diversa qualificazione dell’illecito, che scorporando la costruzione nei tre piani che la compongono, dequoti la totale mancanza di titolo rispetto ad uno di essi a parziale difformità da quello in sanatoria ottenuto (per gli altri due, egualmente edificati abusivamente, sì da poter fruire di una fiscalizzazione dell’abuso in luogo della sua demolizione (art. 34 del T.u.e.). In sintesi, l’originaria mancanza di permesso di costruire riferita a tutto il fabbricato non può trasformarsi in mancato rispetto dei limiti contenuti in quello rilasciato a sanatoria parziale, che neppure esisteva al momento dell’edificazione del piano residualmente rimasto in controversia.

Infine, il Consiglio ha ricordato alcuni principi fondamentali in materia, ovvero che:

  • il decorso del tempo rispetto all’adozione del provvedimento demolitorio, non può ex se consolidare l’affidamento del proprietario nel mantenimento della costruzione, non potendosi lo stesso configurare come legittimo giusta la illiceità originaria della stessa;
  • data la natura vincolata dell’attività repressiva degli abusi edilizi attraverso l’ordinanza di demolizione, essa non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, stante che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinarne un esito differente;
  • il giudice penale è chiamato ad occuparsi della misura ripristinatoria solo allorquando addivenga ad una pronuncia di condanna per le contravvenzioni di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed in connessione con la stessa. Egli cioè adotta un atto dovuto, espressione di un potere autonomo, ma solo nei casi in cui «la demolizione delle opere stesse […] non sia stata altrimenti eseguita» (art. 31, comma 9, T.u.e.).  In questo modo si assegna all’ordine di demolizione irrogato dal giudice penale un ruolo di chiusura, volto a garantire il raggiungimento del risultato finale – l’eliminazione degli abusi e il ripristino delle porzioni di territorio compromesse – cui l’intero sistema di tutele è preposto. La demolizione disposta dal giudice penale ha dunque pur sempre natura di sanzione amministrativa di contenuto ripristinatorio, con la differenza che la sua esecuzione compete al pubblico ministero e, in caso di controversie, al giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt. 655 e ss. c.p.p.; per contro, il giudice amministrativo è chiamato a pronunciarsi, come nella specie, non sulla responsabilità dell’autore dell’illecito, ma sulla correttezza e, per quanto qui di interesse, adeguatezza, della misura ripristinatoria adottata.
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