Tratto da: lavoripubblici.it

Autore: Gianluca Oreto

L’utilizzo della CILA, la definizione di tettoia, quella di porticato e i relativi regimi abilitativi, il cambio di destinazione d’uso da garage o cantina a residenziale e la sanatoria sismica. C’è davvero di tutto nel nuovo intervento del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 3645 del 22 aprile 2024, entra nel merito di alcuni argomenti “caldi” che riguardano l’utilizzo operativo delle disposizioni contenute nel d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia).

Una sentenza resa dai giudici di Palazzo Spada in riferimento ad un appello presentato avverso una decisione del TAR che aveva confermato il diniego di sanatoria ex art. 36 del Testo Unico Edilizia (TUE), riferito ad una serie di interventi su un fabbricato di proprietà facente parte di un complesso immobiliare composto da otto villini a schiera, e confermato l’ordine di demolizione emesso dal comune sulle opere non sanate.

Nel caso di specie, era stata presentate istanza di accertamento di conformità per sanare:

  • la modifica di destinazione d’uso da garage/cantina ad abitazione dei locali seminterrati;
  • la realizzazione di una scala di collegamento tra questi ultimi e il piano terra e di una tettoia/porticato.

Interventi che erano stati conclusi a seguito di comunicazioni inizio lavori asseverate (CILA).

Relativamente alla CILA, argomento sul quale abbiamo registrato parecchi interventi della giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato, confermando le statuizioni del TAR, ha rilevato come l’utilizzo della stessa per interventi che chiaramente richiedono un titolo diverso, in particolare il permesso di costruire, lo rende tamquam non esset (come se non esistesse) quindi inefficace.

L’attività edilizia realizzata sulla base di una CILA inefficace non può che configurare un abuso edilizio.

Sul punto e sulla base di principi ormai consolidati, il Consiglio di Stato ha confermato la differenza tra:

  • il controllo sulla completezza di una pratica, ovvero sulla compatibilità dell’intervento con il vigente regime urbanistico, che il Comune è tenuto ad effettuare nei termini stabiliti dal legislatore per l’adozione dei provvedimenti interdittivi, sospensivi o conformativi;
  • il potere di vigilanza, che consente in ogni momento di reprimere quanto realizzato travalicando totalmente l’ambito di riferimento del modello prescelto, cioè edificando di fatto sine titulo.

Tra le altre cose, nel caso di specie è stata presentata una “CILA in sanatoria” (non tardiva, proprio in sanatoria!), assolutamente inidonea a sanare “nuove costruzioni” tali peraltro da incidere su volumetria, sagoma, prospetti e superficie dell’immobile.

Altro punto su cui si discute è la compatibilità urbanistica di quella che l’appellante definisce “tettoia” che, a suo dire, in ragione della sua esigua consistenza non si porrebbe in contrasto con le norme tecniche di attuazione del Piano Particolareggiato Esecutivo (PPE).

Prima di entrare nel merito, il Consiglio di Stato ricorda le definizioni contenute nel Regolamento edilizio-tipo a mente del quale si definisce:

  • tettoia: elemento edilizio di copertura di uno spazio aperto sostenuto da una struttura discontinua, adibita ad usi accessori oppure alla fruizione protetta di spazi pertinenziali;
  • portico/porticato: elemento edilizio coperto al piano terreno degli edifici, intervallato da colonne o pilastri aperto su uno o più lati verso i fronti esterni dell’edificio.

Nel caso di specie “Quand’anche ciò non basti a qualificare l’opera in concreto come “porticato”, piuttosto che “tettoia”, sia per la presenza dei pilastri o piedritti, sia per l’ubicazione in sviluppo del fronte del villino, ne è chiaro l’impatto sulla sagoma dello stesso. Esso dunque non solo costituisce una “nuova opera” per la quale è l’appellante, come già detto, ad aver chiesto il permesso in sanatoria, ma a maggior ragione rientra nella più generica dizione di «costruzione accessoria», vietata dall’art. 13 delle N.T.A. del piano particolareggiato operante nella zona. Né si comprende in che modo tale assunto possa essere confutato attingendo alle previsioni derogatorie contenute nell’art. 5 delle medesime N.T.A., che consentono la creazione di volumi da computare nell’indice di fabbricabilità fondiaria, solo ove «relativi ai servizi per le eventuali attrezzature per gioco e sport», ovvero situazioni completamente estranee alla tipologia di manufatto di cui è causa”.

Il Consiglio di Stato ricorda, pure, che ai sensi dell’art. 3, lett. e.6), del TUE, a certe condizioni, le pertinenze sono sottratte al genus della nuova costruzione. La pertinenza urbanistico-edilizia, tuttavia, per consolidata giurisprudenza, è cosa ben diversa da quella civilistica, in quanto è ravvisabile solo allorquando sussista un oggettivo nesso che non consente altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole rispetto al bene principale, ferma restando la dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa a cui inerisce e sempreché non comporti un maggiore carico urbanistico.

A differenza, cioè, da quella di cui all’art. 817 del codice civile («cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa»), la pertinenza de qua presuppone che il manufatto sia non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di un autonomo valore di mercato, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con quest’ultimo. Rapporto di asservimento necessario non giustificabile certo con la rappresentata necessità di salvaguardare l’immobile dalle avverse condizioni metereologiche, stante che attingendo a tale generico concetto si finirebbe per giustificare qualsivoglia superfetazione delle facciate, a prescindere dal suo impatto sull’aumento di superficie utile e sui prospetti del fabbricato cui accede.

Importanti sono i principi che riguardano il cambio di destinazione d’uso. Nel caso di specie, l’appellante rivendica la natura di “pertinenza dell’abitazione” di un intero piano, tale per cui:

  • da un lato, l’avvenuta realizzazione al suo interno di un servizio igienico non sarebbe idonea a mutarne la destinazione;
  • dall’altro, ove si ritenga che un cambiamento sia in effetti intervenuto, esso non avrebbe comunque rilevanza sotto il profilo urbanistico, in quanto riferito ad un’area che era e resta a servizio della casa.

Tesi assolutamente rigettate dal Consiglio di Stato che ricostruisce la normativa ed i suoi principi.

La modifica di destinazione d’uso non costituisce di regola una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse:

  • quale limite negativo, si pensi al concetto di manutenzione straordinaria che non può comportare «mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari;
  • come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo) che può determinare anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare.

L’art. 10 del TUE, nel declinare gli interventi subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito di stabilire “quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività”, con ciò conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente funzionale, o senza opere, nei casi di astratta rilevanza dello stesso.

La modifica di destinazione d’uso che si risolve in una trasformazione urbanistica costituisce nuova costruzione. In passato, l’individuazione degli indici della trasformazione urbanistica veniva basata dalla giurisprudenza sul criterio dell’incidenza e del pregiudizio in concreto agli standard urbanistici e alle dotazioni territoriali.

Con l’introduzione delle categorie di destinazione urbanistica (art. 23-ter nel TUE), si è cercato di precostituire a monte le situazioni con riferimento alle quali il carico urbanistico si presuppone omogeneo, indirettamente suggerendo anche una certa uniformità terminologica nella declinazione delle funzioni da parte degli Enti locali nei vari strumenti di governo del territorio.

L’art. 23-ter citato riduce a cinque le categorie funzionali:

  • residenziale;
  • turistico-ricettiva;
  • produttiva e direzionale;
  • commerciale;
  • rurale;

all’interno delle quali, almeno in termini astratti e generali, il carico urbanistico si presume analogo, sicché assume rilevanza solo il passaggio dall’una all’altra, quand’anche non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie.

L’introduzione delle categorie, rilevano i giudici di secondo grado, per la sua portata assorbente della valutata incidenza sul carico urbanistico, ha fatto perdere un po’ di significatività alla distinzione, tradizionalmente operata in dottrina e giurisprudenza, tra:

  • modifiche di destinazione d’uso funzionali o senza opere;
  • modifiche di destinazione d’uso realizzate tramite le stesse.

Ciò che conta, infatti, è non tanto la modalità di realizzazione del cambio, ma gli effetti che produce.

Laddove l’individuazione di elementi sintomatici si renda necessaria a stabilire se in concreto cambio c’è stato o meno, essi vanno individuati caso per caso, a partire proprio da quelle dotazioni che, a maggior ragione ove consistite non in elementi di arredo ma in fattori strutturali, tradizionalmente connotano un determinato utilizzo del bene, in quanto necessarie allo scopo.

Quand’anche, dunque, in singoli casi la realizzazione del servizio igienico o di un mero vano wc può non assumere rilevanza ex se, come nel caso in cui il manufatto “pertinenziale” non fa parte della medesima unità abitativa, lo stesso non è a dire laddove, oltre a tale circostanza “logistica”, allo stesso si aggiungano altre dotazioni strutturali tipicamente riconducibili all’uso abitativo, quali la presenza di locali c.d. “pluriuso”, e segnatamente della cucina.

La disciplina urbanistica, tuttavia, si connota, o quanto meno dovrebbe connotarsi, per la necessaria commisurazione delle dotazioni territoriali all’impatto in termini di carico prodotto da una determinata destinazione, la cui ampiezza è evidentemente calcolata avuto riguardo alla assentita fruibilità funzionale. La fruibilità funzionale all’uso residenziale è data cioè dalla superficie e dalla volumetria abitabile, ovvero rispondente ai requisiti minimi di vivibilità contenuti, nel loro nucleo originario successivamente integrato anche da regolamenti comunali di settore, nel d.m. 5 luglio 1975.

In altre parole, la volumetria assentibile su cui si basa il calcolo degli indici edificatori è quella “abitabile”, perché consente di individuare l’estensione anche potenziale dell’insediamento umano e la pressione che lo stesso è necessariamente destinato a produrre sul contesto inteso come necessità di fruire delle opere di urbanizzazione, primaria o secondaria.

Le volumetrie di servizio, pur latamente intese, in quanto strutturalmente inidonee a incrementare ridetta pressione da parte della popolazione residenziale, che rimane immutata, sono inserite al solo scopo di migliorare la qualità della vita della zona anche in relazione al singolo complesso immobiliare.

L’art. 23-ter del TUE non individua un’autonoma categoria “pertinenziale”, essendo la stessa, proprio in quanto tale, quella della zona in cui si inserisce, ma mantenendo una finalizzazione d’uso diversa e mirata. Da qui il condiviso orientamento giurisprudenziale che ha da sempre ricondotto il cambio di destinazione d’uso da cantina o garage a civile abitazione tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire. Diversamente opinando, si addiverrebbe alla paradossale conclusione che l’introduzione delle categorie urbanistiche omogenee, necessariamente espressa in termini di macro organizzazione sistemica e non di disciplina di dettaglio, si sarebbe risolta in una sostanziale liberalizzazione delle trasformazioni di tutti i locali lato sensu di servizio in residenziali.

Ultimo importante aspetto su cui si discute è la possibilità di “sanatoria sismica”. Tema sul quale non esiste un orientamento pacifico ma che viene trattato compiutamente nel nuovo intervento del Consiglio di Stato che mette “in fila” la normativa edilizia e una serie di interventi della Corte Costituzionale e della Cassazione, per arrivare ad una tesi che, in effetti, convince.

Preliminarmente il Consiglio di Stato ricorda che, ai sensi dell’art. 94-bis del TUE, gli interventi sono classificati:

  • rilevanti” nei riguardi della pubblica incolumità;
  • di “minore rilevanza” nei riguardi della pubblica incolumità;
  • “privi di rilevanza” nei riguardi della pubblica incolumità.

Altro aspetto riguarda l’art. 65 del TUE secondo il quale “Le opere realizzate con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico tramite posta elettronica certificata (PEC)”, con ciò ampliando la platea dei fabbricati soggetti al relativo adempimento.

La disciplina interseca gli interventi «privi di rilevanza» da un punto di vista sismico che pertanto rientrano comunque in tale regime di denuncia preventiva. Il combinato disposto delle due norme, caratterizzate da un rinvio reciproco (l’art. 65, comma 8-bis, prevede infatti che agli interventi privi di rilevanza non si applichino le disposizioni sugli adempimenti successivi all’ultimazione delle opere, così come l’art. 94-bis, a sua volta, al comma 6 sancisce che «Restano ferme le procedure di cui agli articoli 65 e 67, comma 1»), introduce un regime semplificato che tuttavia non pretermette del tutto l’informativa, estesa piuttosto, nella modalità di cui all’art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001, a tutte le opere realizzate con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore inclusi gli interventi di riparazione e gli interventi locali sulle costruzioni esistenti e quelli che, per caratteristiche intrinseche e destinazioni d’uso, non costituiscono pericolo per la pubblica incolumità.

Anche laddove non trova applicazione l’art. 94, comma 1, che prevede che nelle località sismiche “non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”, permane l’obbligo di denuncia preventiva dell’opera, che assolve anche alla finalità di garantire il rispetto delle regole a tutela della pubblica incolumità dalla minaccia sismica.

A questo punto la “questione” si fa interessante oltre che complessa e delicata in quanto occorre correttamente coordinare le disposizioni che regolano la sanatoria ex art. 36 con quelle di settore di cui agli artt. 65 e 83 e seguenti del TUE.

Questione che, ammette il Consiglio di Stato, sconta le difficoltà derivanti da innegabili lacune normative, a fronte delle quali l’interprete è chiamato ad individuare una lettura che contemperi l’effettività del regime delle sanatorie con la necessità di non abbassare minimamente la soglia della tutela dell’incolumità pubblica in un Paese il cui territorio si connota notoriamente per l’estensione delle zone vulnerabili da un punto di vista sismico.

Nel dettaglio:

  • l’art. 65 prevede che le opere siano denunciate «prima del loro inizio»;
  • l’art. 93, a sua volta, impone a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne «preavviso» scritto allo sportello unico, che provvederà alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale;
  • il successivo art. 94 infine si riferisce ad una «preventiva autorizzazione», sicché la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell’esecuzione dell’intervento, nel rispetto delle formalità richieste.

Sul rapporto tra titolo edilizio e assenso sismico, la giurisprudenza in passato non è stata univoca, tanto da ammettere che quest’ultimo intervenisse successivamente al permesso di costruire o alla proposizione della SCIA. Più di recente, valorizzando la previsione dell’art. 20 del TUE, secondo cui la dichiarazione del progettista, in sede di istanza, deve anche asseverare il rispetto delle norme di settore, pare essersi consolidato il riconoscimento di un rapporto di presupposizione tra titoli. Ciò trova conferma nella clausola di rinvio con cui si apre l’art. 94 del T.u.e., che reca: “Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio […]”, intendendo evidentemente che esso dovrà essere comunque conseguito, in aggiunta all’autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell’intervento da eseguire lo richieda.

La giurisprudenza più recente ha dunque affermato che in assenza del titolo attestante la conformità alla disciplina antisismica, il permesso di costruire è in ogni caso inefficace, ovvero non idoneo a legittimare le opere a suo tempo realizzate. Considerazioni estese anche alla corretta lettura da dare all’art. 36 del TUE, che richiederebbe di “[…] verificare, ancora prima dell’adozione del permesso di costruire in sanatoria, se le opere possano o meno ritenersi sostanzialmente conformi alla disciplina di riferimento: a tali fini, risulta necessario accertare, tra l’altro, il previo rilascio dell’autorizzazione sismica (ove prevista), idonea ad escludere quei pericoli per la staticità delle opere abusive che, ove esistenti, impedirebbero la sanatoria, imponendo l’irrogazione della sanzione demolitoria”. E ancora, nell’affermare che “l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare”, si è riconosciuto che esso possa essere acquisito anche in maniera postuma, essendo state inserite tra parentesi, dopo l’affermazione della regola generale, le parole “anche quello in sanatoria”.

Ciò premesso, i giudici di secondo grado hanno ricordato che il rilascio della sanatoria ex art.36 del TUE è sottoposto al principio della doppia conformità, che non è richiesto in caso di vero e proprio condono. In ragione di tale esplicita scelta del legislatore essa si applica ai soli abusi “formali”, ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione “anche di natura preventiva e deterrente”, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio. Non sono più ritenute possibili, dunque, letture “sostanzialiste” finalizzate a legittimare la regolarizzazione di opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.

Anche sull’esatto perimetro della “doppia conformità” vanno richiamati i principi espressi dalla Corte costituzionale avuto riguardo proprio alla disciplina antisismica, che vi è stata ricompresa. Ciò in quanto le disposizioni di cui al capo IV della parte II del TUE, contengono prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come confermato sia dall’utilizzo dell’aggettivo “particolari”, appunto, sia dalla sistematica delle norme, collocate nella Parte II dello stesso Testo unico, che concerne la «Normativa tecnica per l’edilizia».

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, la regola della doppia conformità vale anche per la normativa antisismica, costituendo, per gli interventi in zona sismica, un principio fondamentale delle materie “governo del territorio” e “protezione civile”. A ciò consegue che in linea generale ove il richiedente non è in possesso dello specifico titolo di cui è causa la sanatoria non può essere concessa per mancanza del requisito della doppia conformità, ma non vale necessariamente il reciproco, ovvero la carenza del titolo sismico preventivo non si risolve necessariamente in un rigetto, ove la parte dimostri di poterlo conseguire e di averlo in concreto richiesto, seppure in maniera postuma.

Ma, ammette il Consiglio di Stato, “Negando in toto l’ammissibilità di un’autorizzazione sismica postuma, infine, essendo considerazione nota l’estensione del territorio soggetto alla relativa tutela in Italia, si rischierebbe di addivenire ad una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 36 del T.u.e., in fatto difficilmente utilizzabile”.

A fronte della mancata previsione della sanatoria sismica quale causa estintiva dei corrispondenti illeciti contravvenzionali, è infatti noto e ben comprensibile l’approccio rigoroso della Corte di Cassazione che ha categoricamente escluso che il deposito allo sportello unico “in sanatoria” degli elaborati progettuali faccia venire meno il reato di omesso deposito preventivo degli elaborati. Tuttavia, proprio nel ribadire costantemente che la sanatoria sismica non produce effetti estintivi del reato, si è finito per postulare in ogni caso la vigenza dell’istituto (in maniera esplicita, Cass., sez. III, n. 2848 del 2019: “il rilascio in sanatoria dell’autorizzazione dell’Ufficio del Genio civile non costituisce causa estintiva dei reati di violazione della normativa antisismica di cui agli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. 380 del 2001”).

L’art. 98, comma 3, del TUE, inoltre, ammette esplicitamente la regolarizzazione dell’abuso in materia sismica, laddove consente al giudice penale di impartire, in luogo della demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità alle norme antisismiche, le prescrizioni necessarie per renderle conformi alle stesse, fissando il relativo termine.

Di fatto, dunque, non solo è possibile un’integrazione documentale postuma, ma finanche un adeguamento strutturale, stante che la norma riferisce l’adeguamento alle opere, non alle pratiche, che il giudice disporrà avvalendosi necessariamente delle competenze tecniche di specialisti del settore.

Se così è – ammettono i giudici – non si comprende per quale ragione l’Amministrazione preposta al controllo di settore non possa muoversi anticipatamente almeno sotto il profilo del vaglio della rispondenza sostanziale dell’intervento ai previsti requisiti di sicurezza, laddove la parte si attivi in tal senso e se ne assuma la responsabilità producendo tutta la necessaria documentazione a supporto”.

L’ammissibilità di una denuncia sismica ex post, ovvero di un’analoga richiesta tardiva di autorizzazione, per potersi inserire nel procedimento di sanatoria deve in qualche modo produrre l’effetto di interrompere o quanto meno sospendere il termine di formazione del silenzio rifiuto cui il legislatore ha assoggettato l’esito del relativo procedimento in caso di inerzia dell’amministrazione (art. 36, comma 3, del T.u.e.).

Così è deciso, l’udienza è tolta (almeno fino al prossimo intervento della giustizia amministrativa o del legislatore che potrebbe meglio chiarire questo aspetto).

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