Valutare la legittimità o meno di un ordine di demolizione può dipendere anche dalla datazione di un manufatto e delle successive opere di ristrutturazione, considerato che la normativa applicabile al caso in esame può portare a diverse conclusioni.
Non a caso quindi il Consiglio di Stato con la sentenza del 9 maggio 2024, n. 4191, ha accolto in parte l’appello contro un ordine di demolizione, soltanto dopo aver chiarito che la questione riguardava un immobile ante ’67 sul quale non era stata operata alcuna variazione di destinazione d’uso, differentemente da quanto affermato dal Comune.
Cambio di destinazione d’uso e abusi su immobile ante ’67
La questione è nata a seguito dell’ingiunzione a demolire di alcune opere edilizie realizzate sia all’interno di un fabbricato sia sull’area esterna, e che avevano comportato:
- la modifica di destinazione a uso abitativo anziché ad attività produttiva;
- la realizzazione di un solaio interno tra piano terra e primo piano;
- la diversa distribuzione degli spazi interni, la realizzazione di una scala interna di collegamento tra i due livelli dell’abitazione con la realizzazione di “5 vani finestra”;
- la realizzazione di pavimentazione esterna;
- la realizzazione di un muretto di cinta esterno;
- la realizzazione di una piccola tettoia in legno;
- la realizzazione di un piccolo prefabbricato in legno e di una copertura sorretta da montanti in ferro;
- la diversa distribuzione interna degli ambienti in un antico fabbricato rurale adiacente alla costruzione.
Secondo il ricorrente, il provvedimento di demolizione sul cambio di destinazione d’uso sarebbe stato illegittimo in quanto sia il piano terra sia il primo piano del fabbricato erano adibiti da decenni ad uso abitativo per cui, trattandosi di immobile edificato anteriormente al 1942, in zona non soggetta al momento della costruzione ad alcuna zonizzazione o regolamentazione urbanistico/edilizia, non vi sarebbe stata alcuna variazione d’uso giuridicamente rilevante.
Tutte le altre presunte difformità, non sarebbero inoltre state sanzionabili ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) trattandosi di opere di manutenzione o di ristrutturazione (disciplinata dall’art. 33 TUE), o di “diversa distribuzione degli spazi interni” in difformità alla autorizzazione in variante, soggetta al regime dell’attività edilizia libera ovvero, al più, della C.I.L.A. o della S.C.I.A. e non del permesso di costruire.
In primo grado, il TAR aveva dichiarato il ricorso in parte improcedibile e in parte infondato, considerando avvenuto il cambio di destinazione d’uso e che l’accertamento di conformità ex art. 36 del Testo Unico Edilizia è rimasto inevaso, consolidandosi come provvedimento di rigetto.
Da qui l’appello, con il quale è stato ribadito che:
- l’ìimmobile era sempre stato destinato a uso abitativo;
- il Comune nel 1963 aveva rilasciato la concessione edilizia per la sopraelevazione di un “quartino” nonché, a seguito dei danni dal sisma del 1980, l’autorizzazione per “riparazione”, ai sensi dell’art. 14 L. n. 219/1981, e quindi per la riparazione di “immobile destinato ad uso di abitazione”; e non per una destinazione “produttiva”;
- andava riconosciuta alla mancata definizione espressa da parte del Comune dell’istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001 valore (non di silenzio rigetto ma) di silenzio inadempimento.
Per dirimere la questione, il Consiglio ha quindi disposto una CTU finalizzata a stabilire:
- la presumibile data di edificazione dell’immobile;
- la destinazione urbanistica della zona, nella successione degli strumenti urbanistici, dalla data di presunta edificazione dell’immobile alla data di emanazione dei provvedimenti impugnati;
- la presumibile destinazione dell’immobile anteriormente e successivamente alle autorizzazioni rilasciate dal Comune;
- descrizione delle opere, realizzate in difformità rispetto alle precedenti autorizzazioni, attualmente non rimosse, al fine dell’inquadramento nel relativo regime giuridico, precisando l’eventuale anteriorità al 1° settembre 1967.
Immobili ante ’67: la datazione del manufatto è funzionale alla qualificazione delle opere
Verifiche che hanno portato i giudici ad accogliere parzialmente l’appello: il piano terra del fabbricato principale e il vecchio manufatto erano già esistenti fin dal 1957, quando era consentito, per i manufatti posti al di fuori del perimetro abitato come nel caso in esame, la costruzione e/o la modifica sostanziale di edifici senza presentazione di progetto; anche la sopraelevazione venne regolarmente assentita.
Nella sua relazione, il verificatore ha specificato che “Tale presumibile destinazione abitativa, databile al 1957, è dunque antecedente al rilascio dell’autorizzazione per lavori di riparazione dell’edificio danneggiato del sisma e non il cambio di destinazione d’uso pertanto, per quanto nei grafici si indichi una destinazione d’uso produttiva, deve ritenersi legittima la sola destinazione abitativa, in quanto dal 1957 al 1984, non vi à alcun titolo che autorizzi il cambio di destinazione d’uso. Inoltre, si ribadisce che l’autorizzazione veniva rilasciata dal Comune ai sensi dell’art. 10 della legge 219/81 che riguarda “la riparazione di immobili non irrimediabilmente danneggiati dal sisma e destinati ad uso di abitazione, ivi compresi quelli rurali”.
La presumibile destinazione d’uso legittima del piano terra del fabbricato, a partire dal 1957 è da ritenersi dunque quella abitativa poiché non si è rinvenuto alcun titolo che autorizzi il cambio di destinazione d’uso da abitazione/fabbricato rurale ad attività produttiva. Successivamente l’immobile al piano terra assume la categoria catastale A/2 e dunque deve ritenersi, destinato ad abitazione.
Il Collegio ritiene debbano essere condivise le conclusioni circa la regolarità del fabbricato, edificato anteriormente all’estensione fuori dal perimetro del centro abitato del regolamento edilizio comunale)e la risalente destinazione abitativa degli immobili in questione, avvalorata anche dagli ulteriori elementi di prova offerti dalla parte (certificati di residenza storici) che peraltro aveva anche chiesto l’ammissione di prova testimoniale, sulla quale, in caso di dubbio, il giudice di primo grado avrebbe dovuto provvedere espressamente.
Sul punto, il Consiglio ha così riepilogato il regime giuridico delle opere edilizie realizzate ante ’67:
- L. n. 2359/1865, artt. 86 – 92, che prevede già in nuce limitazioni e prescrizioni all’edificazione connesse a determinazioni della pubblica autorità;
- L. 17 agosto 1942, n. 1150 – legge urbanistica – che, all’art. 31, impose di richiedere apposita licenza per l’esecuzione di nuove costruzioni, l’ampliamento di quelle esistenti, la modifica di struttura o dell’aspetto, limitatamente alle opere eseguite all’interno dei centri abitati e in presenza di piano regolatore comunale, anche nelle zone di espansione “di cui al n. 2 dell’art. 7” (ossia nelle zone “destinate all’espansione dell’aggregato urbano”).
- Legge 6 agosto 1967, n. 765, che all’art. 10 ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sul territorio comunale.
Da qui ne deriva che non qualsiasi area ricompresa del piano regolatore generale poteva ritenersi soggetta all’obbligo di previo rilascio di licenza edilizia, espressamente imposto dalla L.U. solo per costruire all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione dell’aggregato urbano. Nel caso in esame risulta dirimente la circostanza che il piano terra era preesistente all’estensione del R.E.C. all’esterno del perimetro dell’abitato, mentre il primo piano venne regolarmente assentito.
Non essendo intervenuto alcun cambio di destinazione d’uso, il Consiglio ha valutato di considerare le opere contestate una alla volta, ascrivendole all’appropriato regime edilizio, cadendo il presupposto (funzionalità all’abusivo cambio di destinazione d’uso) che ha indotto il giudice di prime cure a valutarle unitariamente. Vediamole nel dettaglio.
Realizzazione soppalco: attività edilizia minore o nuova costruzione?
L’originario piano terra del fabbricato è stato suddiviso in due livelli comunicanti destinati ad abitazione, mediante realizzazione, dopo il 1967, di un piano ammezzato, attraverso la costruzione di un solaio intermedio raggiungibile con una scala. Il tutto in un’area ricadente in zona RUA – Recupero Urbanistico – Edilizio e Restauro Paesistico –Ambientale, che, vieta qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti.
Spiega il Consiglio che considerato che la normativa vigente nel territorio non consente aumento dei carichi urbanistici (che inevitabilmente comporta la realizzazione di nuova superficie residenziale) e, inoltre, vieta agli strumenti urbanistici generali ed attuativi di consentire nuova edificazione a scopo residenziale, il Comune ha contestato legittimamente la realizzazione dell’ammezzato.
Nel caso di specie, la realizzazione di un piano ammezzato utilizzato ad abitazione ha comportato la creazione di nuovi volumi e superfici (precisamente, l’aumento della superficie utile abitabile), da ricondurre agli ‘interventi di nuova costruzione’, ex art. 3, co. 1, lett. e) d.P.R. n. 380/2001, necessariamente implicanti una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, presupponente il rilascio del permesso di costruire.
Ricordano i giudici di Palazzo Spada che, in tema di soppalco, ovvero di spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale tramite l’interposizione di un solaio, va apprezzata caso per caso la riconducibilità nell’ambito degli interventi edilizi minori, che è condizionata alla circostanza che il manufatto sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, ad esempio quando lo spazio realizzato mediante il soppalco consista in un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo non fruibile alle persone, come un ripostiglio, che in tal caso inquadra l’intervento nell’edilizia libera.
Invece, secondo la consolidata giurisprudenza, è necessario il permesso di costruire quando il soppalco:
- sia di dimensioni non modeste
- comporti una sostanziale ristrutturazione dell’immobile preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico.
La realizzazione di un soppalco come quello in esame, funzionale a creare volumi calpestabili e abitabili, implica ulteriori utilità per i locali abitativi, formando parte funzionalmente integrante dell’abitazione stessa, ed incrementando evidentemente la superficie dello stabile, con conseguente necessità del permesso di costruire.
Stessa sorte per i 5 vani finestra realizzati per dare luce ed aria agli ambienti realizzati al piano ammezzato: essi implicano la realizzazione ex novo di un sistema aero-illuminante necessario a dare luce ed aria al livello ammezzato edificato, senza titolo, rispetto al fabbricato originario. I vani finestra realizzati dunque, devono considerarsi un unico sistema edilizio unitamente al nuovo piano ammezzato, così come la scala, funzionale ad accedervi.
Fiscalizzazione abusi edilizi: non sempre è consentita
Non solo: non è possibile applicare a priori la sanzione pecuniaria in sostituzione del ripristino dello stato dei luoghi (c.d. fiscalizzazione dell’abuso), atteso che essa va disposta solo a seguito della valutazione dell’impossibilità di demolire le opere abusive, che deve essere effettuata nella fase esecutiva del provvedimento di demolizione, successiva ed autonoma rispetto all’ingiunzione stessa.
L’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 ha infatti valore eccezionale e derogatorio, e di conseguenza non è l’Amministrazione a dover valutare, prima di emettere l’ordine di demolizione dell’abuso, se essa possa essere applicata, piuttosto incombendo sul privato interessato la dimostrazione, in modo rigoroso e nella fase esecutiva, della obiettiva impossibilità di ottemperare all’ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme.
Gli abusi edilizi vanno considerati nella loro unitarietà
Trova inoltre applicazione il pacifico principio giurisprudenziale secondo il quale la valutazione dell’opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato dell’attività edificatoria nella sua unitarietà, non potendosi considerare separatamente i singoli componenti, al fine di evitare elusioni del regime dei titoli abilitativi edilizi attraverso la suddivisione artificiosa dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più blando, per la loro più modesta incisività sull’assetto territoriale.
Alla stregua di tale principio, ove la parte avesse realizzato aperture o allargamenti di finestre, esse sono funzionali a tale disegno e non possono essere spezzettate per essere ricondotte ai vari regimi abilitativi.
Trova quindi applicazione, nel caso in questione, il principio secondo il quale la valutazione dell’abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate; né è data la possibilità di scomporne una parte per negare l’assoggettabilità ad una determinata sanzione, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni; rimanendo quindi irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente considerato.
Modifica degli spazi interni: basta una CILA
Per quanto riguarda la diversa distribuzione degli spazi interni, la diversa distribuzione e modifica della facciata secondo i giudici costituiscono interventi di manutenzione straordinaria, soggette al regime della comunicazione di inizio lavori (CILA). Risulta quindi illegittima l’irrogazione della sanzione demolitoria e il ricorso fondato: la demolizione non è uno strumento utilizzabile nei confronti dell’attività edilizia libera sottoposta al regime della CILA e tanto è dimostrato dalla circostanza che, ordinariamente, finanche l’assenza o la difformità dalla S.C.I.A. – riferibile a interventi più rilevanti di quello in esame – comporta l’applicazione della sola sanzione pecuniaria (v. art. 37 del D.P.R. n. 380/2001).
Illegittima la sanzione demolitoria anche sulla modifica del prospetto mediante intervento edile di ristrutturazione edilizia “leggera”, il cui titolo abilitante è la SCIA di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380/01 e art. 22 lett. b) del D.P.R. 380/2001, suscettibile di regolarizzazione mediante pagamento della sanzione ex art. 37, comma 4 del D.P.R. 380/2001.
Interventi eseguiti in parzale difformità e silenzio diniego
Sul punto la decisione in primo grado è errata anche nella parte in cui ha qualificato il silenzio del Comune sulla richiesta di sanatoria della parte quale rigetto, in quanto, a differenza di quanto previsto per l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 per il quale, in caso di inerzia a seguito della presentazione della domanda, è la stessa norma che qualifica espressamente l’eventuale silenzio dell’amministrazione come diniego, l’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001 nulla dispone sul punto; la norma peraltro, stabilisce che il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con applicazione e relativa quantificazione della sanzione pecuniaria a cura del responsabile del procedimento.
Dalla lettura della norma emerge come la definizione della procedura di sanatoria non possa prescindere dall’intervento del responsabile del procedimento competente a determinare, in caso di esito favorevole, il quantum della somma dovuta sulla base della valutazione dell’aumento di valore dell’immobile compiuta dall’Agenzia del Territorio; configurandosi in assenza un’ipotesi di silenzio inadempimento, come correttamente eccepito dalla parte appellante.
Ne deriva che il Comune deve pronunciarsi, con un provvedimento espresso, sulla s.c.i.a. in sanatoria, previa verifica dei relativi presupposti di natura urbanistico-edilizia di cui all’art. 37 d.P.R. n. 380/2001.
Per quanto riguarda le pavimentazioni esterne, il Collegio ritiene assorbente, sul punto, il recente richiamo della giurisprudenza secondo cui l’art. 6, comma 1, del d.P.R. 380/2001 prevede che, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, sono eseguite senza alcun titolo abilitativo:
- e-ter) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati. Il riferimento è al Glossario Edilizia Libera 2018 (all. al DM 2 marzo 2018) ove nella relativa categoria alla voce n. 40 viene riportata la “Pavimentazione di aree pertinenziali”.
Solo il superamento dell’indice di permeabilità comporta il transito degli interventi di questo tipo in categoria soggetta a titolo edilizio, ricadendo la stessa, altrimenti, tra le attività edilizie libere.
Considerato che l’ordinanza impugnata in primo grado non menziona la difformità rispetto l’indice di permeabilità (ovvero la violazione della prescrizione delle Norme di attuazione del PTP richiamate dal Verificatore), il ricorso risulta fondato.
Stessa sorte per il cancello, in quanto la realizzazione di una recinzione metallica con paletti di ferro e cancello costituisce attività libera, non soggetta nemmeno a denuncia di inizio attività.
Sul punto il giudice ricorda che, in via generale, la posa di una recinzione – manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni – è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale. Dunque, l’installazione di un cancello volto a delimitare la proprietà, se non accompagnata da opere edilizie di elevato impatto urbanistico, rientra nell’attività ‘libera”, soggetta al regime della comunicazione di inizio lavori asseverata (art. 6 bis s.P.R. n. 380/2001).
Sotto altro profilo, il D.P.R. n. 31 del 2017 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata) – all’Allegato B (Elenco interventi di lieve entità soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato) – punto 21 richiede il titolo autorizzativo per la “realizzazione di cancelli, recinzioni, muri di cinta o di contenimento del terreno, inserimento di elementi antintrusione sui cancelli, le recinzioni e sui muri di cinta, interventi di manutenzione, sostituzione o adeguamento dei medesimi manufatti, se eseguiti con caratteristiche morfo-tipologiche, materiali o finiture diversi da quelle preesistenti e, comunque, ove interessino beni vincolati ai sensi del Codice, art. 136, comma 1, lettere a), b) e c) limitatamente, per quest’ultima, agli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale tradizionale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici“.
Al precedente Allegato A (Interventi ed opere in aree vincolate esclusi dall’autorizzazione paesaggistica) – punto 13, lo stesso D.P.R. esclude, invece, la necessità del titolo in relazione agli “interventi di manutenzione, sostituzione o adeguamento di cancelli, recinzioni, muri di cinta o di contenimento del terreno, inserimento di elementi antintrusione sui cancelli, le recinzioni e sui muri di cinta eseguiti nel rispetto delle caratteristiche morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti che non interessino i beni vincolati ai sensi del Codice, art. 136, comma 1, lettere a), b) e c) limitatamente, per quest’ultima, agli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale tradizionale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici“.
In questo caso il Comune non ha motivato, nel proprio provvedimento, in ordine alla riconducibilità della recinzione alla seconda parte dell’Allegato B. 21 del D.P.R. n. 31/2017, il quale esige il titolo paesaggistico soltanto qualora le opere di manutenzione, sostituzione o adeguamento interessino beni vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, articolo 136, comma 1, lettere a), b) e c) (entro i limiti sopra riportati), ma non richiama la lettera d), vale a dire le “bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze“. Sicché l’Amministrazione avrebbe dovuto dare conto della natura e della portata del vincolo, ove escludente l’ascrizione dell’intervento al citato All. A.
Tettoie
Per quanto riguarda le tettoie, ricorda il Consiglio che il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio; l’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono.
Quindi, quando assolvono la funzione di elemento di completamento della struttura edificata le tettoie possono ritenersi riconducibili al regime delle pertinenze urbanistiche e possono ritenersi liberamente edificabili ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano palese la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, e quando, per la loro consistenza, possano ritenersi assorbite, in ragione della loro accessorietà, nell’edificio principale.
Rientrano inoltre in edilizia libera i manufatti in legno di dimensioni irrilevanti e non fissati sul terreno. Sempre il Glossario dell’edilizia libera di cui all’Allegato 1 al decreto ministero delle Infrastrutture 2 marzo 2018, annovera, nell’ambito delle “Aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza”, fra gli altri, l’installazione di ricoveri per animali domestici e da cortile, con relativa recinzione, e l’installazione di ripostigli per attrezzi, manufatti accessori di limitate dimensioni e non stabilmente infissi al suolo.
Stesse considerazioni per un telo ombreggiante, agganciato al terreno con elementi smontabili fissati in maniera del tutto precaria e provvisoria, rientrante in edilizia libera ed elencato nell’ambito delle “Aree ludiche ed elementi di arredo delle aree di pertinenza” (d.lgs. n. 222/2016, Tab. A, Sezione II –Edilizia- attività 29), che include fra gli altri, l’installazione di tende, pergole, coperture leggere di arredo.
Requisiti igienico-sanitari: per quali edifici si applica il DM 5 luglio 1975?
Quanto al vecchio manufatto sul quale è stato contestato il cambio destinazione d’uso in abitativo rispetto la categoria catastale C2, il verificatore aveva accertato che la presumibile destinazione del vecchio manufatto era abitativa già al 1957 ma che, considerata l’altezza, inferiore a quella minima imposta dal D.M. 5 luglio 1975, non avrebbe potuto essere utilizzato come abitazione, ma come deposito.
In questo caso il Consiglio non ha condiviso le conclusioni della CTU, considerata l’anteriorità del manufatto rispetto al Decreto e l’irretroattività dello stesso rispetto agli immobili anteriori, come fatto palese anche dal disposto di cui all’art.10, c.2, del decreto legge 16/7/2020, n. 76, come modificato dalla legge di conversione 11 settembre 2020, n. 120, secondo il quale “Nelle more dell’approvazione del decreto del Ministro della salute di cui all’articolo 20, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, le disposizioni di cui al decreto del Ministro per la sanità 5 luglio 1975, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 190 del 18 luglio 1975, si interpretano nel senso che i requisiti relativi all’altezza minima e i requisiti igienico-sanitari dei locali di abitazione ivi previsti non si considerano riferiti agli immobili che siano stati realizzati prima della data di entrata in vigore del medesimo decreto e che siano ubicati nelle zone A o B, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili, in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali. Ai fini della presentazione e del rilascio dei titoli abilitativi per il recupero e la qualificazione edilizia dei medesimi immobili e della segnalazione certificata della loro agibilità, si fa riferimento alle dimensioni legittimamente preesistenti.”.
Abusi edilizi: ordine di demolizione è atto dovuto
Infine, il Consiglio ha respinto i motivi aggiunti del ricorso, ribadendo alcuni principi in materia di sanzioni per abusi edilizi:
- l’art. 31, comma 4-bis, d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) impone di irrogare la sanzione nella misura massima, se gli abusi sono realizzati, come nel caso in questione, su aree vincolate ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), inedificabili o a rischio idrogeologico elevato. Pertanto, il Comune è tenuto, senza alcun margine di discrezionalità e senza alcun onere motivazionale, ad applicare la sanzione pecuniaria massima.
- l’art. 31 comma 3 per cui in caso di omessa demolizione il bene e l’area di sedime «sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune», il quale quindi legittimamente nell’ordinanza impugnata ha riportato l’indicazione di legge. È poi l’atto di acquisizione al patrimonio, che costituisce il titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione dell’acquisto della proprietà in capo al Comune o all’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, a dover individuare il bene oggetto di acquisizione e la relativa area di sedime, nonché l’eventuale area ulteriore, nei limiti del decuplo della superficie abusiva, la cui acquisizione deve essere specificamente motivata con riferimento alle norme urbanistiche vigenti.
Per altro, gli atti di repressione degli abusi edilizi, come l’ordinanza di demolizione, hanno natura di atto vincolato, pertanto non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, non essendo prevista per l’amministrazione la possibilità di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
L’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l’abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
Ne consegue che, nel caso in esame, non risultano rilevanti le supposte violazioni procedimentali che avrebbero precluso un’effettiva partecipazione del ricorrente al procedimento, dovendosi ribadire anche a questo proposito che trattandosi di un atto vincolato, ai fini dell’adozione dell’ordinanza di demolizione, non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non potendosi in ogni caso pervenire all’annullamento dell’atto alla stregua dell’art. 21 octies L. n. 241 del 1990.