La sentenza n. 14449/2025 riguarda un infortunio sul lavoro, avvenuto in un cantiere edile, che ha causato la morte di un operaio e ha portato alla condanna, con pena sospesa, di due imputati: il committente dei lavori e di fatto capo cantiere e il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione. L’operaio muore cadendo da un’altezza di oltre 3 metri durante lavori su un balcone di un edificio in costruzione, in un’area priva di parapetti o sistemi anti-caduta.
Il cantiere era gestito da una complessa catena di appalti e subappalti: committente, esecutore diretto, subappaltatore, ulteriore subappalto (datore di lavoro della vittima).
Il GUP di Busto Arsizio condanna il committente e il coordinatore per la sicurezza a 2 anni di reclusione (pena sospesa), con riconoscimento delle attenuanti generiche e del rito abbreviato.
La Corte d’Appello di Milano conferma la condanna, ma concede a entrambi il beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale.
Il committente dei lavori (e di fatto capo cantiere), presente fisicamente il giorno dell’incidente, avrebbe dovuto verificare la presenza di opere provvisionali (parapetti, cinture di sicurezza) e assicurarsi della corretta esecuzione in sicurezza dei lavori.
Il coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva, responsabile del controllo sull’applicazione del PSC, ha omesso di verificare la corretta applicazione delle misure di sicurezza, in violazione degli obblighi previsti dal D.Lgs. 81/08.
I motivi di ricorso in Cassazione sono 2:
- carenza e illogicità della motivazione in merito alla responsabilità penale: i ricorrenti lamentano un vizio di motivazione, rilevando come la dinamica dell’infortunio sia rimasta incerta, circostanza confermata dagli stessi consulenti tecnici intervenuti. Nel corso del giudizio sono state prospettate tre differenti ipotesi ricostruttive, nessuna delle quali è risultata idonea a spiegare con certezza la causa della caduta. Nonostante tale incertezza, la Corte avrebbe adottato in modo arbitrario una delle versioni, in particolare quella relativa a una caduta da un’altezza di 3,5 metri, senza che vi fossero fondamenti probatori sufficienti a giustificare tale scelta. La testimonianza resa da un operaio, unitamente alla mera presenza di attrezzi nella zona dell’incidente, non sarebbe stata, a loro avviso, sufficiente a colmare le gravi lacune emerse nel compendio probatorio;
- inadeguatezza della motivazione sul nesso causale rispetto alla colpa omissiva: i ricorrenti sostengono inoltre che, in assenza di un accertamento certo e univoco sulla dinamica dell’incidente, non sia possibile attribuire in modo fondato la colpa omissiva contestata agli imputati. Senza una chiara ricostruzione dei fatti, infatti, non può essere individuato con precisione quale condotta alternativa, lecita e doverosa, avrebbe potuto effettivamente evitare il verificarsi dell’evento.
La Cassazione dichiara inammissibili entrambi i motivi ritendo che il giudice di appello abbia ricostruito in modo logico e coerente la dinamica dell’incidente, individuandone la causa nella caduta da un’altezza di circa 3,5 metri.
Tale ricostruzione si fonda su elementi attendibili, tra cui la testimonianza di un operaio, la presenza di attrezzi nella zona e la compatibilità tra altezza e lesioni. La Corte ha inoltre chiarito che, anche in presenza di incertezze sulla dinamica esatta, tutte le ipotesi concordano su una caduta da oltre due metri e in assenza di protezioni.
Pertanto, misure di sicurezza obbligatorie, come parapetti o cinture, avrebbero evitato l’infortunio. Le responsabilità omissive degli imputati derivano dalla violazione di specifiche norme del D.Lgs. 81/2008 relative alla prevenzione del rischio di cadute dall’alto e al controllo del PSC.