tratto da biblus.acca.it

Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla possibilità di ottenere nuovi permessi di costruire per immobili sanati, ma ricadenti in una lottizzazione abusiva.

In ambito edilizio, la linea che separa ciò che è regolarizzato da ciò che resta “congelato” per sempre può essere sorprendentemente sottile. Cosa succede quando un immobile, costruito in un’area originariamente abusiva ma poi sanata, diventa oggetto di nuove aspirazioni edilizie anche a distanza di anni? Si può davvero ripartire da zero oppure il passato urbanistico continua ad esercitare i suoi effetti? Una recente pronuncia del Consiglio di Stato offre spunti interessanti su come la legge affronta questi casi-limite, tra tutela dell’ambiente, affidamento dei privati e rigidità delle regole urbanistiche.

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Permesso di costruire negato su lottizzazione abusiva nonostante la sanatoria: cosa dice la giurisprudenza?

Il caso riguarda l’impugnazione da parte di un privato cittadino del provvedimento con cui il Comune respingeva la sua richiesta di permesso di costruire per un intervento di risanamento igienico e ampliamento (entro il 20% della superficie) della propria abitazione, intervento che la normativa urbanistica locale avrebbe consentito.

L’immobile era stato acquistato nel 2003 e aveva già ottenuto, nel 2001, una concessione edilizia in sanatoria, a seguito di parere paesaggistico favorevole. Tuttavia, l’area era stata oggetto di una sentenza penale che aveva accertato la sussistenza di una lottizzazione abusiva, includendo anche il ricorrente tra i responsabili sotto il profilo negoziale. Già in passato il Comune aveva adottato provvedimenti sanzionatori (1977, 1989, 1997) rimasti però privi di seguito. La domanda di permesso di costruire era respinta con la motivazione che la costruzione ricadeva in una lottizzazione abusiva, posizione ribadita anche in una relazione istruttoria comunale prodotta in giudizio su richiesta del TAR.

Il Comune ha quindi negato il permesso di costruire principalmente perché l’immobile si trova all’interno di una lottizzazione abusiva già accertata con sentenza penale. Nella motivazione del diniego, il Comune si è limitato a richiamare la circostanza che la costruzione ricade nella lottizzazione abusiva, senza fornire ulteriori dettagli o motivazioni rafforzate, anche in considerazione del tempo trascorso dal rilascio della sanatoria.

In sede di giudizio, il Comune ha inoltre prodotto una relazione istruttoria che ribadiva la confisca dell’area a seguito della sentenza penale, ma senza fornire elementi ulteriori o documentazione catastale aggiornata.

Motivi a difesa del ricorrente appellante la decisione di diniego del PdC su immobile sanato

L’appellante ha articolato la propria difesa su tre principali motivi:

  • violazione del diritto di difesa e del contraddittorio: egli lamenta che il TAR non si sarebbe pronunciato sull’eccezione di inammissibilità della relazione istruttoria comunale, depositata tardivamente e contenente un’integrazione postuma della motivazione del diniego;
  • erroneità dei presupposti e difetto di istruttoria: secondo l’appellante, la sentenza penale che ha accertato la lottizzazione abusiva sarebbe successiva alla sanatoria e non gli sarebbe opponibile, non essendo egli parte del giudizio penale. Inoltre, la relazione comunale affermerebbe, ma non dimostrerebbe la confisca del lotto;
  • difetto di motivazione e violazione del principio dell’affidamento: il ricorrente sostiene che il Comune, avendo rilasciato la sanatoria nel 2001 quando era già a conoscenza della lottizzazione abusiva, avrebbe ingenerato un legittimo affidamento nella stabilità della propria posizione, che sarebbe meritevole di tutela. L’amministrazione non avrebbe potuto negare il permesso di costruire solo richiamando la lottizzazione abusiva senza spiegare perché la sanatoria rilasciata non fosse stata annullata o revocata.

Giudizio del Consiglio di Stato: ciò che conta è l’abuso originario che, anche se sanato, cristallizza il bene e ne impedisce ulteriori modifiche

Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello, seppure con motivazioni in parte diverse rispetto al TAR. In particolare:

  • ha ritenuto ammissibile la relazione istruttoria comunale, precisando che il termine per il deposito di tale documento è ordinatorio e non perentorio, quindi la sua tardività non comporta l’inammissibilità;
  • ha chiarito che la questione della confisca e della titolarità dell’area non era centrale nel giudizio, che riguardava esclusivamente la possibilità di realizzare nuovi interventi edilizi su un immobile inserito in una lottizzazione abusiva;
  • ha ribadito il principio, consolidato in giurisprudenza, secondo cui non è possibile autorizzare interventi edilizi su immobili già irregolari dal punto di vista urbanistico, a prescindere dalla regolarizzazione pregressa tramite sanatoria:

Tale richiamata “illiceità” originaria “immobilizza” il bene nella sua consistenza, di fatto cristallizzandolo sì da non renderne possibili ulteriori modifiche, a prescindere dalla conclusione dei precedenti procedimenti sanzionatori ai sensi della vigente normativa.

Quindi l’illiceità originaria della lottizzazione “cristallizza” la situazione del bene, impedendo qualsiasi ulteriore modifica;

  • Il CdS ha osservato che la mancata menzione della confisca nel provvedimento impugnato e la documentazione catastale ancora intestata al ricorrente non rilevano ai fini della decisione (la questione centrale, infatti, non riguarda chi sia formalmente il proprietario del bene o se l’area sia stata effettivamente confiscata e trascritta nei registri immobiliari), ciò che conta è solo l’impossibilità di ampliare un abuso preesistente;
  • i giudici di Palazzo Spada hanno infine escluso che il legittimo affidamento dell’appellante, fondato sul rilascio della sanatoria, possa prevalere sulla necessità di impedire nuove modifiche su immobili inseriti in lottizzazioni abusive, anche in assenza di un annullamento formale della sanatoria stessa.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità del diniego opposto dal Comune, ritenendo infondati i motivi di appello.

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