Lotta alla corruzione solo a parole – un articolo di L. Oliveri

tratto da La Settimana degli Enti LOcali

Lotta alla corruzione solo a parole nel Paese dei dirigenti cooptati e della semplificazione che complica

Luigi Oliveri

 

Non esiste, in Italia, un sistema di individuazione dei presidenti e componenti di questi soggetti che lasci fuori, almeno una volta, i partiti. Le designazioni sono di chiarissima espressione partitica e spesso coinvolgono o hanno coinvolto nomi che, non certo casualmente, si trovano coinvolti in modo più o meno diretto in governi e maggioranze.

La cronaca dei giorni scorsi ci riporta la notizia dell’arresto dell’ex presidente dell’Autorità per la vigilanza sui contratti e gli appalti pubblici dovuta a corruzione nelle procedure di vigilanza sulle Soa e dell’indagine in corso per abuso d’ufficio nei confronti di un altro ex presidente della medesima authority.

Sì, stiamo parlando esattamente dell’Avcp: quella del sistema demenziale dell’Avcpass che inchioderà le procedure per decenni e delle mille delibere e pareri che alterano lo scibile umano sulla gestione degli appalti; quella i cui costi vengono pagati dalle imprese appaltatrici e (in minor parte) con il “contributo” per le gare d’appalto. Quella del Simog, del Cig. Quella che avrebbe dovuto creare un chiaro sistema di qualificazione, sanzionare le imprese non in regola, dare indicazioni sulla semplificazione delle procedure.

Non aggiungiamo “quella che avrebbe dovuto vigilare sulla corruzione” perché non è mai stato uno specifico compito dell’Authority.

L’Avcp, ora, non c’è più, assorbita dall’Autorità nazionale anticorruzione, per effetto del d.l. 90/2014.

I rovesci giudiziari (sui quali, comunque, non ci si pronuncia essendo tutto alle prime fasi) degli ex vertici dell’Authority sembrano quasi una specie di spot sulla lungimiranza del Governo, che l’ha disciolta pochi giorni prima delle decisioni della magistratura.

Eppure, la cosa inquieta molto, moltissimo.

Fa comunque specie vedere indagati per corruzione o abuso d’ufficio, due tra i più odiosi reati contro la pubblica amministrazione, i vertici di un soggetto che avrebbe avuto comunque il compito di indicare la retta strada per amministrare il complesso e difficilissimo settore degli appalti.

Moltissime domande, a questo punto si aprono. Quella sull’effettiva utilità delle autorità è in piedi da lunghissimi anni. È noto che dalle authority non sia derivato nessun beneficio su concorrenza, privacy, servizi pubblici, tariffe, appalti, ma molte poltrone, tantissimi costi, convegni e, soprattutto nomine ad un tempo trampolini di lancio o comodi approdi per carriere ai margini della politica, in attesa di entrare pienamente nel dorato mondo, o come sistema per uscirne senza troppi scompensi.

Poi, c’è la domanda sulla reale “indipendenza” dei soggetti chiamati a farne parte.

Non esiste, in Italia, un sistema di individuazione dei presidenti e componenti di questi soggetti che lasci fuori, almeno

una volta, i partiti. Le designazioni sono di chiarissima espressione partitica e spesso coinvolgono o hanno coinvolto nomi che, non certo casualmente, si trovano coinvolti in modo più o meno diretto in governi e maggioranze. Il caso di Catricalà, ex presidente antitrust e poi ministro e sottosegretario alla presidenza del consiglio è eclatante, come quello di Pizzetti, ex presidente dell’autorità per la privacy, oggi consulente giuridico del Ministro Delrio, in particolare nella disastrosa riforma delle province. Vi sono, poi, i casi opposti, come Vegas, passato dalla funzione di politica attiva alla presidenza della Consob, o come l’ex giornalista e direttore generale della Rai, Meocci, entrato proprio nell’autorità per gli appalti non si capisce bene in base a quale specifica competenza tecnica in materia.

Nomine politiche e porte girevoli così oliate tra politica ed autorità che dovrebbero essere indipendenti proprio dalla politica dovrebbero rendere perfettamente evidente che le autorità di indipendente spesso hanno soltanto il nome.

Quando, poi, i vertici di questi soggetti, come nel caso dell’Avpc, sono coinvolti addirittura in casi di corruzione o reati di altra natura contro la pubblica amministrazione, al di là della circostanza che la responsabilità penale è esclusivamente personale, qualche domanda dovrebbe porsi circa la responsabilità di chi esercita il potere di nomina. Responsabilità che, ovviamente, non è di natura penale.

Eppure, esisterebbe o dovrebbe esistere anche la cosiddetta culpa in eligendo, appunto la responsabilità di incaricare in ruoli delicate persone che, alla fine dei conti, non sono in grado di svolgere efficacemente il loro ruolo.

In Italia non si fa altro che prestare l’attenzione sul potere di “nomina” degli organi di governo che, effettivamente costituisce uno degli strumenti più potenti per creare e mantenere il consenso, come dimostra, purtroppo, la vicenda della legge “elettorale”, che in realtà continua ad essere configurata come un mandato in bianco che i cittadini lasciano ai leader politici, in grado, così, appunto di “nominare” chi credono nel Parlamento. Ma, sistemi di cooptazione di questa natura sono estesi a tantissimi altri organi ed enti.

E li si vuole estendere sempre di più, andando ad incidere non solo sul livello politico e parapolitico (quello, appunto, degli incarichi in aziende e società pubbliche, o nei vertici di enti, authority), ma anche su quello operativo. Da qui, l’interesse estremo per l’estensione a dismisura della possibilità di “nominare” mediante cooptazione i dirigenti della pubblica amministrazione, il che consente la creazione di veri e propri corpi omogenei di natura politica, posti a fare “blocco” sempre più per la conservazione del consenso, che non propriamente per la gestione dell’interesse generale.

Non si può, ovviamente, fare di tutta l’erba un fascio e vedere in ogni atto di nomina e cooptazione un intento illecito, per  quanto il numero dei casi di malaffare connessi spessissimo a nomine di questa natura certamente non faciliti.

Sta di fatto, però, che l’assenza di una qualsiasi forma di responsabilità anche solo morale, se non politica, in capo a chi nomina ed incarica, fa sì che fenomeni ormai di sistema, non possano essere validamente combattuti.

L’assenza totale di una regolazione delle “porte girevoli” tra politica ed organi che dovrebbero essere totalmente terzi e di garanzia (Amato è giudice costituzionale e Patroni Griffi, inventore del decreto-legge di riforma delle province, bollato come incostituzionale senza tanti complimenti dalla Consulta, è in predicato per entrare a sua volta come giudice della Corte).

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