Tratto da: Ildirittoamministrativo.it
Autore: Franco Gallo Presidente emerito della Corte costituzionale
Relazione al Convegno di presentazione del volume “L’intelligenza artificiale tra regolazione ed esperienze applicative” (Cacucci 2025)
Roma, Università la Sapienza, 25 settembre 2025
Sommario: 1. – Una premessa generale 2. – L’IA nell’attuale contesto formativo e culturale 3. – Il ruolo dell’istruzione universitaria 4. – I pregi e i difetti del Regolamento comunitario sull’IA
- Una premessa generale
Le enormi trasformazioni introdotte nella vita quotidiana dall’avvento dell’intelligenza artificiale generativa dovrebbero indurci a prendere atto di quella che molti chiamano una vera e propria rivoluzione antropologica. Una rivoluzione – ci dicono il nostro moderatore e gli autori del libro curato da Uricchio e Calderola – fatta di straordinarie opportunità, ma anche, allo stesso tempo, di possibili rischi e potenziali derive che, nonostante la vigenza del Regolamento comunitario recentemente varato e dal conseguente ddl governativo, sono difficili non solo da controllare con nuove iniziative politiche, ma già ancor prima da mettere a fuoco. Si tratta di rischi e di opportunità che si possono individuare in ogni ambito e a qualsiasi livello della vita associata e che potrebbero arrivare un giorno fino al punto di toccare anche il tema cruciale della democrazia diretta come possibile alternativa a quella rappresentativa.
La prima considerazione che mi viene perciò da fare dopo la lettura dei diversi contributi raccolti nel libro che oggi commentiamo è che, pur in presenza della ricordata disciplina comunitaria, non sarà facile avere nell’immediato risultati pienamente soddisfacenti della sua applicazione se non si passa prima attraverso una presa di coscienza collettiva per sua natura faticosa e lenta. Bisognerebbe essere consapevoli che – come ha detto il premio Nobel per l’economia 2024 Daron Acemoğlu – “l’IA può essere un forte strumento di potenziamento umano secondo le regole comunitarie che la disciplinano solo se si investe direttamente nella formazione qualificata” e si mette in grado “la maggior parte degli esseri umani di utilizzarla e di elaborare le informazioni che essa fornisce”. Il che significa che – come risulta ben chiaro nella sezione II del libro che oggi si presenta – l’applicazione del richiamato Regolamento non può, allo stato, valere da sola a riportare subito la società cibernetica al nucleo duro dell’ordine internazionale e della democrazia sostanziale. Per raggiungere realmente questo obiettivo essa dovrebbe essere accompagnata anche da un forte investimento nell’istruzione a tutti i livelli, avendo lo specifico fine di insegnare a studenti e lavoratori a coesistere con gli strumenti dell’IA e ad utilizzarli nel modo giusto nel rispetto naturalmente delle generali regole fissate dal Regolamento e dalle norme nazionali che lo attuano.
E al riguardo la prima generale osservazione che mi viene spontaneo fare è che dovrebbe essere chiaro che in questo contesto l’IA non è la prima e non sarà neanche l’ultima innovazione tecnologica che stravolgerà le nostre vite. Converrebbe, cioè, avere il buon senso di lasciare da parte sia gli scenari apocalittici, sia quelli che decantano le magnifiche sorti e progressive di una tecnologia che attraverso gli algoritmi risolverà come per incanto i nostri problemi. Hanno perciò ragione coloro che nel volume che oggi presentiamo ci ricordano che l’atteggiamento catastrofista e quello magico sulle sorti di essa sono accomunati da una medesima discutibile impostazione di fondo: si lasciano portare passivamente, l’uno, verso la tragedia, l’altro, verso un ancora non meglio specificato progresso spontaneo. Il buon senso vorrebbe invece – aggiungerei io – che, almeno per ora, si rimanga alla concretezza dei problemi, rilevandone le contraddizioni e gli inganni e costruendo nuovi patti educativi, senza rinunciare a cogliere, attraverso le richiamate specifiche regolamentazioni, le incredibili potenzialità di una tecnologia che cambierà il mondo.
Ha ragione al riguardo il nostro Presidente della Repubblica quando, riferendosi in modo specifico alla rivoluzione digitale, da una parte, ci dice che per raggiungere questo obiettivo «servono idee nuove e non l’applicazione di vecchi modelli a nuovi interessi di pochi» e, dall’altra, ci ricorda che «sono le Università e le scuole le uniche istituzioni candidate a far emergere e sviluppare queste idee».
- L’IA nell’attuale contesto formativo e culturale
Se poi, alla luce anche dei diversi contributi raccolti nel richiamato volume, affrontiamo il tema dell’IA nel contesto formativo e culturale proprio delle istituzioni universitarie, credo che dovremmo, per prima cosa, renderci conto che la progressiva sostituzione dei libri cartacei con gli strumenti digitali dovrebbe avere – come nella realtà sta avendo – evidenti vantaggi pratici e logistici, e verosimilmente anche economici. L’immediata accessibilità e ricercabilità di uno sterminato patrimonio di dati e informazioni e l’elaborazione informatica di essi rappresentano, infatti, uno strumento formidabile per la ricerca. Nello stesso tempo dovremmo, però, tenere anche presente che la facilità di acquisire dati dall’IA espone sempre più spesso alla tentazione di cercare delle ‘scorciatoie’ che, prescindendo dalla selezione e dall’analisi critica, possono risultare facilmente manipolabili o comunque fuorvianti.
Voglio dire con ciò che è proprio sul piano culturale che potrebbe di fatto emergere la più importante criticità strutturale che è alla base della presente rivoluzione tecnologica. La disponibilità di un’incalcolabile quantità di informazioni bene organizzate potrebbe generare, infatti, l’illusione di un’ubiquità della conoscenza, quasi a voler dimenticare che, accanto alla libera fruizione dei contenuti, si colloca un altrettanto libera produzione degli stessi. Se questo vale per quei siti che si presentano come fonti di informazioni almeno in linea teorica attendibili, si pensi quanto possa valere con riferimento all’intera galassia, in larga parte incontrollabile, del web, dei blog e dei social network!
Il che pone, innanzitutto, un problema di qualità e attendibilità della conoscenza, nel senso che quest’ultima può davvero considerarsi tale solo quando le notizie e le informazioni sono ricomposte e analizzate nella loro complessità sistemica e sono sottoposte a una certificazione sicura e scientificamente autorevole. Un compito questo molto difficile che, come rilevato in diversi capitoli del libro, spetta soprattutto alle Università e diviene cruciale in un’epoca, come l’attuale, di c.d. ‘democratizzazione dell’informazione’, nella quale si va sempre più diffondendo la tentazione di fabbricarsi da soli la propria conoscenza, attingendo in modo acritico agli esiti di interrogazioni digitali.
Lo scenario che sul piano politico abbiamo per ora davanti è, dunque, quello di una cultura tradizionale messa in discussione, da una parte, dall’illusione di autosufficienza prodotta dalla rivoluzione tecnologica, dall’altra, da una concezione utilitaristica dei saperi. La prima afferma, implicitamente, che non serve ‘sapere’ perché basta informarsi e affidarsi a tutti questi strumenti; la seconda, più esplicitamente, che non serve ‘sapere’ perché basta “saper fare”.
- Il ruolo dell’istruzione universitaria
3.1. Se questi sono i rischi che si corrono con l’avvento dell’IA, qual è allora il ruolo delle istituzioni, come quelle universitarie, votate alla produzione e alla diffusione della cultura quale conoscenza criticamente vagliata, quella che viene chiamata “cultura qualificata”? Qual è il compito che nel presente delicato frangente queste istituzioni sono chiamate a svolgere per evitare gli inconvenienti di cui ho detto e che cosa i nostri studenti devono imparare per sapersi orientare e destreggiare al meglio in queste nuove realtà? E, soprattutto, che cosa occorre maggiormente valorizzare della nostra storia, del nostro passato affinché le generazioni native digitali siano messe in grado di affrontare consapevolmente le sfide inedite che le attuali vicende del nostro Paese, dell’Europa e del mondo ci pongono?
La risposta che emerge dalla lettura dei diversi saggi che compongono il volume che viene oggi presentato implica che il compito della scuola e dell’istruzione universitaria deve essere non solo quello, loro proprio, di ‘costruire cultura’ qualificata, ma anche quello di governare l’innovazione e contrapporre alla trasmissione orizzontale delle informazioni sia una conoscenza organizzata e strutturata sia, soprattutto, l’argine rappresentato dalla funzione di filtro e certificazione affidata alla comunità scientifica. I saggi contenuti nel volume ci dicono che nel prendere iniziative legislative di questo genere dovremmo anche chiarire a noi stessi che, se mancasse questa importante funzione, non sarebbe più possibile distinguere, nel caos liquido del Web e nella potenza trasformativa dell’IA, il vero dall’immaginato, i fatti dalle opinioni, ciò che è scientificamente attendibile da ciò che è il frutto inconsapevole di ingenue e spesso pericolose fantasticherie prodotto dal capitalismo digitale contemporaneo.
Il che non significa che ci si debba augurare di tornare indietro, opponendo il sapere tradizionale alla cultura digitale. La maggior parte dei saggi raccolti nel libro ci dicono anzi chiaramente che le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale, soprattutto quella generativa, sono di per sé straordinarie e devono essere adeguatamente valorizzate in tutti i contesti della produzione e della diffusione della cultura[1]. Ma ci fanno anche capire che il digitale e le sue applicazioni non devono sostituire del tutto le tradizionali forme di cultura. Devono affiancarsi ad esse e con esse integrarsi.
È proprio quello che le Università – alcune di meno, alcune di più – hanno scelto di fare apportando al dibattito su questi temi il proprio patrimonio di autorevolezza e rigore, cogliendo le opportunità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione e dando ai propri studenti quegli indispensabili strumenti di orientamento che consentono di confrontarsi in modo critico e consapevole con le nuove realtà del capitalismo digitale.
Ciò dovrebbe avvenire non necessariamente per contrapporre alla Babele delle conoscenze un inattuale Canone del sapere, ma per difendere in modo organico nelle proprie sedi l’indispensabile ruolo del metodo critico e interpretativo ed evitare che l’inarrestabile flusso di stimoli, notizie e informazioni frutto dell’IA – sempre nuove e non sufficientemente controllate – finisca per travolgere la percezione del passato e la consapevolezza della storia: quel passato e quella storia la cui conoscenza è il primo fondamento dell’identità degli individui, così come dei membri di una comunità.
Insomma, in quest’epoca di rivoluzione tecnologica il compito dell’istruzione superiore non dovrebbe essere tanto e solo quello di una «maggiore» diffusione del sapere; quanto quello di garantire in termini di qualità una sua «migliore» – sottolineo migliore – diffusione attraverso l’IA.
È perciò all’uso critico e consapevole delle nuove tecnologie che dovremmo saper educare le nuove generazioni. L’importante è uscire dalla sterile, tradizionale contrapposizione tra un’idea della scuola e dell’università come preparazione al mondo del lavoro e un’idea della scuola e dell’università come educazione anche della persona. Il contesto attuale è troppo complesso per poter essere ridotto ad una siffatta, semplificata alternativa. L’istruzione dovrebbe essere più ‘ambiziosa’. Dovrebbe porsi non l’obiettivo di sostituire solo i suoi contenuti tradizionali, ma quello, da una parte, di affrontarli con modalità innovative che, come quelle telematiche, tengano conto al meglio delle nuove realtà e delle nuove esigenze e, dall’altra, di affiancare ad essi i diversi contenuti che sono resi necessari da un mondo già oggi molto cambiato rispetto a quello di pochi decenni fa. Il tutto evitando che la tecnologia produca, come purtroppo sta avvenendo adesso, una capacità performativa che si realizza sempre più in maniera opaca, silenziosa e invisibile e che determina l’effettività di regole mai enunciate o scritte, ma estremamente pervasive.
3.2. Che significato potrebbe avere, in concreto, tutto questo riguardo al funzionamento di un sistema di formazione universitaria che sempre più si fonda sull’IA?
E la risposta che viene spontanea dalla lettura del libro che oggi presentiamo è che dovremmo essere consapevoli che l’avvento dell’IA offre ora sempre più l’occasione per fare delle Università luoghi di produzione e fruizione di cultura diffusa e qualificata. In questo contesto, quelle telematiche hanno il privilegio dell’uso ab origine delle tecnologie digitali, senza però che la loro esistenza possa essere in alcun modo di ostacolo all’attuazione, da parte delle Università storiche, di concorrenti percorsi innovativi e ibridi. A tutti e due i tipi di Università ciò che deve premere istituzionalmente è la difesa della qualità in qualunque modo perseguita. Il che vuol dire approfittare dell’avvento dell’IA per alleggerire la farraginosità delle procedure qualitative utilizzabili, senza tornare però a un passato non lontano nel quale una crescita quantitativa e non valutata produceva spesso un’immagine di Università poco responsabile verso la società.
Come suggeriscono alcuni passaggi degli scritti raccolti nel volume, tanto gli atenei tradizionali quanto quelli telematici andrebbero perciò sostenuti garantendo, ai primi, maggiori finanziamenti pubblici o privati e ad ambedue governance nuove e maggiore flessibilità di azione, che abbiano come obiettivo l’offerta di nuovi percorsi di qualità tanto nella didattica quanto nella ricerca. Questa è la richiesta che arriva forte dal mondo dell’istruzione superiore qualificata, a cui occorre dare al più presto una risposta senza aumentare la distanza tra gli uni e gli altri.
- I pregi e i difetti del Regolamento comunitario sull’IA
Vorrei concludere questo mio intervento richiamando quei passaggi dei contributi raccolti nel volume che fanno riferimento al Regolamento comunitario varato per disciplinare l’IA in senso verticale e orizzontale. Gli autori di tali contributi giustamente non hanno dubbi nel sostenere che tale Regolamento e la normativa nazionale che dovrebbe attuarlo – l’ultimo intervento è quello approvato dal Senato il 17 settembre di quest’anno – si inseriscono, nel bene e nel male, nella complessa realtà appena descritta. Ci aiutano, anzi, ad individuare quelli che sono, in via generale e a prima vista, i suoi maggiori pregi e difetti che andrebbero affrontati a livello politico e studiati a livello accademico.
4.1. Il primo pregio è quello di essere esso l’esempio di una regolazione verticale e orizzontale dell’intelligenza artificiale che, per quanto mi risulta, non ha finora riscontro in nessun altro Paese extraeuropeo.
Anche gli Stati Uniti si sono mossi in questa direzione con l’Executive order on face, secure and trustworthy artificial intelligence del 30 ottobre 2023, senza però essere riusciti a disegnare un atto di respiro analogo all’AI Act europeo.
Un secondo elemento positivo è il ricorso alla c.d. regolazione prudenziale, la quale, preso atto che l’intelligenza porta con sé inevitabili rischi, non prova ad annullarli, ma più pragmaticamente li minimizza avvalendosi della disciplina cautelare. Questa disciplina colloca, in particolare, le attività umane in due categorie: da un lato, quelle vietate in assoluto per la presenza di un rischio tanto elevato quanto insostituibile, dall’altro e sul versante opposto, quelle attività a basso rischio, come tali non toccate dalla regolazione prudenziale. Ai giuristi interessano evidentemente solo tutte le altre attività che si collocano in posizione intermedia fra le prime due (cioè, quelle vietate in assoluto e quelle a basso rischio), il cui rischio viene contemperato dall’osservanza delle norme prudenziali sull’attività d’impresa. Su tali tipi di attività dovrà in futuro soffermarsi l’attenzione degli addetti ai lavori.
Un altro rilevante pregio del Regolamento è la creazione di una futura Autorità europea sull’intelligenza artificiale che è l’ufficio deputato a un’attività di monitoraggio ex post sulla condotta imprenditoriale, nonché di coordinamento sull’azione delle rispettive autorità nazionali a ciò preposte.
4.2. Dall’altra parte, però, devo sottolineare alcuni difetti del Regolamento che attengono soprattutto alla carenza del controllo pubblico. Non può negarsi infatti che esso, così come è disciplinato, ha il dato negativo di essere destinato ad intervenire sempre in ritardo a macchine intelligenti già operanti sul mercato. L’unico sindacato ex ante è infatti interno, in house, non affidato ad un soggetto pubblico o ad un terzo, ma allo stesso ideatore delle macchine. Ne consegue, perciò, una discutibile inversione del rapporto tra aiutato ed aiutante a vantaggio esclusivo della macchina.
Questo è uno dei punti critici dell’AI Act, non superato neppure nell’atto deliberato dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione UE e dalle legislazioni nazionali che vi hanno fatto seguito come dimostra, ad esempio, la mancata previsione nel settore giustizia del ricorso obbligatorio a un terzo per l’audit anticipato[2].
Stando così le cose, gli esperti e i ricercatori qualificati dovrebbero studiare quale potrebbe essere in futuro, in un sistema così strutturato, il percorso delle autocrazie delle piattaforme verso una sorta di democrazia costituzionalmente garantita, che alcuni chiamano l’umanesimo digitale, ma che per ora non è facilmente identificabile. Come ho detto, né il Regolamento UE né la legislazione nazionale danno una risposta decisa a questa domanda. Contengono solo qualche passo avanti verso una maggiore responsabilizzazione nell’uso dell’IA e il suo sviluppo etico, regolando in termini generali i rapporti delle società di piattaforme con i loro utenti e richiedendo piena trasparenza. Non rispondono, però, alle seguenti ulteriori più impegnative domande: attraverso la via da esso indicata si può andare verso uno status simile ad una Costituzione con tanto di procedure giuridiche? Potremmo avere, un giorno, un vero e proprio costituzionalismo digitale?
È evidente che ci vuole tempo per dare una risposta soddisfacente a queste domande. Il problema che intanto la politica, le classi dirigenti e, soprattutto, la cultura accademica dovranno porsi con urgenza è il seguente: dato che il Regolamento entrerà in vigore, ad essere ottimisti, nei prossimi due/tre anni, sarà esso adeguato a far fronte alle accelerazioni imprevedibili della tecnologia? E se si dà per scontato che due/tre anni sono un’era geologica, la regolamentazione attuale e la ricerca che ne è alla base sono sufficientemente dinamiche e scientificamente convalidate per stare al passo con i successivi sviluppi dell’IA?
In altri termini, potremmo essere in presenza di una seria criticità: un eventuale futura inefficienza dell’AI, come dice Pollicino[3], rischia di provocare una crisi di rigetto in base alla quale gli Stati non riconoscerebbero il suddetto regolamento come proprio; regolamento che, al momento dell’entrata in vigore, potrebbe rivelarsi inefficace in quanto già obsoleto.
4.3. Se da questa preoccupante prospettiva comunitaria si passa allo scenario nazionale, mi pare scontato che i Paesi resortissants dovrebbero intervenire quantomeno negli spazi lasciati liberi dall’AI Act. La legislazione nazionale dovrebbe coprire, necessariamente, tutte quelle questioni sostanziali che il Regolamento comunitario non affronta e non può affrontare come, ad esempio, quelle relative al diritto d’autore, alla proprietà intellettuale e, soprattutto, ai profili penalistici. Su tali questioni il Governo italiano sta intervenendo con un apposito disegno di legge, nel quale si propongono alcune modifiche e integrazioni alla legislazione penale in materia e alla legge sui diritti d’autore, anticipando e ampliando quanto previsto nell’AI Act stesso.
È in questo contesto che si dovrebbe affrontare e risolvere a livello nazionale quello che è uno dei difetti dell’attuale disciplina europea dell’IA, che emerge chiaramente sullo specifico fronte dell’amministrazione della giustizia. Leggendo il Regolamento comunitario non si capisce, infatti, se secondo esso l’intelligenza artificiale deve intervenire nel momento istruttorio del processo o in quello decisionale. Se ammettessimo, come molti temono, questa seconda ipotesi, cosa rimarrebbe del ruolo del giudice? Il rischio è che si metterebbe in discussione la sua indipendenza, essendo esso sottoposto non più alla legge, ma alla tecnica. Insomma, chi risponderebbe della policy giudiziaria? Il giudice avrebbe solo un ruolo ancillare verso la macchina? E le garanzie costituzionali della neutralità sarebbero rispettate?
Deve riconoscersi che una risposta a queste domande che ci poniamo da tempo può venire solo dall’approvazione dei futuri codici di condotta nazionale e dei diversi conseguenti elementi di soft law. Il che significa che, allo stato, il Regolamento comunitario dovrebbe essere assunto non come un momento di arrivo, ma solo come un punto di partenza sul quale dovranno lavorare non solo il legislatore e i giudici nazionali, ma anche la cultura accademica. Solo il futuro potrà dirci se e come questo processo sarà convalidato dalla politica.
* È il testo della relazione tenuta dall’Autore in occasione della presentazione del volume “L’intelligenza artificiale tra regolazione e esperienze applicative” a cura di Antonio Felice Uricchio e Claudio Caldarola al Master di II livello Data Science per la Pubblica Amministrazione svoltasi il 25 settembre 2025 all’Università La Sapienza di Roma.
[1] Basta pensare al riguardo, solo per fare alcuni esempi, al contributo che le competenze digitali possono offrire alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale, alle stesse scienze umane, all’interpretazione e applicazione da parte del giudice delle norme con il prudente ausilio degli strumenti digitali e a tanto altro ancora su cui si è soffermato il richiamato Regolamento comunitario.
[2] Sul punto rinvio alle puntuali osservazioni di G. DE MINICO, Giustizia e intelligenza artificiale: un equilibrio mutevole, in Rivista AIC, 2, 2024.
[3] O. POLLICINO, Ai act, l’amaro in bocca per una sfida che la Ue ha raccolto solo in parte, in il Sole 24 Ore, 10 maggio 2024.


