Tratto da: Ildirittoamministrativo.it 

Autore: Nino Stefano Gabriele Musolin

ABSTRACT

Il Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159 sembrerebbe consentire l’avvio del procedimento amministrativo finalizzato all’emissione della certificazione antimafia unicamente su iniziativa di soggetti specifici e seguendo precise modalità.

Tale impostazione solleva però una questione interpretativa nei casi in cui il Prefetto, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, venga comunque a conoscenza di elementi idonei a fondare un provvedimento interdittivo e tuttavia il procedimento preordinato alla relativa emissione non sia preceduto da un’apposita richiesta di comunicazione o informazione antimafia inserita in B.D.N.A.

Ci si domanda pertanto se sia in astratto possibile avviare un procedimento amministrativo finalizzato all’emissione di un’eventuale interdittiva, ancorché in assenza di tale presupposto formale. Tanto in considerazione dei rilevanti interessi pubblici che la normativa antimafia mira a tutelare attraverso l’anticipazione dell’intervento statale. La disciplina normativa delineata dal Codice delle leggi Antimafia è infatti ispirata dalla necessità di precludere che imprese tacciate di ricevere influenze da parte di organizzazioni mafiose possano intrattenere rapporti economici con le Pubbliche Amministrazioni, a garanzia del buon andamento delle funzioni statali e della libera concorrenza tra le imprese.  In tale ottica, l’istituto della documentazione antimafia sarebbe caratterizzato da una portata generale e non già limitata al singolo rapporto tra la singola impresa e l’Amministrazione che avanza la richiesta alla Prefettura attraverso la Banca Dati.

Una soluzione del quesito interpretativo nei termini innanzi delineati, sebbene finalizzata all’incremento della tutela dell’ordine pubblico economico dal rischio di interferenze mafiose, presta tuttavia il fianco ad alcuni profili di criticità, attesa la sussistenza nel sistema normativo antimafia di una serie di elementi che ostano ad un’applicazione generalizzata dell’istituto in argomento, tra i quali svolge un ruolo fondamentale il principio di legalità dell’azione amministrativa. Siffatta problematica assume particolare pregnanza, attesa la laconicità normativa sul punto e l’assenza di una netta posizione della giurisprudenza al riguardo.

Nel silenzio del dato legislativo e in assenza di precisi orientamenti giurisprudenziali concernenti la problematica evidenziata, l’Autorità amministrativa è chiamata ad assumere un ruolo interpretativo che possa coniugare al contempo i superiori principi che governano l’agere pubblicistico con le esigenze di prevenzione del rischio di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sano. 

Sommario: 1. Brevi cenni sull’istituto dell’informazione interdittiva antimafia – 2. L’avvio “d’ufficio” dei procedimenti diretti all’emissione delle interdittive antimafia – 2.1 La soluzione negativa in merito all’emissione d’ufficio delle interdittive antimafia n.28 del 13 gennaio 2020 – 2.2. Segue: ulteriori argomentazioni sistematiche a sostegno dell’illegittimità di interdittive antimafia emesse “d’ufficio”: la valorizzazione del principio di legalità espressa dalla giurisprudenza amministrativa. Il caso delle verifiche antimafia nei confronti dei liberi professionisti non organizzati in forma di impresa – 2.3. Argomentazioni a sostegno di tesi possibiliste circa l’adottabilità “d’ufficio” di interdittive antimafia – 2.3.1. Spunti giurisprudenziali: Consiglio di Stato, Sezione Terza, sentenza n. 3386 del 15 aprile 2014 – 2.3.2. Segue: Consiglio di Stato, Sezione Terza, 28 aprile 2016 n.3300 – Considerazioni conclusive.

 

1 – Brevi cenni sull’istituto dell’informazione interdittiva antimafia

 

Un approccio all’oggetto della presente trattazione necessita di essere preceduto da un rapido cenno alla genesi e alle finalità dell’istituto dell’interdittiva antimafia[1].

È noto come negli ultimi decenni il legislatore abbia intensificato il suo intervento in materia antimafia e tanto è avvenuto a motivo del costante sviluppo delle modalità operative delle organizzazioni criminose[2].

L’acquisizione nel tempo di imponenti risorse economiche da parte delle cosche mafiose, infatti, ha comportato l’abbandono del loro tradizionale modus operandi, per tradizione basato sulla determinazione di un clima di assoggettamento e di omertà determinato dalla struttura associativa e dalle intimidazioni da essa promananti.

L’immagine di una mafia costituita da gruppi di soggetti che vivono dei taglieggiamenti ai piccoli commercianti è indubbiamente ormai un retaggio del passato.

Come è emerso da molteplici indagini giudiziarie, si è oggi diversamente al cospetto di solide organizzazioni criminali dotate di spiccate competenze imprenditoriali, le quali si avvalgono sempre più non solo di professionisti altamente qualificati, estranei o non al consorzio criminoso, ma anche di personalità legate all’ambito politico e istituzionale, e  ciò al fine di ottenere agevolazioni di qualsivoglia natura, quali una maggiore facilità nell’aggiudicazione di un appalto pubblico o nell’ottenimento di emolumenti comunque denominati.

Si è pertanto assistito nel corso dei decenni ad una progressiva infiltrazione mafiosa nel settore imprenditoriale e, in particolare, nella parte “sana” dell’imprenditoria, e ciò con l’effetto di rendere più agevole il riciclaggio dei proventi illeciti nonché, al contempo, l’acquisizione di ulteriori arricchimenti attraverso lo svolgimento di attività formalmente legali.

Ogniqualvolta si parla di “impresa mafiosa”, infatti, non si allude soltanto alle ipotesi in cui le attività imprenditoriali costituiscono espressione diretta delle attività di un sodalizio criminoso e servono appunto per agevolare i fini della medesima organizzazione, ma anche a tutte quelle circostanze in cui un imprenditore, ancorché non possa essere definito un intraneo e neppure un concorrente esterno al sodalizio, sia ciononostante con esso connivente.

Quanto innanzi osservato permette quindi di comprendere la ratio sottesa all’istituto dell’interdittiva antimafia, disciplinato nell’ambito dei molteplici strumenti di contrasto alle organizzazioni mafiose previsti dal D.Lgs. n. 159 del 2011 (c.d. Codice delle leggi Antimafia).

Non è questa la sede per affrontare in modo approfondito la tematica delle misure di prevenzione antimafia, per le quali si rinvia alla copiosissima dottrina e giurisprudenza in materia.

È invece opportuno fare brevi cenni sulle caratteristiche del citato provvedimento ostativo prefettizio.

Si tratta, nello specifico, di un provvedimento amministrativo di competenza del Prefetto della Provincia in cui ha sede legale l’impresa destinataria, attraverso il quale è attestata la sussistenza di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto previste di cui all’art. 67 del Codice Antimafia, ovvero di pericoli di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle imprese o società interessate (art. 87, comma 3 del D.Lgs n. 159/11).

Attraverso tale istituto il legislatore mira, al contempo, a salvaguardare i beni giuridici dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Si è quindi al cospetto di “un istituto mediante il quale, con un provvedimento costitutivo, si constata una obiettiva ragione di insussistenza della perdurante “sfiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell’imprenditore”, che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1674 c.c.) ovvero comunque deve sussistere, affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti”[3].

Nell’esercizio di un potere discrezionale[4], il Prefetto può quindi valutare la sussistenza di pericoli di infiltrazione mafiosa, alla stregua del canone interpretativo del “più probabile che non”, sulla base dei presupposti elencati dall’art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 159 del 2011, nonché – ex art. 91, comma 6 – “da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata (…)”.

Tali elementi possono dunque essere considerati idonei a sostenere l’ipotesi dell’esistenza di una contiguità dell’impresa con organizzazioni mafiose, sia in forma concorrente sia soggiacente.

Dall’adozione di un’informazione interdittiva antimafia deriva di conseguenza l’effetto costitutivo, in capo al destinatario, di una sorta di “parziale incapacità giuridica”, consistente nella preclusione di ogni rapporto imprenditoriale con le Pubbliche Amministrazioni, nonché l’impossibilità di ottenere da queste titoli abilitativi o emolumenti comunque denominati. Diversamente, gli effetti inibitori del provvedimento in parola non incidono sui rapporti commerciali tra privati.

L’interpretazione oggi prevalente ravvisa nell’informazione interdittiva antimafia la natura giuridica di provvedimento formalmente e sostanzialmente amministrativo, volto ad una più efficace tutela dell’interesse pubblico a che determinate imprese, delle quali si dubiti della loro affidabilità in termini di rischi di infiltrazioni mafiose nelle stesse, possano meritare la fiducia delle istituzioni e, di conseguenza, divenire titolari di rapporti contrattuali con le predette, ovvero destinatarie di titoli abilitativi da esse rilasciati, ovvero ancora di contributi, finanziamenti ed altre agevolazioni comunque denominate[5].

Si può pertanto ritenere che si sia al cospetto di provvedimenti amministrativi e non già sanzionatori, ragion per cui – in conformità all’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia – è da ritenersi estranea all’argomento qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio.

Tale anticipazione dell’intervento inibitorio statale appare giustificata dalla considerazione che un intervento penale, attuato per mezzo della previsione in astratto di fattispecie incriminatrici riconducibili a contesti operativi mafiosi, sarebbe idoneo a sortire effetti di contrasto alle attività mafiose unicamente ex post, ossia solo in conseguenza dell’integrazione di una fattispecie penalmente rilevante e, pertanto, come spesso avviene, in un momento temporale successivo alla lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice a seguito della commissione del fatto di reato.

Va inoltre aggiunto che la logica della certezza della responsabilità penale “al di là di ogni ragionevole dubbio” che permea l’ordinamento penalistico, chiaramente aggraverebbe l’onere probatorio a carico della pubblica accusa. Una simile logica, infatti, in non pochi casi sconterebbe il rischio di vanificare la finalità anticipatoria del meccanismo di prevenzione delle attività illecite proprie delle organizzazioni criminali, in uno con l’opportuna considerazione – sottesa alla ratio di tutte le misure di prevenzione antimafia – per cui appare più deterrente per un mafioso la possibilità di andare incontro ad una misura ablativa del proprio patrimonio accumulato attraverso condotte illecite, o comunque ad un provvedimento inibitorio delle proprie attività imprenditoriali, rispetto al rischio di dover affrontare un processo penale ed una conseguente privazione – più o meno lunga – della propria libertà personale.

Per le ragioni suesposte, il pericolo di infiltrazioni mafiose nelle imprese, presupposto per l’emissione dell’interdittiva antimafia, viene dedotto sulla scorta di regole di giudizio elastiche e di indizi identificativi traibili da un’ampia serie di elementi, che vanno dalla sussistenza di condanne penali o procedimenti in corso per i c.d. reati “spia” di cui all’art. 84, comma 4 lett. a) del D.Lgs n.159/2011, all’omessa denuncia di tentativi di estorsione o concussione da parte degli imprenditori, nonché alle vicende anomale nella gestione dell’impresa (i c.d. “valzer societari”), idonei a disvelare situazioni di inquinamento mafioso delle attività imprenditoriali ovvero intenti elusivi della normativa antimafia.

Gli elementi posti a fondamento del provvedimento interdittivo, pertanto, “possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o assoluzione. I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo.

Anche soggetti conniventi con la mafia, per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia.

Infatti, la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse, non si vale solo di soggetti organici o affiliati a essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa”[6].

Si tratta, ad ogni modo, di una valutazione prognostica che non sfugge a qualsiasi controllo di legittimità, né la discrezionalità amministrativa propria del Prefetto nella valutazione degli elementi sottoposti alla sua valutazione può ritenersi in linea di principio completamente libera, essendo necessario che le ragioni che inducono a definire “più probabile che non” il rischio di infiltrazione mafiosa dell’impresa trovino logico contemperamento in punto di motivazione del provvedimento.

Dal suesposto quadro normativo, pertanto, si evince come il legislatore, in un’ottica di maggiore anticipazione della soglia di intervento statale nella lotta contro la criminalità organizzata, abbia predisposto in materia un sistema di contrasto “a doppio binario”[7], ossia in chiave al contempo preventiva e repressiva.

 

2 – L’avvio “d’ufficio” dei procedimenti diretti all’emissione delle interdittive antimafia

Per comprendere appieno l’argomento trattato, è necessario partire da una breve descrizione della normativa attuale che regola il rilascio della certificazione antimafia.

Occorre innanzi tutto richiamare l’art. 83 del D.Lgs n. 159 del 2011, a guisa del quale “Le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di lavori o di servizi pubblici, devono acquisire la documentazione antimafia di cui all’articolo 84 prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nell’articolo 67”.

Il predetto comma è seguito da un’elencazione delle ipotesi in cui la succitata certificazione antimafia non è richiesta.

Il successivo art. 87, relativo alla “Competenza al rilascio della comunicazione antimafia”, sancisce che quest’ultima “è acquisita mediante consultazione della banca dati nazionale unica da parte dei soggetti di cui all’articolo 97, comma 1, debitamente autorizzati, salvo i casi di cui all’articolo 88, commi 2, 3 e 3-bis

  1. Nei casi di cui all’articolo 88, commi 2, 3 e 3-bis, la comunicazione antimafia è rilasciata
  2. a) dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all’articolo 2508 del codice civile.
  3. b) dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all’estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato.

2-bis. Il cambiamento della sede legale o della sede secondaria con rappresentanza del soggetto sottoposto a verifica, successivo alla richiesta della pubblica amministrazione interessata, non comporta il mutamento della competenza del prefetto cui spetta il rilascio della comunicazione antimafia, come determinata ai sensi del comma 2”.

Sulla stessa falsariga, con specifico riferimento al rilascio dell’informazione antimafia, l’art. 97 del Codice Antimafia è strutturato nei seguenti termini:

“1.  L’informazione antimafia è conseguita mediante consultazione della banca dati nazionale unica da parte dei soggetti di cui all’articolo 97, comma 1, debitamente autorizzati, salvo i casi di cui all’articolo 92, commi 2 e 3.

  1. Nei casi di cui all’articolo 92, commi 2 e 3, l’informazione antimafia è rilasciata:
  2. a) dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all’articolo 2508 del codice civile;
  3. b) dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all’estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato.
  4. Ai fini del rilascio dell’informazione antimafia le prefetture usufruiscono del collegamento alla banca dati nazionale unica di cui al capo V”.

Il contesto normativo innanzi delineato sembrerebbe quindi consentire l’avvio del procedimento di emissione della certificazione antimafia unicamente su iniziativa dei soggetti individuati all’art. 83 del D.Lgs n. 159/2011 e sulla scorta delle modalità indicate dalle norme su richiamate, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e i subcontratti relativi a lavori, servizi o forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare i provvedimenti previsti dall’art. 67 dello stesso Codice Antimafia.

Una problematica di ordine interpretativo si presenta tuttavia in tutti quei casi in cui il Prefetto, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, venga a conoscenza di elementi che potrebbero in astratto suffragare un provvedimento interdittivo antimafia e tuttavia manchi allo stato degli atti un’apposita richiesta di comunicazione o informazione antimafia inserita dalle stazioni appaltanti competenti attraverso la B.D.N.A., quale presupposto formale per l’avvio di un procedimento preordinato alla relativa emissione.

In termini maggiormente esplicativi, si fa riferimento all’eventualità in cui con riferimento ad un’impresa, relativamente alla quale non sussiste una previa richiesta di documentazione antimafia inserita in B.D.N.A. da parte di una Pubblica Amministrazione individuata ai sensi dell’art. 83 C.A., il Prefetto sia nondimeno in possesso di elementi – derivanti, a titolo esemplificativo, da informative provenienti dalle Forze di Polizia, ovvero da attività giudiziarie o anche notizie di cronaca – di consistenza, concretezza e attualità tali da poter sostenere un provvedimento inibitorio.

Rispetto all’evenienza da ultimo evocata, ci si interroga sulla possibilità o meno di avviare un procedimento amministrativo finalizzato all’eventuale emissione di un’interdittiva, ancorché in assenza del presupposto procedimentale individuato nella previa richiesta di certificazione antimafia da parte di un soggetto pubblico. Tanto in considerazione sia dei rilevanti interessi pubblici che la normativa in parola mira a tutelare attraverso l’anticipazione dell’intervento statale, quanto della ratio che connota l’istituto in parola.

La disciplina delineata dal Codice delle leggi Antimafia, come già si è osservato, è infatti ispirata dalla necessità di precludere che alcuni soggetti economici, tacciati di ricevere influenze da parte di organizzazioni mafiose, possano intrattenere rapporti economici di qualsivoglia tipo con le Pubbliche Amministrazioni. Questo a garanzia del buon andamento delle funzioni statali e della libera concorrenza tra le imprese.

Inquadrato in tale ottica l’argomento e attesa la ratio sottesa all’istituto dell’interdittiva antimafia, si potrebbe quindi ritenere, secondo una prima prospettazione, che il legislatore intenda attribuire rilievo primario non tanto al rispetto formale delle regole procedurali di avvio dell’istruttoria, quanto piuttosto al conseguimento dell’obiettivo sostanziale perseguito dalla disciplina: prevenire il pericolo di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico. Privilegiare l’elemento formale rispetto a tale finalità sostanziale rischierebbe, infatti, di compromettere la stessa efficacia della normativa.

Una soluzione della questione interpretativa nei termini sopra delineati non può tuttavia considerarsi pacificamente condivisibile. Nel quadro normativo antimafia, infatti, sono presenti diversi elementi che ostano a un’applicazione generalizzata dell’istituto in argomento. Tra questi, rivestono un ruolo centrale i principi di legalità e di tassatività, che regolano l’insieme delle attività amministrative.

Nel silenzio del dato normativo sul punto e in assenza di orientamenti giurisprudenziali concernenti la problematica evidenziata, l’interprete è quindi chiamato ad assumere un ruolo vicario che possa coniugare al contempo i superiori principi che governano l’agere pubblicistico con le esigenze di prevenzione del rischio di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sano.

 

2.1- La soluzione negativa in merito all’emissione d’ufficio delle interdittive antimafia n.28 del 13 gennaio 2020

In ordine alla problematica di cui trattasi, una risposta negativa al quesito relativo all’adottabilità di interdittive antimafia in assenza di una previa richiesta di certificazione antimafia da parte dei soggetti all’uopo legittimati è da ricollegare essenzialmente al più generale principio di legalità dell’azione amministrativa, a guisa del quale ogniqualvolta vi sia l’esercizio di un potere pubblicistico occorre che sussista una legge che fondi quel potere stesso e che stabilisca con quali modalità debba essere esternato.

Sulla scorta del succitato principio, sotteso all’art. 97 della Costituzione e, a livello di legislazione ordinaria, all’art. 1 della l. n. 241 del 1990, ogni potere pubblicistico deve quindi trovare il suo presupposto imprescindibile in una disposizione di legge, la quale deve sempre individuare quelli che sono gli scopi cui l’agere amministrativo deve tendere, essendo in linea di principio precluso alle amministrazioni l’esercizio di poteri totalmente liberi nei fini.

Esposto nei suddetti termini, pertanto, il principio di legalità nell’attività amministrativa fornisce un ineludibile presidio di garanzia del cittadino nei confronti del potere statale che, connotato da un carattere autoritativo ed esecutorio, necessita di conseguenza di essere predeterminato dal legislatore nei presupposti di esercizio e nelle relative modalità.

Non può inoltre farsi a meno di osservare come il problema della legalità dell’azione amministrativa assuma particolare rilevanza in un settore – quello delle misure di prevenzione antimafia – connotato da una forte anticipazione della soglia di intervento dello Stato, in cui il potere pubblicistico viene esercitato all’esito di un procedimento fondato sulla regola probatoria del “più probabile che non”, cui corrispondono effetti particolarmente incidenti sulla sfera giuridica economico-patrimoniale dei destinatari, ancorché lo stesso potere sia giustificato da esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica da interferenze di tipo mafioso nell’economia sana.

A tal specifico riguardo, vale comunque precisare, per inciso, che la Corte Costituzionale si è già espressa in senso positivo in merito alla compatibilità dell’istituto dell’interdittiva antimafia con il quadro dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione.

Si fa riferimento, in particolare, alla pronuncia n. 57 del 2020, con la quale la Consulta ha respinto la questione di legittimità costituzionale degli artt. 89 bis e 91, commi 3 e 4 del D.Lgs n.159/2011, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.

Nel caso di specie, il Giudice a quo riteneva che una legislazione che affida l’azione preventiva delle infiltrazioni mafiose nell’economia da parte dello Stato ad un provvedimento amministrativo, quale è l’informazione antimafia, equiparandola sostanzialmente quanto agli effetti ad un provvedimento giurisdizionale definitivo, potesse porre dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento alle norme innanzi richiamate. Segnatamente, il rimettente riteneva irragionevole che ricollegare al rilascio dell’informazione interdittiva antimafia, dunque ad un provvedimento amministrativo, gli stessi effetti ostativi – indicati dall’art. 67 del D.lgs 159/2011 – che la medesima norma riconnette alla definitività di un provvedimento di natura giurisdizionale, quale è una misura di prevenzione personale.

Con la pronuncia in parola la Consulta ha dunque sancito la legittimità costituzionale della normativa antimafia, a ragione della suaccennata prospettiva anticipatoria della difesa della legalità in cui si collocano i provvedimenti in discorso, ai quali viene riconosciuta una natura “cautelare e preventiva”, volta non già a “colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze”.

La sentenza de qua, nondimeno, ha evidenziato la circostanza che l’informazione antimafia sia un provvedimento fondato “su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari”, implicanti  “una valutazione tecnico- discrezionale dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa”, e ciononostante tutto ciò “non comporta che nella specie si debba ritenere violato il principio fondamentale di legalità sostanziale, che presiede all’esercizio di ogni attività amministrativa”. Tale ultimo assunto, pertanto, richiede che “l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela die fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale (…), richiedano alla prefettura una attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa”.

Le complesse valutazioni cui fa riferimento la pronuncia summenzionata, le quali sono sì discrezionali ma dalla forte componente tecnica, devono dunque emergere da una motivazione accurata e sono altresì soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo.

A conferma delle considerazioni finora svolte si può accennare infine all’articolo 91, comma 7 bis del Codice delle leggi Antimafia, a guisa del quale:

“Ai fini dell’adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, l’informazione antimafia interdittiva, anche emessa in esito all’esercizio dei poteri di accesso, è tempestivamente comunicata anche in via telematica:

  1. a) alla Direzione nazionale antimafia e ai soggetti di cui agli articoli 5, comma 1, e 17, comma 1;
  2. b) al soggetto di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, che ha richiesto il rilascio dell’informazione antimafia;
  3. c) alla camera di commercio del luogo dove ha sede legale l’impresa oggetto di accertamento;
  4. d) al prefetto che ha disposto l’accesso, ove sia diverso da quello che ha adottato l’informativa antimafia interdittiva;
  5. e) all’osservatorio centrale appalti pubblici, presso la direzione investigativa antimafia;
  6. f) all’osservatorio dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e forniture istituito presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, ai fini dell’inserimento nel casellario informatico di cui all’articolo 7, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici di cui all’articolo 62-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82;
  7. g) all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per le finalità previste dall’articolo 5-ter del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27;
  8. h) al Ministero delle infrastrutture e trasporti;
  9. i) al Ministero dello sviluppo economico;
  10. l) agli uffici delle Agenzie delle entrate, competenti per il luogo dove ha sede legale l’impresa nei cui confronti è stato richiesto il rilascio dell’informazione antimafia”.

Dalla lettura della disposizione su richiamata discendono due ordini di considerazioni.

In primo luogo, l’utilizzo della congiunzione “anche”, collegata all’inciso “emessa in esito all’esercizio dei poteri di accesso”, contenuto nel primo comma della citata norma, sembrerebbe essere dimostrativo del fatto che l’emissione di un’informazione interdittiva a seguito degli “accessi ed accertamenti nei cantieri delle imprese interessate all’esecuzione di lavori pubblici”, ai sensi dell’art. 93 Cod. Ant., rappresenti la sola eccezione testualmente ammessa dal legislatore al potere di adottare provvedimenti inibitori in materia antimafia in assenza di una previa richiesta di certificazione da parte di una stazione appaltante.

Secondariamente, assume rilevanza quanto previsto dalla lettera b) del medesimo articolo 91, comma 7 bis, laddove dispone che il provvedimento interdittivo debba essere comunicato, in uno con gli altri destinatari indicati dalle altre lettere, anche al soggetto “che ha richiesto il rilascio dell’informazione antimafia”. Tale prescrizione appare fondamentale nel senso di ritenere necessaria, in ordine all’avvio di un procedimento amministrativo tendente all’emissione della certificazione antimafia, una previa richiesta in Banca Dati da parte di una P.A..

Tale assunto appare ancor più avvalorato se si considera che la stessa norma annovera tra i destinatari della comunicazione del provvedimento inibitorio i soggetti che hanno richiesto la certificazione antimafia e non già altri soggetti terzi. Se diversamente si ammettesse la possibilità di emettere un’interdittiva a prescindere da una previa richiesta in Banca Dati, ne deriverebbe che tra i destinatari della relativa notifica dovrebbe a rigore annoverarsi quantomeno anche l’Ufficio Comunale in cui ha sede l’impresa colpita dal provvedimento.

Infine, appare decisivo nello stesso senso anche il contenuto dell’art. 83 bis del Codice Antimafia, inserito dall’art. 3, comma 7 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla L. 11 settembre 2020, n. 120.

Sebbene si possa rilevare che il legislatore abbia assunto una posizione in merito all’ammissibilità della richiesta di certificazione antimafia da parte di un soggetto privato, pur sul presupposto della sussistenza di un protocollo di legalità, specularmente si potrebbe anche ritenere che l’espressa previsione per cui gli stessi protocolli di legalità, sottoscritti per la prevenzione e il contrasto di fenomeni di criminalità organizzata nei pubblici appalti, possano “prevedere modalità per il rilascio della documentazione antimafia anche su richiesta di soggetti privati”, confermi l’assunto per cui solo in presenza di un’eccezione tipizzata sarebbe possibile derogare al disposto di cui all’art. 83 del Codice Antimafia e non sarebbe affatto indicativa di un’apertura legislativa circa la legittima emissione di un provvedimento ostativo svincolato da rigidi presupposti procedimentali.

Dalle suesposte considerazioni, pertanto, appare possibile concludere nel senso che il rispetto del principio di legalità sostanziale debba essere considerato una componente essenziale dell’esercizio dell’attività amministrativa, alla quale non sfuggono neppure quelle tipologie di provvedimenti che – come nel caso delle interdittive antimafia – risultano caratterizzati da una forte connotazione preventiva.

Ne deriva di conseguenza l’impossibilità di estendere la portata applicativa delle norme di cui al Codice Antimafia al di là dei casi testualmente previsti.

 

2.2 – Segue: ulteriori argomentazioni sistematiche a sostegno dell’illegittimità di interdittive antimafia emesse “d’ufficio”: la valorizzazione del principio di legalità espressa dalla giurisprudenza amministrativa. Il caso delle verifiche antimafia nei confronti dei liberi professionisti non organizzati in forma di impresa

 

Di recente la giurisprudenza amministrativa ha preso una decisa posizione in merito alla possibilità di sottoporre ad accertamenti antimafia anche i liberi professionisti non organizzati in forma di impresa.

Si fa riferimento alla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Terza, n.2212 del 12 gennaio 2023.

Oggetto dello scrutinio del Giudice Amministrativo di secondo grado concerneva per l’appunto la questione “se la persona fisica che non riveste la qualità di titolare di impresa o di società possa essere destinatario di una informativa antimafia di tipo interdittivo”.

Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso in appello, sorretto in particolare dall’assunto secondo cui l’art.100 del Codice Antimafia prevede “l’obbligo dell’ente locale sciolto per infiltrazione mafiosa di acquisire l’informazione in relazione a qualsiasi contratto o subcontratto, senza distinguerne la natura o l’oggetto ed indipendentemente dal valore, a differenza degli artt. 83 e 91”.

Detta pronuncia, confermativa della sentenza di primo grado, ha dapprima incentrato la soluzione della problematica in parola nell’esame della delimitazione delle categorie di soggetti suscettibili di essere attinti dal provvedimento limitativo della loro capacità giuridica speciale.

Secondo il Consiglio di Stato tali categorie sono “tassativamente individuate dalla disposizione primaria (pur nel contesto di una previsione dai confini applicativi piuttosto estesi)”, disposizione nella quale non è dato individuarvi i liberi professionisti che non siano organizzati in forma di impresa. La pronuncia de qua, nell’individuare il principio risolutivo dello specifico gravame, ha dunque posto l’accento sull’importanza che il principio di legalità/tassatività dell’azione amministrativa riveste nell’ordinamento giuridico. Detto principio, “che deve regolare l’esercizio del potere (in punto di ricognizione dei possibili destinatari del provvedimento interdittivo) – impedisce che l’incapacità giuridica relativa recata dal provvedimento afflittivo di cui si tratta possa essere – per soggetti non contemplati come destinatari dalla disposizione attuativa del potere – un effetto non espressamente previsto dalla legge, ma desunto per implicito da un’interpretazione sistematica (peraltro…ancorata a parametri disomogenei, quali il valore e l’oggetto dei contratti) che comporti la conseguenza dell’ampliamento dell’ambito soggettivo di applicazione della stessa”.

“Il principio di legalità”, dunque, “impone inoltre che nell’esegesi di una simile disposizione il dato letterale non venga superato, in senso afflittivo e limitativo delle libertà dei soggetti interessati, da un’estensione dell’ambito soggettivo di applicazione non espressamente contemplata dal legislatore”.

Ne consegue che una richiesta di certificazione antimafia avanzata nei confronti di un operatore economico persona fisica, non organizzata in forma di impresa, è da considerarsi non ammessa dalla normativa vigente.

Gli assunti innanzi riportati, al di là della specifica problematica per la cui soluzione sono stati espressi, si prestano a ben vedere ad essere richiamati, in un’ottica sistematica, anche nell’ambito della questione oggetto della presente trattazione.

Non può farsi a meno di considerare, infatti, come il diritto amministrativo, alla stregua delle altre branche dell’ordinamento giuridico, non sia un sistema avulso dal complesso giuridico, ma vada interpretato nell’ampio contesto ordinamentale in cui è inserito, ivi comprese le norme costituzionali tra le quali, per l’appunto, si rinviene il principio di legalità dell’azione amministrativa.

Quanto in precedenza osservato consente quindi di evidenziare l’importanza che riveste il principio di legalità nell’affermazione della certezza del diritto, la quale si declina anche nella prevedibilità dell’applicazione delle norme giuridiche e contribuisce in tal modo a determinare l’affidamento dei cittadini nell’ordinamento, elemento imprescindibile di un moderno Stato democratico.

Ne consegue che in un ordinamento giuridico che esclude la coesistenza di norme tra loro contraddittorie, il principio di legalità e di tassatività — inteso come limite all’ampliamento della platea dei possibili destinatari delle interdittive antimafia — deve essere valorizzato anche con riferimento ai presupposti per l’adozione di tali provvedimenti ostativi. In altri termini, in un’ottica di coerenza giuridica, così come il principio di legalità più volte richiamato preclude che un’interdittiva antimafia possa essere emessa nei confronti di destinatari non individuati con precisione dalla norma giuridica, analogamente impedisce che il medesimo provvedimento inibitorio possa essere legittimamente adottato in carenza dei presupposti procedimentali legalmente individuati.

Un ulteriore argomento critico nei confronti della possibilità che sia emessa un’interdittiva antimafia nei confronti di soggetti che non hanno rapporti contrattuali con le Pubbliche Amministrazioni lo si può evincere altresì dalla lettura della sentenza della terza Sezione del Consiglio di Stato, n.452 del 20 gennaio 2020.

Il caso sottoposto al vaglio del Giudice Amministrativo traeva origine da una richiesta di certificazione antimafia avanzata alla Prefettura – sulla scorta di un protocollo di legalità – da parte di un privato “per la conclusione di contratti di rilevanza solo privatistica, in alcun modo connessi all’uso di poteri, procedimenti o risorse pubbliche”.

Tale pronuncia, nell’annullare l’informazione interdittiva in seguito emessa, ha precisato che la stessa non avrebbe potuto essere adottata, in quanto “il soggetto che ha chiesto la verifica alla Prefettura non è incluso tra gli enti indicati dall’art. 83, d.lgs. n. 159 del 2011”.

Il Supremo Consesso, pertanto, con la pronuncia in argomento ha posto in evidenza in maniera chiara come i soggetti che devono acquisire la documentazione antimafia, sulla scorta dell’art. 84 Cod. Ant., debbano essere necessariamente soggetti pubblici.

Vale sul punto precisare che la sentenza citata è stata emessa sulla scorta del quadro normativo esistente prima dell’innovazione del Codice Antimafia effettuata dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, il quale ha introdotto nel tessuto codicistico il già richiamato art. 83-bis, rubricato “protocolli di legalità” e contenente la previsione per cui “il Ministero dell’Interno può sottoscrivere protocolli, o altre intese comunque denominate, per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata, anche allo scopo di estendere convenzionalmente il ricorso alla documentazione antimafia di cui all’articolo 84”, protocolli che “possono prevedere modalità per il rilascio della documentazione antimafia anche su richiesta di soggetti privati, nonché determinare le soglie di valore…”.

Nondimeno la predetta pronuncia, al di là del caso concreto che è stata chiamata ad esaminare e delle richiamate innovazioni normative sopravvenute, appare indicativa di una tendenza giurisprudenziale decisa nel riconoscere valore assoluto al principio di legalità dell’azione amministrativa, al punto da non riconoscere spazio alcuno ad una lettura estensiva delle disposizioni in materia antimafia e, dunque, alla possibilità di emissione di un’interdittiva indipendentemente dai presupposti formali di avvio del procedimento rigidamente fissati dal legislatore.

2.3 – Argomentazioni a sostegno di tesi possibiliste circa l’adottabilità “d’ufficio” di interdittive antimafia

Quanto osservato nel capitolo che precede mette in luce l’elevata difficoltà, in un ordinamento giuridico come il nostro ancorato rigidamente al principio di legalità dell’azione amministrativa, di concepire la legittimità di un provvedimento amministrativo fortemente inibitorio – quale è appunto l’interdittiva antimafia – all’infuori dei casi e dei presupposti specificamente individuati dal legislatore.

Non può tuttavia farsi a meno di considerare che una soluzione al quesito in argomento in termini negativi, ancorché formalmente rispettosa dei fondamentali principi guida dell’agere amministrativo, rischia tuttavia di determinare un vulnus della ratio sottesa all’intero complesso normativo antimafia, la quale si rinviene nell’esigenza di prevenire i tentativi di infiltrazioni mafiose nelle imprese che possono intrattenere rapporti economici con la Pubblica Amministrazione. La stessa ratio verrebbe infatti ad essere parzialmente svuotata di significato laddove si dovesse subordinare l’intervento anticipato dello Stato alla presenza di un presupposto formale – quale appunto è l’inserimento in B.D.N.A. di una richiesta di certificazione antimafia da parte di una stazione appaltante – permettendo in tal modo ad un’impresa “inquinata” di operare indisturbatamente sul mercato.

Opinando in tal senso, risulta evidente che l’intervento anticipato dello Stato a tutela di interessi pubblici di primario rilievo diverrebbe subordinato all’attivazione da parte dei soggetti di cui all’art. 83 Cod. Ant., deputati all’inserimento della predetta richiesta in Banca Dati.

Tuttavia, un diverso approccio alla questione potrebbe condurre a una soluzione alternativa, basata sull’individuazione di elementi normativi che possano giustificare un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia di certificazione antimafia.

Si tratterebbe, detto altrimenti, di fare ricorso ad una sorta di analogia iuris che, come è noto, rappresenta un metodo di interpretazione giuridica utilizzabile ogniqualvolta manchi una norma espressa che consenta di disciplinare il caso concreto sottoposto all’interprete e non possa neppure rinvenirsi una norma prevista per una fattispecie simile da applicare attraverso il ricorso all’analogia legis[8]. In tali evenienze, è in astratto consentito all’interprete, anche nel diritto amministrativo, ricavare dai principi generali che permeano l’intero ordinamento giuridico la soluzione valida per il caso concreto.

Di conseguenza, una soluzione alla controversa problematica ermeneutica in discorso potrebbe essere individuata nella ricognizione, nell’ambito delle norme previste in materia antimafia, di uno o più riferimenti normativi idonei a consentire al Prefetto di poter procedere all’emissione di un’interdittiva antimafia pur in assenza del presupposto fattuale individuato nella formale richiesta della certificazione in B.D.N.A. da parte di una Pubblica Amministrazione. In tal modo potrebbe ritenersi in astratto consentito l’intervento preventivo statale che però non travalicherebbe il perimetro tracciato dal principio di legalità.

Un disteso approccio alla questione suggerisce quindi di analizzare in primo luogo la portata dell’articolo 89- bis del D.Lgs n.159/2011, a tenore del quale:

 “1. quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere la comunicazione antimafia.

2.L’informazione antimafia adottata ai sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta”.[9]

La norma in parola rappresenta la risposta ordinamentale ad una situazione ritenuta dal legislatore particolarmente pregiudizievole per l’ordine pubblico e l’economia, ossia il pericolo di infiltrazioni mafiose nelle imprese che viene ritenuto sussistente sulla scorta di elementi informativi acquisiti in sede di rilascio di una comunicazione antimafia di cui agli artt. 84 e ss. Cod. Ant.

Detto altrimenti, ogniqualvolta il Prefetto si trovi a dover rilasciare una comunicazione antimafia che, come noto, consiste nella sola attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 del D. Lgs. 159/2011, e tuttavia emergano dagli atti d’ufficio sospetti che l’impresa in questione possa essere soggetta a pericoli di infiltrazioni mafiose, tali presupposti consentono all’Ufficio antimafia di procedere con una “trasformazione” della comunicazione antimafia in informazione interdittiva ai sensi dell’art. 91 Cod. Ant.

Un’ulteriore norma che viene in rilievo nella trattazione della problematica in argomento è l’articolo 93 del D.Lgs n. 159/2011, il quale prevede e disciplina i poteri di accesso e di accertamento di cui il Prefetto dispone ai fini dell’espletamento delle funzioni volte a prevenire infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici.

A tale scopo, la disposizione de qua consente allo stesso di disporre accessi e accertamenti nei cantieri delle imprese coinvolte nell’esecuzione di lavori pubblici, avvalendosi dei gruppi interforze di cui all’art. 5, comma 3 del Decreto del Ministro dell’Interno 14 marzo 2003.

Il Prefetto, una volta ricevuta la relazione che il Gruppo Interforze è tenuto a redigere al termine delle citate attività, valuta se, sulla scorta dei dati raccolti ed esaminati, possano sussistere indici di infiltrazioni mafiose tali da poter influenzare in qualsiasi modo le attività delle imprese e, di conseguenza, vi siano i presupposti per l’emissione di un’interdittiva antimafia.

Attraverso il vaglio delle norme innanzi richiamate (gli artt. 89-bis e 93 del D.Lgs 159/2011), si evince come le stesse si inscrivano in una logica unitaria che permea l’intero Codice delle leggi Antimafia e che va individuata nell’esigenza del legislatore di approntare strumenti quanto più possibile idonei a prevenire il fenomeno delle infiltrazioni mafiose nell’economia sana, consentendo di trasformare una richiesta di comunicazione antimafia in informazione interdittiva e di intervenire in via inibitoria non solo ex ante, ossia nella fase che precede l’instaurazione di rapporti negoziali o autorizzativi tra imprese e Pubbliche Amministrazioni, in via dunque preventiva, bensì, come avviene nel caso del citato art. 93, anche nella fase attuativa di un contratto pubblico.

Vale osservare che in tal senso appare essere orientata anche una recente pronuncia del TAR Milano, la n. 820 del 22 febbraio 2023, secondo la quale “il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” ha natura cautelare e preventiva e mira a scongiurare l’infiltrazione mafiosa nell’economia, eliminando i soggetti economici infiltrati dalle associazioni mafiose dal circuito dell’economia legale, e non solo da quello dei rapporti con la Pubblica Amministrazione”. Con tale inciso la sentenza de qua sembra voler rimarcare una giustificazione dell’intervento preventivo dello Stato a tutela di interessi di grande rilevanza pubblicistica, anche qualora detto intervento sia ufficioso.

Ad ogni modo, ciò che rileva ai fini della trattazione della questione in argomento è che le norme innanzi citate consentono al Prefetto l’emissione di un provvedimento interdittivo indipendentemente dalla previa acquisizione in B.D.N.A. di una formale richiesta di informazione antimafia.

Non si manca di considerare, infatti, come l’art. 89-bis Cod. Ant. consenta l’adozione di un provvedimento “diverso” (un’informazione interdittiva) da quello originariamente richiesto (una comunicazione antimafia), mentre nell’ipotesi disciplinata dal successivo art. 93 è evidente come manchi ab origine qualsiasi atto di impulso da parte di una stazione appaltante e malgrado ciò l’intervento preventivo del Prefetto è ritenuto dal legislatore giustificato dagli interessi giuridici che la normativa in parola mira a tutelare.

L’analisi normativa innanzi effettuata conduce pertanto a corroborare l’assunto secondo cui un’interpretazione sistematica e funzionale delle norme previste in materia antimafia parrebbe legittimare l’emissione di un provvedimento interdittivo, pur in assenza di un formale atto di impulso del relativo procedimento amministrativo rappresentato dalla richiesta di certificazione antimafia in B.D.N.A.

Un simile ragionamento, tuttavia, si presta a non trascurabili profili di opinabilità.

Sebbene infatti i precedenti assunti abbiano il pregio di consentire di ampliare l’intervento statale in materia di prevenzione dalle infiltrazioni mafiose, non può non rilevarsi che le ipotesi innanzi richiamate – ossia quelle previste agli artt. 89-bis e 93 c.a. – possono essere anche interpretate non già in termini di indifferenza del legislatore verso qualsiasi presupposto procedimentale per legittimare l’emissione di un’interdittiva antimafia, bensì, specularmente, quale eccezione – testualmente prevista – alla regola generale secondo cui è sempre necessaria una richiesta di certificazione antimafia da parte delle stazioni appaltanti per l’avvio del procedimento in parola.

Occorre inoltre considerare che il ricorso all’analogia, quale strumento utile a colmare lacune normative per garantire completezza all’ordinamento, non è privo di limitazioni. Ai fini del corretto utilizzo di tale tecnica interpretativa, infatti, l’interprete deve tenere conto, nel caso concreto, non solo della ratio del contesto normativo di riferimento ma anche, fondamentalmente, che non si sia al cospetto di una lacuna normativa intenzionale da parte del legislatore.

Applicando le considerazioni sopra esposte alla problematica in esame, si potrebbe quindi ritenere che la previsione – contenuta nelle norme precedentemente richiamate – delle specifiche ipotesi in cui il Prefetto può emettere un’interdittiva antimafia anche in assenza di una richiesta di certificazione da parte di una Pubblica Amministrazione, rappresenti una chiara scelta del legislatore di limitare tali eccezioni a casi ben determinati. Tanto a conferma della regola secondo cui l’adozione di un provvedimento interdittivo richiede, in via ordinaria, un atto di impulso proveniente dai soggetti pubblici tenuti all’acquisizione della documentazione antimafia, in ossequio al principio di legalità e tassatività, che ammette deroghe solo nei limiti espressamente previsti dalla legge.

 

 

2.3.1- Spunti giurisprudenziali: Consiglio di Stato, Sezione Terza, sentenza n. 3386 del 15 aprile 2014

Come si è avuto modo di osservare nei paragrafi che precedono, sulla questione oggetto della presente trattazione, in assenza di precise indicazioni rinvenibili dal dato normativo, non appare ravvisabile, allo stato, un orientamento giurisprudenziale consolidato.

Nondimeno, assume peculiare rilievo ai fini che interessano in questa sede la pronuncia del Consiglio di Stato n.3386 del 15 aprile del 2014.

Fulcro centrale attorno a cui ruota la pronuncia succitata è, in sintesi, un’interdittiva emessa nei confronti del titolare di un’azienda agricola, in seguito alla quale la stazione appaltante ha provveduto a revocare il finanziamento erogato, per cui la stessa aveva richiesto la certificazione antimafia.

Vale al riguardo premettere che la normativa applicabile ratione temporis alla controversia era contenuta nel D.P.R. n. 252 del 1998.

In particolare, l’art. 10, comma 1, del D.P.R. citato sanciva che le Pubbliche Amministrazioni «devono acquisire» le informazioni antimafia in relazione a determinate soglie di valore, corrispondenti:

– per gli appalti di lavori, servizi e forniture, ad un valore pari o superiore a quello di rilevanza comunitaria (lettera a);

– per le concessioni di beni pubblici, ovvero di contributi, finanziamenti ed altre erogazioni dello stesso tipo (lettera b), nonché per l’autorizzazione di subcontratti, cessioni o cottimi concernenti la realizzazione di lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche (lettera c), ad un valore superiore ai 300 milioni di lire.

Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera e), la documentazione antimafia «non è comunque richiesta» per i provvedimenti gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore complessivo non supera i 300 milioni di lire.

Analoghe disposizioni sono oggi contenute negli artt. 91, comma 1, e 83, comma 3, lettera e) del d.lgs. 159/2011, applicabile a decorrere dal 13 febbraio 2013. In particolare, l’art. 91, comma 1, per gli appalti (lettera a), conferma il richiamo alla soglia di rilevanza comunitaria pro tempore vigente, e prevede negli altri casi (lettere b) e c) la soglia di 150.000 euro, mentre l’art. 83, comma 3, prevede che la documentazione antimafia non è comunque richiesta fino ad una soglia di 150.000 euro.

Il T.A.R. per la Calabria, Sezione Staccata di Reggio Calabria, con sentenza n. 607 del 2012 ha accolto il ricorso proposto, ritenendo fondato il motivo di violazione dell’art. 10 del DPR n. 252 del 1998 in quanto, secondo la citata pronuncia, l’Amministrazione non avrebbe dovuto richiedere la certificazione antimafia, atteso che l’ammontare del finanziamento erogato era inferiore alle soglie che, sulla scorta della precedente disposizione di legge, comportavano l’avvio del procedimento in discorso.

Ad avviso del Tribunale Amministrativo le soglie di valore rappresentano un limite introdotto dal legislatore “per contemperare in maniera ragionevole e proporzionata l’esigenza di assicurare, da un lato, le ragioni di interesse pubblico alla prevenzione (ossia a che non interloquiscano con la PA e non usufruiscano così di rimesse pubbliche soggetti che, pur incensurati, possono comunque essere direttamente o indirettamente controllati dalla criminalità) e, dall’altro, l’altrettanto qualificata esigenza di consentire libertà di impresa e speditezza degli affari ad operatori che non sono colpiti da condanne o sottoposti a conseguenti interdizioni sanzionatorie di natura penale”.

Ne deriva che “la tassatività della previsione normativa ha effetto erga omnes e dunque si impone non solo al Prefetto (di cui vincola il potere), bensì anche alle parti di un negozio di diritto pubblico (che sono i destinatari degli effetti dell’esercizio del potere interdittivo, al pari dell’impresa oggetto di accertamento), e dunque rende illegittima non solo l’emissione, ma anche la richiesta di certificazione per importi sotto soglia (concorrendo entrambe le condotte alla violazione del precetto)”.

L’orientamento appena richiamato, fatto proprio dal TAR con la succitata pronuncia, appare valorizzare chiaramente il principio di tassatività quale limite all’estensione delle prerogative amministrative, impedendo in tal modo all’Amministrazione procedente l’avvio dell’iter procedimentale e, al contempo, alla Prefettura la conclusione dello stesso mediante l’adozione di un provvedimento inibitorio.

Tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto fondato l’appello proposto. Diversamente dal giudice di prime cure, infatti, il Supremo Consesso amministrativo ha considerato che “la richiesta di informazioni fatta alla Prefettura, anche se non obbligatoria, non poteva ritenersi certo illegittima. Né tantomeno poteva ritenersi illegittima, sotto il profilo in questione, l’interdittiva emessa dal Prefetto”.

Prosegue la sentenza in parola statuendo che “la scelta di una stazione appaltante di avvalersi della possibilità di richiedere l’informativa non è preclusa dal disposto di cui al citato art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 252 del 3 giugno 1998 che impone l’obbligo di “acquisire le informazioni” qualora l’importo della gara di appalto superi la soglia comunitaria, non essendovi un divieto di richiedere informazioni al di sotto della soglia indicata (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4533 del 19 settembre 2008). Anche questa Sezione ha, di recente, affermato che la circostanza che la citata disposizione (ora contenuta nell’art. 91 del d.lgs. n. 159 del 6 settembre 2011, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) sancisca l’obbligo di acquisire l’informazione esclusivamente nel caso di appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria non vale a fondare la tesi contraria relativamente agli appalti sotto soglia, per i quali, pertanto, l’informazione deve ritenersi comunque valida (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2040 del 23 aprile 2014). Ciò è del resto coerente con la finalità dell’informativa interdittiva che è volta ad evitare che l’Amministrazione possa avere rapporti contrattuali o anche erogare risorse pubbliche ad imprese per le quali è stato accertato il rischio di condizionamento da parte della criminalità organizzata”.

 

2.3.2 – Segue: Consiglio di Stato, Sezione Terza, 28 aprile 2016 n.3300

In relazione all’argomento di cui trattasi assume rilievo anche un’altra sentenza del Consiglio di Stato la quale, nel condividere l’orientamento manifestato con la pronuncia innanzi citata, pur non prendendo espressa posizione circa l’oggetto della presente trattazione offre notevoli spunti di riflessione al riguardo.

Si fa riferimento alla sentenza n. 3300 del 28 aprile 2016, con la quale il Supremo Consesso ha accolto il ricorso in appello proposto avverso la sentenza del TAR di Reggio Calabria n.291/2013, concernente, anche questa, un’informazione interdittiva antimafia.

Il TAR, con la sentenza di primo grado, ha accolto il ricorso proposto dall’impresa avverso il provvedimento inibitorio emesso nel 2012, affermando che:

“(a) – è illegittima l’informativa antimafia rilasciata per rapporti aventi valore inferiore alla soglia di cui all’art. 1, comma 2, lett. e) del d.P.R. 252/1998 (oggi, art. 83 del d.lgs. 159/2011), per il quale le pubbliche amministrazioni e le stazioni uniche appaltanti non possono comunque richiedere al Prefetto informative antimafia per provvedimenti di importo inferiore a 300 milioni di lire (oggi, euro 150.000);

(b) – infatti, la soglia di valore non è disponibile, perché costituisce un punto di equilibrio del bilanciamento di opposti interessi (concernenti la prevenzione nei confronti dei condizionamenti da parte della criminalità organizzata, la libertà di impresa e l’efficiente effettuazione da parte della PA di spese, ordinativi e contratti di uso comune e di minore complessità);

(c) – l’estensione degli accertamenti preventivi di tipo interdittivo, al di sotto della soglia di valore individuata dalla legge, comporta per l’Amministrazione pubblica chiamata a contrastare la criminalità organizzata un dispendio di energie e di risorse umane che incide negativamente sulla qualità ed efficacia della stessa azione preventiva, impedendo, da un lato, di concentrare la prevenzione sulle fattispecie contrattuali di maggiore rilevanza economica, e concorrendo, dall’altro, ad abbassare gli standard qualitativi delle stesse informazioni rese dalle Forze dell’Ordine, coinvolte in un controllo generalizzato di tipo amministrativo, che diventa sostanzialmente inutile, perché qualitativamente poco accurato, in dipendenza del numero degli affari da trattare”.

Il Consiglio di Stato, diversamente dal giudice di prime cure, ha ritenuto l’appello fondato.

Ciò che rileva ai fini della presente trattazione, in particolare, è la statuizione secondo la quale, in materia di appalti, “la scelta di un’amministrazione pubblica di avvalersi della possibilità di richiedere l’informativa non è preclusa dall’art. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998 (che impone l’obbligo di acquisire le informazioni, qualora l’importo della gara o della concessione superi la soglia normativamente posta), non essendovi un divieto di richiedere informazioni al di sotto della soglia indicata (in tal senso, cfr. Cons. Stato, V, n. 4533/2008; VI, n. 240/2008; III, n. 2798/2013– si tratta delle sentenze invocate dalle parti, pronunciate in giudizi in cui l’interdittiva incideva su appalti, per i quali, a differenza di quanto avviene per le altre ipotesi, esiste una “zona grigia” tra la soglia minima che comporta la “doverosità” dell’acquisizione, e quella massima generale di “esclusione” della richiesta)”.

Il Consiglio di Stato, di conseguenza, ribadisce il concetto già in precedenza espresso, a guisa del quale, “sempre in relazione ad un appalto al di sotto di detta soglia”, “a prescindere dalla legittimità della richiesta d’informazione antimafia, il contenuto interdittivo della stessa valga a precludere la nascita di un rapporto contrattuale tra la stazione appaltante ed i soggetti coinvolti dall’informativa o, ancora, a paralizzare le sorti di un rapporto già sorto tra le parti (cfr. III, n. 2040/2014)”.

Il Collegio, nella pronuncia de qua, richiama il filone giurisprudenziale sul punto, ribadendo che “a prescindere dalla questione sull’ammontare del contributo, la richiesta di informazioni fatta alla Prefettura, anche se non obbligatoria, non (può) ritenersi certo illegittima” e, ribadendo quanto affermato nella pronuncia n. 3386/2014, ha ritenuto che ciò è “coerente con la finalità dell’informativa interdittiva, in quanto volta ad evitare che l’Amministrazione possa avere rapporti contrattuali o anche erogare risorse pubbliche ad imprese, per le quali è stato accertato il rischio di condizionamento da parte della criminalità organizzata”.

Nella stessa sentenza del 2016 il Supremo Consesso prosegue dunque sancendo che “deve ritenersi che le disposizioni sulle «soglie di valore»:

– nel costituire, in un caso (artt. 10, comma 1, del d.P.R. 252/1998, e 91, comma 1, del d.lgs. 159/2011), la fonte di un obbligo assoluto dell’amministrazione procedente, e nell’altro (artt. 1, comma 2, del d.P.R. 252/1998 e 83, comma 3, del d.lgs. 159/2011), quella di un’esenzione da tale obbligo, si propongono di conformare, anche ai fini delle conseguenti responsabilità, il buon andamento delle attività delle pubbliche amministrazioni procedenti;

– non possono essere interpretate nel senso che vi sarebbe una diminuzione dell’attenzione del legislatore nei confronti del pericolo di condizionamento delle imprese da parte di associazioni criminali, ostativo all’instaurazione di un rapporto con l’amministrazione.

Tale interpretazione, infatti, urterebbe contro la ratio della complessiva disciplina in materia (che mira a delimitare i rapporti economici con le Amministrazioni, solo quando l’impresa meriti la «fiducia» delle Istituzioni) e sovvertirebbe il principio che impone di assicurare, in sede interpretativa, effettività e concretezza alla tutela del bene protetto, soprattutto laddove, come avviene per le informazioni antimafia, questo assuma un ruolo assolutamente primario.

Per i rapporti «sotto soglia», possono dunque esservi le acquisizioni delle informazioni antimafia, sia quando si dia attuazione ad un «protocollo di legalità», sia quando questo non sia stato concluso. Infatti, potendosi sempre accertare se l’impresa meriti la «fiducia delle Istituzioni», si può attivare il procedimento volto alla verifica della sussistenza o meno del tentativo di infiltrazione della criminalità organizzata, con il conseguente esercizio dei poteri della Prefettura”.

Secondo il giudice di secondo grado, dunque, “il principio generale da applicare – ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.P.R. 252/1998 e, oggi, dell’art. 94, comma 1, del d.lgs. 159/2011 – è quello per cui, quando emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni «non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni». Tale conclusione è l’unica coerente con le complessive finalità della disciplina delle informazioni antimafia, che è volta ad evitare radicalmente l’erogazione di risorse pubbliche a soggetti esposti ad infiltrazioni di tipo mafioso, e che pertanto mal tollera che ciò possa avvenire solo entro determinati limiti quantitativi”.

In conclusione, nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato ritiene che “anche al di là dei casi in cui vi è l’obbligo per l’amministrazione procedente di richiedere le informazioni antimafia, essa è legittimata a richiederle, con i conseguenti poteri-doveri della Prefettura”.

Come si è avuto modo di osservare, le pronunce innanzi richiamate non offrono certamente una chiara e consolidata presa di posizione della giurisprudenza amministrativa in merito alla questione relativa alla possibilità di emettere interdittive antimafia “d’ufficio”.

Nondimeno, non può farsi a meno di osservare come tra le righe delle sentenze su riportate sia evincibile una tendenza degli interpreti a valorizzare una portata estensiva della legislazione antimafia, tale da superare un’applicazione meramente formalistica e basata su di un rigido rispetto di presupposti oggettivi, quali sono a titolo esemplificativo le soglie di erogazione rilevanti affinché sia da considerare legittima l’emissione di un provvedimento interdittivo.

In tale prospettiva, dunque, si potrebbe anche ritenere che le medesime esigenze di ordine pubblico sottese all’apertura giurisprudenziale innanzi considerata, si potrebbero prestare a fornire una soluzione affermativa al quesito relativo all’emissione di interdittive antimafia pur in assenza di richiesta di certificazione inserita in Banca Dati.

 

 

Considerazioni conclusive

 

Nel corso della presente trattazione è stato osservato come la questione relativa alla legittimità dell’emissione “d’ufficio” di un’informazione interdittiva antimafia, ossia in assenza di una previa richiesta in B.D.N.A. da parte di una Pubblica Amministrazione, anche qualora il Prefetto disponga di elementi informativi sufficienti a far ritenere plausibili tentativi di infiltrazioni mafiose all’interno di un’impresa, sconti problematiche interpretative e applicative di non poco spessore.

Come si è avuto modo di evidenziare, infatti, nel silenzio del dato normativo e in assenza di un orientamento giurisprudenziale chiaro e consolidato sul punto, l’interprete è chiamato ad assumere un ruolo vicario che possa al contempo coniugare i principi superiori che governano l’azione pubblicistica con le esigenze di prevenzione dal rischio di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sano.

Si è osservato, in primo luogo, che una risposta in termini negativi all’argomento, seppur in astratto possa essere ritenuta rispettosa del principio di legalità e tassatività che permea l’intero ordinamento giuridico, sconterebbe con evidenza un vulnus della ratio sottesa al sistema antimafia, e cioè l’esigenza di prevenire ad ampio raggio i tentativi di infiltrazioni mafiose nelle imprese che possono intrattenere rapporti economici con la Pubblica Amministrazione.

La stessa finalità perseguita dal legislatore rischierebbe dunque di essere parzialmente svuotata di contenuto, laddove l’intervento preventivo dello Stato fosse subordinato alla mera presenza di un dato formale, quale appunto una richiesta di certificazione antimafia in B.D.N.A., ovvero il dato oggettivo del superamento di una soglia di rilevanza comunitaria, consentendo così ad un’impresa “inquinata” di poter operare indisturbatamente nel mercato e di intrattenere rapporti negoziali con soggetti pubblici, e ciò anche qualora il valore economico del rapporto fosse di poco inferiore alle predette soglie rilevanti ai sensi della normativa vigente, ovvero qualora il Prefetto disponesse comunque di elementi informativi atti ad evitare che per il futuro un’impresa non censita possa intrattenere rapporti economici con la P.A.

Sulla scorta di quanto innanzi considerato e di un’interpretazione estensiva e sistematica delle norme in materia, nonché di alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa concernenti problematiche affini a quella in discorso, si è quindi giunti ad una prima soluzione possibilista, che fa leva principalmente sugli articoli 89 bis e 93 del D.Lgs n. 159/2011.

Le citate norme consentono al Prefetto, ricorrendone i presupposti, l’emissione di un provvedimento interdittivo “diverso” da quello originariamente richiesto (un’informazione interdittiva antimafia in luogo della comunicazione, nel caso previsto dall’art. 89-bis), mentre nell’ipotesi presa in considerazione dal successivo art. 93 si è evidenziato come manchi sin dal principio un atto di impulso da parte di una stazione appaltante e ciononostante l’intervento preventivo è ritenuto dalla legge giustificato dagli interessi giuridici che la normativa in parola mira a tutelare.

Considerati tali principi, questa prima interpretazione conduce pertanto a corroborare l’assunto secondo cui un’analisi sistematica delle norme previste in materia antimafia legittimerebbe l’emissione di un provvedimento interdittivo, pur in assenza di un formale atto di impulso del procedimento amministrativo, rappresentato dalla richiesta di certificazione antimafia in B.D.N.A.

Ne deriverebbe che le norme previste dal Codice delle leggi Antimafia, e in particolare l’art. 83, secondo tale lettura, prevederebbero sì i casi in cui la richiesta di certificazione antimafia è obbligatoria, e tuttavia ciò non escluderebbe che la stessa documentazione possa essere acquisita in via facoltativa.

Malgrado gli spiragli interpretativi innanzi delineati, si è tuttavia osservato come ad una soluzione di tal fatta osti in maniera decisa il principio di legalità, criterio guida dell’azione amministrativa, a guisa del quale ogniqualvolta vi sia l’esternazione di un potere amministrativo occorre che sussista una specifica norma che fondi quello stesso potere.

Tale principio, sotteso all’art. 97 della Costituzione e all’art. 1 della l. 241/90, fornisce un ineludibile presidio di garanzia del cittadino nei confronti del potere pubblicistico, in particolare in un settore – quello delle misure di prevenzione antimafia – connotato da una forte anticipazione della soglia di intervento inibitorio statale, esercitato all’esito di un procedimento connotato dalla logica probatoria del “più probabile che non”, cui corrispondono effetti particolarmente incisivi sulla sfera giuridica economico-patrimoniale dei destinatari, ancorché questi siano giustificabili sulla scorta di esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Si è altresì evidenziato come di recente la giurisprudenza amministrativa abbia preso una decisa posizione in termini negativi in merito alla questione relativa alla possibilità di sottoporre ad accertamenti antimafia anche i liberi professionisti non organizzati in forma di impresa, ponendo l’accento sull’importanza che il principio di legalità e tassatività dell’azione amministrativa riveste nell’ordinamento giuridico, il quale impone che nell’esegesi di una disposizione normativa il dato testuale non venga mai superato in senso limitativo delle libertà dei soggetti interessati.

Gli assunti contenuti nelle pronunce giurisprudenziali richiamate nel corso della trattazione, dunque, non possono non rilevare anche nella tematica oggetto della presente disamina.

Di conseguenza, in un’ottica di coerenza giuridica, così come il principio di legalità più volte richiamato preclude che un’interdittiva antimafia possa essere emessa nei confronti di destinatari non individuati tassativamente dalla norma giuridica, analogamente si dovrebbe ritenere che lo stesso principio impedisca che il medesimo provvedimento ostativo possa essere adottato in assenza dei presupposti procedimentali legalmente individuati.

 

[1] Sull’argomento: A.M. BARONI, E. DI AGOSTA, A. PETRONELLI, G. PINTUS, Gli strumenti di contrasto alle infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti pubblici, in M.T. Sempreviva, Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, Roma, 2023, pp. 197 e ss.

[2] V. Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia, I semestre 2020, consultabile in: https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/semestrali/sem/2020/1sem2020.pdf.

[3] Così Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1743/2016.

[4] Cfr. Cons. St., Sez. III, n.820/2020; n.6105/2019.

[5] Cfr. Cons. St., Ad. Plen., n.3/2018.

[6] Cons. St., Sez. III n. 1743/2016. Lo stesso Supremo Organo di Giustizia Amministrativa rileva sul punto come il ragionamento indiziario prefettizio possa fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché questo non sia contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario.

[7] Cfr., per approfondire l’argomento, V. N. D’Ascola, F. Mollace (a cura di), Legislazione antimafia e sistema del doppio binario, Analisi della normativa penale, processuale e penitenziaria, G. Martino Editore, Reggio Calabria, 2009.

 

[8] Sull’argomento si veda M. FRATINI, Manuale sistematico di Diritto Civile, ed. 2021-2021, Accademia del Diritto, Roma, 39 e ss.

[9] La giurisprudenza costituzionale, peraltro, ha già precisato come l’art. 89-bis del D.Lgs. n. 159/2011 – legittimo in punto di osservanza dei principi e criteri direttivi determinati dal Parlamento ex art. 76 Cost. mediante gli artt. 1 e 2 della L. n. 136/2010 – risulti anche conforme al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.

 

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