Tratto da: Ildirittoamministrativo.it 

Autore: Vincenzo Detomaso

Abstract

Col presente contributo, l’autore, ricostruisce i tratti salienti dell’autotutela amministrativa, quale procedimento amministrativo di secondo grado, soffermandosi in particolare sull’autotutela decisoria e indagandone il rapporto con il legittimo affidamento, inteso quale limite alla stessa. L’opera consta di riferimenti sia agli orientamenti della migliore dottrina che alle pronunce della giurisprudenza, tanto nazionale che comunitaria; pur non avendo alcuna pretesa di esaustività, l’analisi è stata condotta da più angoli visuale investendo tutti quegli aspetti che ancor oggi alimentano il dibattito scientifico su un potere che, a umile parere dell’autore, può essere qualificato come potere di tutela giustiziale. Emerge in superficie la perenne tensione in cui vive l’Amministrazione allorquando esercita l’autotutela amministrativa, in particolare decisoria, dovendo soddisfare l’interesse pubblico che ne è posto a presidio senza, però, ledere l’affidamento del cittadino; ha luogo una vera e propria prova di resistenza al cui esito non sempre il legittimo affidamento ne esce trionfante. Dalla prospettiva del legittimo affidamento, ci si sofferma sull’incidenza che lo stesso produce in termini di giurisdizione e di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento; in rassegna sono passati alcuni casi concreti e le questioni dogmatiche ancora aperte. Chiudono il lavoro, le conclusioni in cui, attesa la natura giuridica del potere di autotutela, si prospetta la possibilità di riformare la disciplina dell’istituto per un verso escludendo dalla stessa la revoca perché più espressione della inesauribilità del potere amministrativo che non quale potere di autotutela contenziosa, per altro verso auspicando il ricorso all’intelligenza artificiale pur sempre facendo salva la cd. “riserva di umanità”.

INDICE

 

Introduzione

Cap. I – Il potere di autotutela della P.A.

  1. Origine
  2. Natura giuridica
  3. Autotutela e legalità
  4. Le macro-categorie dell’autotutela
  5. L’interesse perseguito

Cap. II – La dimensione europea del potere di autotutela della P.A.

  1. Il riconoscimento del potere di autotutela nell’ordinamento UE
  2. La legalità archetipo per l’esercizio dell’autotutela
  3. La funzionalizzazione del potere interno di autotutela all’interpretazione conforme al diritto U.E.
  4. L’autotutela nel Codice ReNEUAL e la comparazione con la

disciplina interna

  1. L’annullamento di atto contrario al diritto UE

Cap. III – Il procedimento per l’esercizio dell’autotutela

  1. Doverosità dell’autotutela decisoria
  2. Discrezionalità dell’autotutela decisoria
  3. Modalità di impulso del procedimento
  4. Il fattore tempo nell’esercizio dell’autotutela
  5. L’obbligo di motivazione dei provvedimenti di secondo grado espressione dell’autotutela

Cap. IV – Il legittimo affidamento quale limite all’autotutela della P.A.

  1. Il principio del legittimo affidamento nell’ordinamento giuridico

nazionale e sovranazionale

  1. Natura giuridica del legittimo affidamento: diritto soggettivo,

interesse legittimo o soluzione della terza via?

  1. Il legittimo affidamento quale limite all’esercizio dell’autotutela
  2. Interesse pubblico vs. affidamento legittimo: quid all’esito della cd. «prova di resistenza»?

Cap. V – I rimedi esperibili nei confronti della P.A., a tutela del legittimo affidamento, avverso l’autotutela

  1. Natura della responsabilità della P.A. per lesione del legittimo

affidamento

  1. Competenza giurisdizionale in materia di legittimo affidamento
  2. Diritto all’indennizzo

Cap. VI – Casi concreti e questioni aperte

  1. Autotutela e silenzio assenso della P.A.
  2. L’autotutela rispetto alla S.C.I.A.
  3. L’autotutela rispetto alle determinazioni decisorie della conferenza di servizi
  4. L’autotutela della Stazione Appaltante in conseguenza del parere di precontenzioso Anac: possibile configurabilità quale strumento di ADR in materia di contratti pubblici?
  5. Autotutela e intelligenza artificiale

Conclusioni

Bibliografia

 

 

INTRODUZIONE

 

Tra i temi che appassionano gli studiosi del Diritto Amministrativo, che ci si appresta a trattare col presente elaborato senza pretesa di esaustività, di sicuro interesse è l’evoluzione dell’autotutela amministrativa; tanto più, laddove oggetto di analisi non sia sic et simpliciter l’autotutela ma il rapporto esistente tra questa e il legittimo affidamento, inteso come limite all’esercizio della prima.

Storicamente l’autotutela impegna la dottrina più antica e la giurisprudenza, non fosse altro perché espressione per lungo tempo[1] di una strenua concezione unilaterale dell’agere amministrativo prevalente sulla posizione del privato cittadino, oltre che dell’inesauribilità del potere amministrativo; questa teorizzazione dell’istituto de quo si afferma in particolare tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento[2].

Le costanti innovazioni legislative che a partire dal 2005 stanno interessando l’istituto de quo, unitamente alle pronunce della giurisprudenza che concorrono a definire i confini entro cui la P.A. può avvalersi dell’esercizio di tale potere, cui si aggiunge quella presenza ormai incombente ed impalpabile del legittimo affidamento[3], impongono una nuova riflessione circa i caratteri e l’ambito di operatività dell’autotutela amministrativa.

In specie, obiettivo del presente lavoro è indagare fino a che punto l’esercizio del potere di autotutela possa sacrificare la posizione giuridica soggettiva del privato, in nome del soddisfacimento ed affermazione dell’interesse pubblico, e quando, invece, questo rapporto di forza si risolva ad appannaggio del privato in nome omaggio al legittimo affidamento, così che si assiste ad un maggiore contemperamento degli interessi pubblico e privato.

Una premessa è d’obbligo: non v’è chi non veda come ancor oggi nel nostro ordinamento giuridico manca un referente normativo recante l’accezione della locuzione «autotutela amministrativa»; invero, antecedentemente all’introduzione del capo IV-bis della L. n. 241/1990, il problema principale circa l’esercizio del potere di riesame dei provvedimenti amministrativi di primo grado era costituito dalla mancanza di un fondamento normativo di tale potere.

All’uopo, dunque, l’indagine è stata avviata operando una ricostruzione storica dell’istituto in argomento prendendo le mosse dalle oscillazioni che si sono registrate tra le varie posizioni dottrinarie circa la nozione di autotutela amministrativa; sul punto, si è fatto espresso richiamo alle teorizzazioni di massimi esponenti tra gli studiosi del Diritto Amministrativo, quali M.S. Giannini, F. Cammeo, F. Benvenuti.

Segue, la trattazione della natura giuridica dell’istituto in commento passando in rassegna il rapporto con il principio di legalità, per cui si ritiene di poter non a torto affermare che l’autotutela si sostanzia in un potere che non è attribuito alla Pubblica Amministrazione in maniera generica ma costituisce un’eccezione; a conforto di tale assunto soccorrono le modifiche apportate alla legge sul procedimento amministrativo dalla cd. Riforma Madia.

Dopo aver esaminato le macro-categorie dell’istituto de quo, il capitolo I è chiuso dalla disamina dell’interesse che presiede all’esercizio dell’autotutela amministrativa, ossia, l’interesse pubblico.

Il capitolo II ha ad oggetto la dimensione europea dell’istituto, con particolare attenzione a come si atteggia nell’ordinamento U.E. e all’esercizio del potere di riesame rispetto ad atti contrari al diritto eurounitario; sotto il primo profilo, l’indagine ha investito il riconoscimento nell’ordinamento U.E. del potere di autotutela, la funzione cui essa assolve ai fini dell’interpretazione conforme al diritto U.E. e la disciplina di cui al codice ReNEUAL comparata con la legislazione interna. Rispetto al codice ReNEUAL l’attenzione è concentrata sul Libro III, recante disposizioni in materia di procedimento amministrativo, e in specie verso gli artt. 35 e 36 che disciplinano il procedimento mediante cui può avere luogo il riesame dei provvedimenti di primo grado; procedimento che ictu oculi sembrerebbe non differire granché dall’omologo di cui alla Legge n. 241/1990. Diversamente, con riferimento all’esercizio dell’autotutela rispetto ad atti interni contrari al diritto U.E., si è rilevato come la prevalenza del diritto unionale rispetto agli ordinamenti nazionali non sia una regola assoluta tanto da escludere l’esercizio del potere di riesame; anzi, la stessa Corte di Giustizia con proprie pronunce ha temperato la supremazia del diritto eurounitario riconoscendo addirittura un vero e proprio obbligo per la P.A. di avvalersi dell’esercizio del potere de quo al fine precipuo di revocare propri provvedimenti che risultino in contrasto con l’ordinamento U.E.. Id est ha prevalso il principio di legalità comunitaria rispetto alle esigenze di stabilità degli effetti del provvedimento[4].

Come si avrà modo di vedere, la Corte di Giustizia si è spinta sino al punto tale da affermare, in presenza di atti contrari al diritto U.E., la cedevolezza del principio del legittimo affidamento, elaborato proprio da quella stessa Corte, rispetto all’esercizio del potere di autotutela amministrativa in omaggio al perseguimento dell’interesse comunitario.

Il contributo prosegue con il capitolo III in cui ci si sofferma sui punti focali che caratterizzano la procedimentalizzazione dell’autotutela.

In tal senso, l’analisi prende le mosse dalle oscillazioni tra doverosità e discrezionalità dell’autotutela decisoria, atteso che il dibattito che ne è sorto è oggi ancor più attuale in ragione dei diversi interventi legislativi che si sono succeduti negli ultimi anni.

Rimandando ai due paragrafi dedicati specificamente, in questa sede può anticiparsi come sin dagli albori il tema della doverosità / discrezionalità dell’autotutela ha storicamente diviso la dottrina; a ciò si aggiunga che l’esistenza di posizioni diametralmente opposte è stata favorita dalla circostanza per cui fino al 2005 l’istituto in commento non aveva base legislativa, essendo, piuttosto, figlio dell’elaborazione giurisprudenziale.

Nei primi anni trenta del novecento, alla tesi della doverosità dell’autotutela decisoria sostenuta da Vincenzo Romanelli[5], rimasta priva di seguito, faceva da contraltare la tesi sostenuta da Santi Romano, Giuseppe Codacci Pisanelli[6] circa la discrezionalità dell’autotutela; qualche anno più tardi, tale posizione fu sostenuta da giuristi del calibro di Eugenio Cannada Bartoli e Feliciano Benvenuti[7].

Anzi, Eugenio Cannada Bartoli qualifica l’autotutela come una «facoltà» dell’amministrazione in quanto la nozione di annullabilità o invalidità dell’atto amministrativo per sua natura esclude la necessità giuridica dell’annullamento dell’atto invalido; essendo, dunque, l’ordinamento giuridico informato al principio della conservazione dei valori giuridici (sanatoria per il decorso del tempo), l’atto amministrativo invalido può, ma non deve, essere annullato[8].

Aderendo alla tesi di autorevole dottrina[9], la qualificazione dell’autotutela in termini di doverosità si risolverebbe in un vero e proprio obbligo per l’Amministrazione di provvedere a fronte di una istanza del privato a carattere demolitorio, con la paradossale conseguenza che in caso di silenzio della P.A., questo assumerebbe la forma dell’inadempimento opponibile ai sensi dell’art. 117 c.p.a.; id est si assisterebbe ad un formale svuotamento di significato del termine di decadenza legale entro cui impugnare l’atto sostanzialmente invalido, con nocumento per il principio di certezza del diritto.

L’elaborato prosegue con l’esame delle modalità di impulso del procedimento di riesame, della rilevanza che assume il fattore tempo in rapporto alle esigenze di stabilità degli effetti giuridici e di certezza del diritto; in specie, relativamente al fattore tempo, non può sottacersi come l’evoluzione dell’ordinamento pubblicistico ha comportato che il decorso del tempo condizioni in modo rilevante le modalità di esercizio del potere di autotutela[10].

Conclude il capitolo III, l’esame dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti di secondo grado e come questo obbligo possa convivere con quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo non richiederebbe una espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, atteso che il solo contrasto tra il provvedimento medesimo e la normativa di riferimento sarebbe di per sé sufficiente a rivelare in re ipsa la preminenza dell’interesse generale sull’interesse del privato destinatario dello stesso. Perplessità sorgono laddove, ex art. 21-nonies L. n. 241/1990, il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio dall’organo che lo ha emanato, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.

Nel capitolo IV si dà luogo alla disamina del legittimo affidamento inteso quale limite all’esercizio dell’autotutela.

È noto come il legittimo affidamento sia un principio elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E. che ne ha riconosciuto la baricentricità all’interno del diritto U.E. ed infatti è entrato formalmente nella disciplina del procedimento amministrativo europeo per mezzo degli artt. 35 e 36 del Codice ReNEUAL, secondo cui alla P.A. è concesso ritirare, previa valutazione del legittimo affidamento sia dei destinatari che dei terzi, le proprie decisioni siano esse legittime o illegittime, comprese anche quelle favorevoli o sfavorevoli, e che in virtù del decorso del tempo abbiano prodotto effetti giuridici stabili.

In tale veste, il legittimo affidamento si mostra incline a sottrarre il privato dalla longa manus demolitoria della P.A., tenendo in debita considerazione l’interesse alla conservazione di un vantaggio conseguito in buona fede dal privato grazie ad un provvedimento della Pubblica Amministrazione; tanto più laddove il decorso di un significativo lasso di tempo abbia contribuito a consolidare detta utilità.

Chiude il capitolo IV la disamina degli effetti prodotti sulla posizione giuridica del privato all’esito della prevalenza dell’interesse pubblico sul legittimo affidamento o viceversa.

Il capitolo V ha ad oggetto la natura giuridica della responsabilità della Pubblica Amministrazione nell’esercizio dell’attività provvedimentale, con particolare attenzione per la cd. «responsabilità da contatto sociale qualificato».

L’analisi muove dalla nuova concezione del rapporto tra privato e P.A. per cui nel tempo la seconda, storicamente abituata ad occupare una posizione di supremazia, ha assunto la veste di organo al servizio del privato cittadino, in omaggio al principio sancito dall’art. 97 Cost., ossia, del buon andamento; in tale contesto, il contatto del cittadino con l’Amministrazione Pubblica è caratterizzato da uno specifico dovere di diligenza comportamentale nell’ambito di un rapporto specifico e differenziato[11].

L’indagine prosegue esaminando la competenza giurisdizionale e gli strumenti di tutela del legittimo affidamento.

Chiude il contributo, il capitolo VI dedicato alla trattazione di casi concreti e alcune questioni ancora aperte, come l’esercizio dell’autotutela rispetto al silenzio provvedimentale o agli istituti di liberalizzazione amministrativa (SCIA); prosegue, provando a dare risposta ad un interrogativo, ossia, se sia possibile annoverare, in materia di contratti pubblici, l’autotutela amministrativa esercitata in conseguenza di un parere di precontenzioso Anac, tra gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. In coda, l’ultimo paragrafo è dedicato all’introduzione dell’intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo e il rapporto tra la decisione automatizzata e l’esercizio del potere di riesame.

 

CAP. I – IL POTERE DI AUTOTUTELA DELLA P.A.

 

  1. Origine

L’autotutela è senza dubbio uno dei fenomeni più discussi del diritto amministrativo, non fosse altro perché solo recentemente ha avuto espresso riconoscimento nel diritto positivo; eppure, trattasi di istituto che impegna illo tempore dottrina e giurisprudenza circa l’inquadramento dello stesso.

Prima di operare la ricostruzione dell’origine storica dell’istituto in commento, appare doveroso soffermarsi sull’accezione dello stesso.

Da sempre, l’autotutela è definita come quella facoltà attribuita alla Pubblica Amministrazione di «farsi giustizia da sè», potendo revocare, annullare o abrogare[12] [13] propri provvedimenti amministrativi di primo grado, al fine di risolvere eventuali controversie sorte con i privati destinatari del provvedimento medesimo, senza la necessità dell’intervento del Giudice[14].

Alcuni autori (M.S. Giannini) hanno ritenuto che l’autotutela richiamasse il potere di esecuzione diretta dei provvedimenti amministrativi; in altre parole, trattasi di quella che passa sotto il nome di esecutorietà dei provvedimenti amministrativi.

È stata di Cammeo la qualificazione dell’autotutela come potere di riesame per la revisione del provvedimento; invece, il Sandulli ha ritenuto di includere nel concetto di autotutela la decisione dei ricorsi amministrativi, fino a ricomprendere i controlli dei provvedimenti e il potere sanzionatorio.

La ricostruzione storica è la naturale premessa funzionale a chiarire il modus operandi del legislatore proclive, sebbene con un ritardo temporale considerevole, a disciplinare e limitare, come si avrà modo di spiegare nei capitoli e paragrafi che seguono, anche attraverso il «legittimo affidamento», l’esercizio dell’autotutela amministrativa.

Il processo evolutivo dell’istituto in parola è scandito in diverse fasi che, senza alcuna pretesa di esaustività, si proverà a ricomporre.

La prima di queste fasi abbraccia tutto l’arco temporale antecedente alla promulgazione della Legge n. 241/1990: questa fase storica si caratterizza per il carattere spiccatamente autoritario che corrobora l’autotutela amministrativa. Invero, il potere di autotutela e nella specie il potere di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, si è affermato essere istituto che risale alla fondazione dello Stato italiano, e che, fin da allora, nonostante l’originaria mancanza di una norma di legge che lo disciplinasse, è stato costantemente considerato come manifestazione essenziale della legalità e dell’unitarietà di direzione dell’ordinamento amministrativo dello Stato, e riconosciuto altresì applicabile a tutti gli atti amministrativi, da qualsiasi autorità statale o autarchica promanassero. Conseguentemente, è stato affermato che questo speciale istituto, preordinato alla tutela della legalità e dell’interesse generale, non soltanto non contrasta con i principi costituzionali relativi all’organizzazione amministrativa dello Stato e delle autonomie locali, ma si inserisce in piena armonia nel sistema, concepito dall’art. 5 Cost., nel quale il decentramento organico e istituzionale è ordinato in modo da non contrastare col carattere unitario dello Stato[15].

In questa fase, mancando una espressa disciplina legislativa, l’esercizio dell’autotutela resta ancorato al principio di legalità in quanto si ritiene che tale istituto sia in re ipsa nel potere di cui l’Amministrazione Pubblica è attributiva ed in ragione del quale adotta il provvedimento amministrativo di primo grado[16].

L’equivalenza era la seguente: se la P.A. in ragione di espressa previsione legale può adottare un provvedimento amministrativo, è legittimata anche a rivedere la propria decisione adottando un provvedimento di ritiro.

La seconda fase del percorso evolutivo dell’autotutela amministrativa ha luogo con l’approvazione nel 1990 della Legge n. 241; da questo momento, si assiste ad una crescente attenzione per l’interesse del privato nell’ambito del procedimento amministrativo. Ciò nonostante, però, il Legislatore non coglie l’occasione con l’approvazione della legge sul procedimento amministrativo per positivizzare l’istituto in commento.

Così che un ruolo primordiale è assunto dalla giurisprudenza che già da diversi anni prima[17] e durante la vigenza[18] della Legge n. 241/1990, sino al 2005, pone l’attenzione sul legittimo affidamento del cittadino nella stabilità dell’ordinamento giuridico con funzione, dunque, limitante rispetto all’autotutela della P.A.; a questo proposito, si afferma sia che la base costituzionale del legittimo affidamento è data dal principio di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ex art. 3 Cost., sia che costituisce un elemento essenziale dello Stato di diritto limitandone l’attività legislativa e amministrativa, essendo immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico. 

A questo punto verrebbe da chiedersi perché articolare in due fasi storiche il processo evolutivo dell’autotutela se è vero come è vero che la positivizzazione di tale istituto avviene solo nell’anno 2005? Tale divisione ha ragione di esistere in quanto con l’introduzione della Legge n. 241/1990 prende avvio la stagione in cui nell’ambito dell’azione amministrativa vengono in considerazione gli interessi privati e, per questa via, la precedente posizione di superiorità in cui era collocata la P.A. viene man mano temperata sino ad essere collocata, almeno in potenza, su un piano di parità rispetto al privato cittadino.

Una terza fase dell’iter evolutivo dell’istituto de quo si ha con la Legge 11 febbraio 2005, n. 15, che, modificando ed integrando la Legge n. 241/1990, ha introdotto il Capo IV-bis, rubricato «Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso», la cui disciplina riposa tra gli artt. 21-bis e 21-decies; pertanto, trovano espresso riconoscimento legale rispettivamente la revoca, l’annullamento d’ufficio e la convalida.

In realtà, sebbene sia stata salutata con favore la novella di cui alla Legge n. 15/2005, sin da subito si prende atto della genericità della disciplina introdotta ex novo poiché raccoglie in sé gli orientamenti giurisprudenziali fino a quel momento consolidatisi, mancando di contenere disposizioni vincolanti circa i presupposti in presenza dei quali poteva farsi ricorso agli istituti della revoca e dell’annullamento.

Deve osservarsi come il richiamo alla «ragionevolezza del termine» non stava a significare che il decorso di un lasso temporale particolarmente ampio comportasse l’estinzione del potere di riesame da parte dell’Amministrazione, quanto, piuttosto, che tale circostanza imponesse una valutazione via via più accorta fra l’interesse pubblico al ritiro dell’atto illegittimo e il complesso delle altre circostanze e interessi rilevanti; tra questi ultimi, in primis quello del destinatario del provvedimento illegittimo, in ipotesi a lui favorevole, il quale maturava, per effetto del decorso del tempo, un affidamento legittimo alla permanenza dell’assetto di interessi delineato dal provvedimento medesimo[19].

Deve prendersi atto dell’inidoneità della Legge n. 15/2005 a soddisfare in maniera integrale le esigenze di tutela dei cittadini, ragion per cui il Legislatore compie due interventi legislativi degni di nota: dapprima con il D.L. n. 133/2014, convertito con la L. n. 164/2014, e poi con la Legge n. 124/2015.

Si apre così l’ultima fase del processo evolutivo che interessa l’autotutela.

Con il D.L. n. 133/2014 è stata esclusa la possibilità di annullare i provvedimenti amministrativi affetti da vizi di legittimità formali, facendo salva la responsabilità per adozione di un provvedimento illegittimo e il mancato annullamento. Con la Legge n. 124/2015[20], invece, si assiste all’introduzione di tutta una serie di presupposti vincolanti per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio; in particolare, viene introdotto un termine ordinario, ab origine di diciotto mesi ed oggi di dodici mesi, entro cui annullare i provvedimenti amministrativi di primo grado affetti da vizi di legittimità e si prevede la possibilità di annullare anche oltre il termine di dodici mesi i provvedimenti amministrativi ottenuti dall’interessato mediante false dichiarazioni o rappresentazioni.

Per comprendere appieno la portata innovatrice della Legge n. 124/2015 circa la nuova considerazione del rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadini, appare utile il richiamo a due Pareri pronunciati dalla Sezione Normativa del Consiglio di Stato.

In particolare, nel primo parere[21] si afferma expressis verbis che la riforma è rilevante perché interessa non solo l’apparato pubblico complessivamente considerato ma anche il rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione, in una visione olistica che mette al centro il destinatario del servizio pubblico e non l’apparato che fornisce il servizio medesimo; nel secondo parere[22], i Giudici di Palazzo Spada, riconoscono che il confine temporale delineato dal Legislatore del 2015 si risolve in un termine di decadenza legale non più volto a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, al fine di consolidare le situazioni soggettive dei privati. In altri termini, è possibile affermare che la legge n. 124, con la novella all’art. 21-nonies della legge n. 241, abbia introdotto una «nuova regola generale» che sottende al rapporto tra il potere pubblico e i privati: una regola di certezza dei rapporti che, rendendo immodificabile l’assetto provvedimentale che si è consolidato nel tempo, fa prevalere l’affidamento.

 

  1. Natura giuridica

Il nodo gordiano che affligge la natura giuridica dell’istituto de quo, attese le modifiche ed integrazioni che nel tempo hanno interessato la L. n. 241/1990, è rappresentato dalla ricostruzione dogmatica che oscilla tra la qualificazione ora come potere di amministrazione attiva, ora come potere di tutela giustiziale; in altre parole, si assiste ad un dualismo tra una concezione dell’autotutela amministrativa come espressione dell’inesauribilità del potere amministrativo, in omaggio all’interesse pubblico perseguito, e una concezione che la qualifica come potere paragiurisdizionale[23], in quanto sostitutivo dell’attività del Giudice.

Non solo, ci si interroga con riferimento alla concezione che qualifica l’istituto in trattazione come espressione dell’inesauribilità del potere amministrativo se si tratti di un potere strettamente connesso al potere all’esito del cui esercizio sia stato adottato il provvedimento di primo grado ovvero si tratta di potere indipendente da quello esercitato per l’adozione del provvedimento oggetto di riesame?

Tradizionalmente, l’autotutela è stata intesa come rappresentazione dell’ultrattività ed inconsumabilità del potere di primo grado; alla base di tale teoria, vi è quella concezione per cui il potere sia un’entità generale ed astratta, non scomponibile in tante situazioni giuridiche quanti sono i diversi rapporti su cui incide e per ciò stesso inesauribile.

In linea con questa ricostruzione dogmatica si collocherebbe la Legge n. 15/2005 che, modificando ed integrando la Legge n. 241/1990, ha introdotto gli artt. 21-quinquies e 21-nonies che hanno concorso a configurare rispettivamente la revoca e l’annullamento d’ufficio come strumenti deputati piuttosto alla cura dell’interesse pubblico che al rispristino della legalità violata, ossia, all’applicazione del diritto; per questa via, dunque, si è affermato che il fondamento dei provvedimenti amministrativi di secondo grado sia da rintracciare nel riesercizio del potere originario.

Il principio di legalità, secondo l’interpretazione conforme a Costituzione, implica che alcun potere amministrativo esiste, tra cui anche il potere di autotutela amministrativa, se non in forza di una legge che lo attribuisca espressamente; di talchè, l’inesauribilità del potere amministrativo si pone in antitesi con il principio di legalità poiché si fonda sul riconoscimento implicito del potere di annullare o revocare provvedimenti amministrativi. Ciò nonostante, non sono mancate posizioni in seno alla dottrina che si sono ostinate nella direzione dell’inesauribilità del potere amministrativo finanche affermando che la legge che attribuisce il potere di autotutela è la stessa legge in ragione della quale l’Amministrazione adotta il provvedimento di primo grado.

Tale orientamento, a parere di chi scrive, non può essere accolto per le ragioni di seguito indicate.

In primo luogo, occorre considerare le esigenze di semplificazione che involgono il rapporto tra privato e P.A., di cui sono diretta espressione gli istituti del «silenzio assenso», della «S.C.I.A.», degli «accordi»; gli istituti testè richiamati, hanno inciso profondamente l’agire pubblico nella misura in cui comportano l’erosione del potere della P.A. di adottare i provvedimenti di primo grado, così che l’interesse pubblico cede il passo rispetto all’interesse del privato. Il che implica che in diversi casi l’autotutela incide un rapporto il cui retroterra non risulta affatto determinato da un provvedimento unilaterale dell’Amministrazione Pubblica.

A ciò si aggiunga che il potere di autotutela non ha nulla da dividere col potere in ragione del quale è adottato il provvedimento di primo grado, in quanto finalizzato a rimuovere dal panorama giuridico proprio quest’ultimo provvedimento o quantomeno i suoi effetti; di talchè, l’interesse pubblico su cui si fonda il provvedimento di secondo grado è totalmente diverso dall’interesse pubblico perseguito con il provvedimento oggetto di annullamento o revoca[24]. Non solo, l’adozione del provvedimento di secondo grado che conduce all’annullamento, sia esso d’ufficio o su istanza di parte, ovvero alla revoca del provvedimento di primo grado, consta di una disciplina, di un assetto di presupposti di validità e limiti che sono sconosciuti al procedimento che presiede all’adozione del provvedimento di primo grado; invero, per l’annullamento d’ufficio il presupposto di validità è costituito dalla illegittimità del provvedimento di primo grado, mentre il presupposto della revoca jus poenitendi è costituito dalla sopravvenuta inopportunità del provvedimento di primo grado e la sopravvenienza dell’inopportunità richiede che l’Amministrazione non poteva prevedere, al momento dell’adozione del provvedimento amministrativo, il fatto sopravvenuto[25].

Con riferimento, invece, alla inesauribilità del potere di cui è espressione l’autotutela amministrativa possono prospettarsi alcuni rilievi critici che possono scolpire le fondamenta di tale teoria.

La Legge n. 124/2015 ha introdotto una innovativa riforma dell’autotutela decisoria, attesa la previsione di un termine breve, a pena di decadenza, entro cui può essere pronunciato l’annullamento d’ufficio, sicché è lo stesso legislatore a limitare la portata dell’assioma tra autotutela amministrativa ed inesauribilità del potere.

Nel diritto amministrativo si è fatta strada una concezione dell’autotutela non più e non solo come esecuzione coattiva del diritto, ma più estesa fino a ricomprendere la tutela della legalità.

A ben vedere, nell’ambito dell’autotutela decisoria, il carattere del ripristino della legalità emerge in tutta la sua emblematicità con riferimento all’annullamento d’ufficio.

Attraverso l’annullamento d’ufficio la Pubblica Amministrazione, entro segmenti temporali ben definiti, pronuncia essa stessa la declaratoria di invalidità del provvedimento amministrativo, provvedendo per questa via a rimuovere gli effetti giuridici prodotti, con efficacia retroattiva; di talchè, i vizi di legittimità costituiscono il presupposto principale, sebbene non l’unico, per la successiva annullabilità dello stesso.

Diversamente, nella revoca non si rinviene traccia del ripristino della legalità; piuttosto, si tratta di un istituto, nell’ambito dell’autotutela decisoria, mediante cui si fa questione del merito del provvedimento, ossia, dell’opportunità dello stesso[26].

Ampliando l’angolo visuale, nell’ordinamento giuridico europeo l’aspetto del ripristino della legalità violata è avvertito in maniera più incisiva, al punto tale che l’autotutela decisoria coincide solo con il nostro annullamento d’ufficio, così che rimane fuori dal perimetro di operatività quella che nell’autotutela decisoria nazionale passa sotto il nome di «revoca» avente ad oggetto vizi di opportunità che sono sconosciuti al diritto europeo[27].

Da ultimo, l’indagine sulla natura giuridica dell’autotutela amministrativa, se considerarla potere di amministrazione attiva ovvero potere giustiziale, investe anche un altro aspetto per nulla secondario: la dimensione organizzativa della P.A., atteso che possono esercitare l’annullamento d’ufficio tanto lo stesso organo che ha adottato il provvedimento illegittimo quanto altro diverso organo individuato dalla legge.

Qualora si qualifichi l’autotutela come potere di amministrazione attiva, allora nulla quaestio circa l’esercizio di tale potere ad opera dello stesso organo competente ad adottare il provvedimento di primo grado; in tal modo, infatti, si salvaguarda anche la pienezza e esclusività della potestà amministrativa di base, preordinata al perseguimento dell’interesse pubblico affidato all’organo di amministrazione attiva tenendo conto pure dell’eventuale riesercizio del potere, una volta che ne sia stata caducata la manifestazione provvedimentale originaria auto emendandosi[28].

Diversamente, qualora si considera il potere di autotutela quale potere di tutela giustiziale, si potrebbe ravvisare la necessità che vi siano due plessi organizzativi, rispettivamente di primo e secondo grado, cui compete a quello di primo grado di adottare il provvedimento amministrativo che soddisfa l’interesse pubblico di cui è titolare, mentre all’organo di secondo grado, sovraordinato gerarchicamente, dovrebbe competere il controllo del provvedimento di primo grado, nonché l’assunzione della decisione in materia di autotutela; ciò in quanto, l’esercizio del potere di autotutela in funzione giustiziale da parte dello stesso organo che ha adottato il provvedimento di primo grado presenta alcune criticità come la mancanza di una valutazione oggettiva, la sussistenza di un possibile conflitto di interessi, la mancanza di imparzialità e terzietà.

Conclusivamente, si può affermare che allo stato non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta circa la natura giuridica dell’autotutela, dovendo piuttosto riconoscerne la posizione mediana tra potere di amministrazione attiva, proteso alla realizzazione dell’interesse pubblico che nell’ipotesi ordinarie dell’annullamento d’ufficio perde quella storica identificazione col concetto di inesauribilità del potere attesa la previsione di un termine di decadenza legale[29], e potere avente natura giustiziale che, in specie nel caso dell’annullamento d’ufficio, rintracciando il proprio fondamento nell’illegittimità del provvedimento amministrativo realizza il parallelismo con l’esercizio della funzione giurisdizionale, sebbene diversamente da quanto accade con l’azione di annullamento dinanzi al Giudice amministrativo dove dall’illegittimità del provvedimento opposto deriva l’annullamento dello stesso; la P.A. con l’annullamento in autotutela gode, in ragione di quella valutazione dell’interesse pubblico superiore al mero ripristino della legalità violata, di uno spatium deliberandi che si sostanzia in vera e propria discrezionalità sulla decisione di secondo grado da assumere.

 

  1. Autotutela e legalità

Uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico che produce importanti riflessi in materia di autotutela amministrativa, più in generale nel diritto amministrativo, è il principio di legalità[30] il cui fondamento è da rintracciare nell’esigenza di attenuare la posizione di supremazia dell’Amministrazione Pubblica nel rapporto col privato.

Non si può omettere di rilevare come negli ultimi tempi il principio di legalità è oggetto di una crisi dettata da una sempre maggiore elasticità dell’ordinamento giuridico sul piano delle fonti del diritto; invero, accanto ai tradizionali atti normativi si colloca il cd. soft law che consta di «raccomandazioni», «pareri», «deliberazioni», «linee guida» che, sebbene funzionali ad orientare l’agire della P.A., di fatto sono privi dei caratteri propri della disposizione legislativa dalla cui interpretazione si ricava la norma giuridica; anzi, non godono di stabilità nemmeno con riferimento ai contenuti che risultano suscettibili di essere modificati[31]

Nel rapporto con l’autotutela, tale principio, assolve ad una duplice funzione poiché opera come limite, laddove l’autotutela sia funzionale a rafforzare la tutela di un determinato interesse ad appannaggio di un soggetto con sacrificio dell’altrui interesse, ovvero come fondamento, laddove l’autotutela si palesa come rimedio avente funzione giustiziale strumentale all’applicazione del diritto[32].

Anzi, si può affermare che l’autotutela è figlia di due genitori: la legge e la Pubblica Amministrazione, la quale la esercita proprio perché Le è attribuita dalla prima; come il giudice, dunque, anche l’Amministrazione è assoggettata alla legge.

Le incessanti riforme che hanno interessato l’istituto in questione nell’ultimo ventennio, dalla sua positivizzazione sino alla delimitazione dei confini via via sempre più chiara, hanno favorito la conciliazione tra tre canoni: osservanza delle disposizioni di legge, stabilità del rapporto giuridico e conservazione degli effetti giuridici prodotti; ne è conseguita una declinazione del principio di legalità che tenga in debita considerazione il legittimo affidamento e la buona fede.

L’introduzione di una disciplina legislativa dell’autotutela, sia essa esecutiva o decisoria, ha inciso la concezione stessa di questo potere in quanto, mediante la definizione dei presupposti in presenza dei quali è possibile farsi ricorso al riesame delle decisioni di primo grado, si è affermata l’eccezionalità[33] dello stesso così che da una concezione dell’autotutela quale espressione della inesauribilità del potere si è passati alla concezione odierna per cui l’autotutela è esercitata nei modi, nelle forme e nei termini consentiti dal legislatore nella più stretta osservanza del principio di legalità[34].

Storicamente, il rapporto tra il principio di legalità e l’autotutela è stato, senza tema di smentita, ondivago in quanto caratterizzato originariamente da una perfetta intesa, cui ha fatto seguito una sorta di contrapposizione.

Ab origine, nella prima metà del Novecento, si poteva scorgere nell’ordinamento giuridico, in materia di esecuzione della legge, una vera e propria equivalenza tra Autorità amministrativa e Giudice circa i poteri attribuiti, sebbene vi fossero sostanziali differenze che allontanavano i poteri della prima da quelli esercitati dal secondo; infatti, come ha osservato autorevole dottrina[35], l’Autorità amministrativa faceva uso del potere di riesame secondo le stesse modalità con cui adottava i provvedimenti amministrativi di primo grado: curava l’istruttoria in segreto; non vi era spazio per la partecipazione al procedimento da parte del privato che ne veniva attinto; assenza di qualsivoglia obbligo di motivazione in relazione al contenuto del provvedimento di secondo grado.

Questo stato di cose subì uno stravolgimento, fino a contrapporre il principio di legalità rispetto all’autotutela, anzitutto con l’approvazione della Carta Costituzionale e successivamente, sebbene a distanza di circa un quarantennio, con l’introduzione della legge sul procedimento amministrativo che hanno inciso il diritto amministrativo in chiave garantistica.

Senza dubbio alla Costituzione si devono: il riconoscimento del diritto in favore del privato di agire dinanzi al Giudice contro i provvedimenti dell’Autorità amministrativa, ivi compresi i provvedimenti espressione del potere di autotutela; previsione del fondamento legale, ossia, che fossero attribuiti con legge i poteri di autotutela restrittivi della posizione giuridica soggettiva del destinatario. In questo modo si è dato luogo alla revisione del rapporto tra legge e Amministrazione che si dipana lungo due direttrici: soggezione della seconda al Giudice; attribuzione per legge dei poteri di autotutela restrittivi della sfera giuridica del privato[36].

La prorompenza con cui il principio di legalità si abbatté fu piena sull’autotutela esecutiva, la quale ne rimase strettamente vincolata, quasi nulla sull’autotutela decisoria, la quale invece ha continuato per lungo tempo ad essere considerata come potere generale.

A riprova di ciò, basti richiamare le modifiche ed integrazioni apportate dalla L. n. 15/2005 alla Legge n. 241/1990 nella misura in cui la locuzione «casi e modalità stabiliti dalla legge» è utilizzata solo nell’ambito della disciplina dell’autotutela esecutiva, il che appare davvero paradossale laddove si consideri che nel genus dell’autotutela amministrativa non è attratta la sola autotutela esecutiva ma anche l’autotutela decisoria[37].

In realtà, la Legge n. 15/2005 si presta a rilievi di non poco momento se si pensa che per quanto attiene alla disciplina dell’autotutela decisoria si limita a positivizzare principi, elaborati da giurisprudenza e dottrina, che si pongono in antitesi con quello che è il processo evolutivo in senso garantista che segna la legislazione in materia di procedimento amministrativo e a cui la stessa contribuisce con le disposizioni dedicate: al recepimento dei principi dell’ordinamento comunitario; alla partecipazione procedimentale; all’introduzione del Responsabile del procedimento; richiamo dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.

Solo con l’importante intervento riformatore di cui alla Legge n. 124/2015 si pone rimedio alle lacune e alla contraddittorietà della disciplina dell’autotutela decisoria rispetto alle evoluzioni della legge sul procedimento amministrativo, fino a farla aderire maggiormente al principio di legalità, mediante la definizione sia del termine temporale entro cui esercitarla sia dei relativi presupposti.

Ciò nonostante, autorevole dottrina ritiene che il disposto dell’art. 21-nonies meriti ancora di essere integrato, risultando nella formulazione odierna confliggente con quella che è la natura del principio di legalità; infatti, in omaggio a detto principio, spetterebbe al legislatore l’individuazione degli interessi che devono presiedere l’esercizio del potere di riesame perché rimettendo all’Amministrazione sic et simpliciter l’individuazione dell’interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità violata, il risultato ultimo di tale operazione è che si sviliscono e si estromettono gli interessi pubblici che il legislatore, invece, ha individuato in relazione al procedimento che conduce all’adozione del provvedimento di primo grado. In altre parole, allo stato l’Amministrazione nella fase di annullamento o revoca del provvedimento di primo grado beneficia di una vera e propria «riserva di amministrazione», rispetto al potere legislativo, essendo titolata ad individuare essa stessa gli interessi pubblici rilevanti[38].

D’altronde, atteso che l’attività di interpretazione delle disposizioni legislative deve essere condotta di guisa che le stesse siano armonizzate con i principi fondamentali dell’ordinamento complessivamente considerato, l’art. 21-nonies deve essere letto in coerenza con l’art. 1, L. n. 241/1990, al fine di superare quell’antinomia per cui l’annullamento d’ufficio si sostanzi in un potere generale in grado di eludere gli interessi che il legislatore impone di valutare per l’adozione del provvedimento di primo grado[39].

Dunque, al netto della stagione delle riforme inaugurata con la Legge n. 15/2005, il potere di autotutela, in specie l’autotutela decisoria, è stato progressivamente sospinto verso il principio di legalità fino a poter affermare che il riesame, e conseguente ritiro dei provvedimenti di primo grado, deriva dallo Stato di diritto; pertanto, il principio di legalità ne costituisce il presupposto e ne delinea il modo di atteggiarsi verso l’esterno[40].

 

  1. Le macro-categorie dell’autotutela.

In coerenza con l’orientamento sviluppatosi in seno a dottrina e giurisprudenza, si è soliti distinguere tra le seguenti macro-categorie:

  • autotutela esecutiva che si identifica con l’attività dell’amministrazione diretta all’esecuzione coattiva del provvedimento di cui agli artt. 21-ter, dedicato all’esecutorietà del provvedimento, e 21-quater, dedicato all’esecutività del provvedimento. Dunque, l’autotutela esecutiva trova oggi il proprio fondamento nella legge sul procedimento amministrativo, a differenza del passato in cui tale forma di autotutela trovava il proprio fondamento nel principio di sovranità;
  • autotutela contenziosa meglio nota come «autodichia», ossia, il potere esercitato dalla P.A. su impulso del destinatario del provvedimento, il quale propone ricorso, affinchè decida sui propri atti. In questi casi la P.A. esercita un potere decisorio in funzione giustiziale, assicurando il principio del contraddittorio, attraverso una forma di giustizia cd. «domestica»[41];
  • autotutela decisoria che può essere necessaria o spontanea. L’autotutela decisoria è il potere di verificare il rispetto dei requisiti di legittimità degli atti amministrativi esercitato da dallo stesso organo che ha adottato il provvedimento o un organo diverso ove previsto dalla legge.

La presente analisi sarà concentrata sull’autotutela decisoria che com’è noto si articola nei due istituti della revoca, ex art. 21-quinques, e dell’annullamento d’ufficio, ex art. 21-nonies, L. n. 241/1990.

Con la Legge n. 15/2005, in omaggio al principio «clare loqui», sono stati positivizzati in disposizioni diverse l’annullamento d’ufficio, la revoca e la convalida, così che si è valorizzato l’affidamento dei privati, quale principio eurounitario, attraverso: la disciplina temporale dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, la previsione dell’indennizzo nel solo caso della revoca, la emendazione dei vizi del provvedimento che comportano l’annullabilità dello stesso facendo salvo l’assetto dei rapporti giuridici che si sono concretizzati sulla scorta del provvedimento di primo grado.

Non solo, ha raccolto sotto la rubrica dell’art. 21-quinques, L. n. 241/1990, tutte le ipotesi di ritiro per motivi di opportunità; conseguentemente, la categoria della cd. «abrogazione»[42], richiamata nel §1., è stata ricompresa nella più ampia categoria della revoca.

Dunque, la revoca può essere disposta per: sopravvenuti motivi di pubblico interesse; mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento originario; nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

Mentre le prime due fattispecie rientrano nella cd. «revoca superveniens», la terza ipotesi configura la cd. «revoca ius poenitendi».

La revoca per mutamento della situazione di fatto ricorre ogni qualvolta il provvedimento ha soddisfatto l’interesse pubblico, ma con il trascorrere del tempo sono intervenuti dei mutamenti dello stato di fatto onde è divenuto inopportuno; il mutamento della situazione di fatto non deve essere prevedibile al momento dell’esercizio del potere amministrativo.

Il legame tra la revoca per mutamento della situazione di fatto e per sopravvenuti motivi di pubblico interesse è determinato dalla ricorrenza di fatti nuovi.

La terza fattispecie, revoca ius poenitendi (nuova valutazione dell’interesse pubblico), affinchè sia legittimamente esercitata è necessario che la decisione di secondo grado non si risolva in una capricciosa manifestazione di volubilità, affatto ammissibile per la carica lesiva che avrebbe in danno del legittimo affidamento del privato, interessato alla stabilità del rapporto favorevole sorto a seguito dell’atto revocato[43].

La Legge n. 164/2014 ha posto uno sbarramento all’esercizio della revoca ius poenitendi, rispetto ai provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici, al duplice fine di assicurare la certezza dei rapporti giuridici sorti a seguito di un provvedimento ampliativo e tutelare la ponderazione degli interessi tenendo conto dell’affidamento dei privati, valorizzando la stabilità dei provvedimenti favorevoli.

Si deve evidenziare come ancora oggi proprio quest’ultima fattispecie di revoca richieda all’Amministrazione una poderosa valutazione tanto dell’affidamento del privato, quanto del pregiudizio che allo stesso deriverà con conseguente obbligo per il soggetto pubblico di erogare il relativo indennizzo che può essere qualificato come una sorta di compensazione della lesione del legittimo affidamento del privato, costituendo il punto di equilibrio tra l’interesse pubblico dell’Amministrazione alla revoca e l’interesse del privato alla stabilità del rapporto[44].

Quanto agli atti che possono essere oggetto di revoca sono tali i provvedimenti ad efficacia durevole o istantanea; di talchè, sono esclusi dalla revoca quei provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole ma i cui effetti si sono già esauriti.

Il successivo art. 21-nonies, Legge n. 241/1990, disciplina l’istituto dell’annullamento d’ufficio quale emblema dell’autotutela[45]; l’introduzione di tale disposizione nella legge sul procedimento amministrativo, si deve alla L. n. 15/2005 che, recependo gli orientamenti della giurisprudenza, ha codificato i presupposti dell’annullamento: vizi di legittimità. ex art. 21-octies (eccesso di potere – violazione di legge – incompetenza relativa), che implicano annullabilità del provvedimento amministrativo; sussistenza dell’interesse pubblico; termine ragionevole; ponderazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.

Come è noto, presupposto imprescindibile ma non unico dell’annullamento d’ufficio è l’illegittimità del provvedimento di primo grado, determinata dalla sussistenza dei vizi di cui al comma I, art. 21-octies; una delle prime questioni che si è posta con riferimento al rapporto tra l’art. 21-octies e l’art. 21-nonies, investe l’applicabilità all’annullamento d’ufficio del comma II della prima disposizione, ossia, se debba ritenersi escluso l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio da parte dell’Amministrazione nell’ipotesi in cui sia precluso al Giudice amministrativo di pronunciare l’annullamento di un provvedimento amministrativo la cui illegittimità sia formale poiché determinata dalla violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti.

A parere di chi scrive, si deve aderire alla tesi dell’applicabilità anche all’annullamento d’ufficio del comma II, art. 21-octies, in ragione della mancanza di interesse a ricorrere; invero, la carenza dell’interesse a ricorrere è determinata dalla condizione per cui, benché affetto da vizio formale o procedurale, non è preclusa la possibilità che il provvedimento successivamente all’annullamento sia nuovamente adottato avendo espunto il vizio appunto formale o procedurale che lo affliggeva. Tale circostanza, come assume rilievo nel processo in termini di inammissibilità del ricorso, analogamente assume rilevanza nell’ambito della valutazione che la Pubblica Amministrazione, nel corso del procedimento di riesame, è chiamata a operare al fine di stabilire se sia maggiormente satisfattiva dell’interesse pubblico la conservazione o il ritiro del provvedimento amministrativo[46].

Ne consegue che, l’esclusione dall’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo pur viziato ai sensi del comma II, art. 21-octies, fa emergere come il Legislatore abbia optato per favorire la convalida del medesimo provvedimento, così che la validità dello stesso non è messa in discussione.

Per quanto attiene alla locuzione «termine ragionevole», la stessa deve essere intesa nel senso che, qualora sia trascorso un lungo periodo dopo che sia stato adottato il provvedimento di primo grado illegittimo, così che si sono ormai consolidati l’interesse alla sua conservazione e le posizioni favorevoli dallo stesso sorte, l’Amministrazione deve dare ragione di un interesse pubblico particolarmente importante affinchè sia giustificata la decisione di annullare il provvedimento medesimo[47].

Ciò nonostante, la ragionevolezza del termine non deve essere intesa solo in senso quantitativo ma anche in senso qualitativo, ragion per cui la valutazione che deve essere fatta dal soggetto pubblico è se il tempo trascorso, per quanto lungo, possa giustificare la scelta della conservazione del provvedimento in luogo del ritiro.

Col Decreto Legge 12 settembre 2014, convertito con modificazioni dalla Legge 11 novembre 2014, n. 164, l’art. 21-nonies è stato integrato prevedendo expressis verbis che l’annullamento d’ufficio non opera quando il provvedimento amministrativo è affetto da vizi di forma o procedurali; inoltre, è stata introdotta la responsabilità dell’organo che adotta l’annullamento al di fuori dei casi consentiti ovvero che omette di annullare il provvedimento di primo grado illegittimo.

La riforma più importante è attuata con la Legge 07 agosto 2015, n. 124, la quale anzitutto introduce un termine temporale fisso, pari a 18 mesi, entro cui annullare provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, decorrenti dalla data di adozione; inoltre, contempla una deroga al termine temporale dei 18 mesi per l’annullamento di provvedimenti amministrativi conseguiti dal destinatario sulla scorta di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci, per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato.

Da ultimo, il Decreto Legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla Legge 29 luglio 2021, n. 108, ha ridotto il temine dei 18 mesi a 12 mesi.

Secondo autorevole dottrina la previsione di un termine temporale fisso, oggi pari a 12 (dodici) mesi, sul piano dell’interesse pubblico da tutelare, implica che interessi primari come l’ambiente, la sicurezza, la salute, la difesa, la tutela del patrimonio culturale, da sempre considerati preminenti rispetto agli interessi economici dei privati, possono in concreto cadere in secondo piano con la conseguenza non affatto remota che, attesa la brevità del termine, sia pregiudicato il potere di annullamento di provvedimenti di primo grado che si pongono in antitesi con detti interessi[48].

Conclusivamente, le riforme che si sono accompagnate al partire dal 2005 hanno sicuramente il merito di aver codificato la revoca e l’annullamento d’ufficio, ma nulla di più hanno fatto.

La revoca possiamo definirla come il provvedimento che incide non l’atto ma l’efficacia di quest’ultimo, impedendo di produrre i propri effetti per il futuro all’esito di un giudizio di incompatibilità degli effetti del provvedimento con l’interesse pubblico che si persegue, configurando così il riesercizio del potere di amministrazione attiva; in antitesi con questa accezione si pone il comma 1-bis, art. 21-quinques, che disciplina l’ipotesi in cui l’Amministrazione con la revoca non elimina solo gli effetti ma anche il provvedimento dando luogo ad un riesame dell’originaria opportunità. In questo modo, la revoca, non essendo più configurata come riesercizio della funzione ma come rimedio alla patologia del provvedimento, finisce per rievocare quella remota tesi che attribuiva valore invalidante anche ai vizi di merito[49].

Ulteriori perplessità sono destate dalla previsione che oggetto di revoca possano essere anche gli atti ad efficacia istantanea; se è vero che uno dei tratti distintivi della revoca è l’efficacia ex nunc, considerato il tenore dell’art. 21-quinques laddove statuisce che [la revoca] determina inidoneità del provvedimento revocato a produrre effetti ulteriori, ammettendo che possono essere revocati provvedimenti ad efficacia istantanea, si afferma implicitamente che la revoca produce effetti ex tunc. Non solo, con riferimento alla revoca superveniens, laddove si ammette che possono essere revocati provvedimenti per fatti che erano già esistenti nel corso dell’istruttoria ma sconosciuti all’Amministrazione, dovrebbe configurarsi un difetto di istruttoria per violazione dell’art. 6, comma I lett. b), L. n. 241/1990, che invaliderebbe il provvedimento non già per ragioni di merito quanto per ragioni di legittimità, così che dovrebbe darsi luogo ad annullamento del provvedimento e non a revoca[50].

Purtroppo, su tali questioni, ancor oggi attuali, il legislatore non ha mostrato particolare attenzione, lasciando a dottrina e giurisprudenza l’arduo compito di integrare il dato normativo affinchè possa risultare maggiormente chiara la distinzione tra i due istituti.

 

  1. L’interesse perseguito

A conclusione del Cap. I emerge come l’autotutela, e correlativamente gli istituti che ne sono espressione, rientra[no] a pieno titolo tra gli strumenti attraverso cui si concretizza la potestà di imperio che caratterizza l’agire pubblico a tutela dell’interesse pubblico che lo presiede; ad ogni modo, ancora oggi è dibattuta la nozione della locuzione «interesse pubblico».

Da sempre il diritto amministrativo vive in una perenne tensione tra l’interesse pubblico perseguito dalla P.A., considerato superiore rispetto agli interessi dei singoli, e la garanzia degli interessi dei singoli a fronte dell’interesse pubblico.

Non è certamente questa la sede in cui approfondirne l’accezione, ma senz’altro si può aderire alla tesi secondo cui l’interesse pubblico, avuto riguardo alla Legge sul procedimento amministrativo, è la risultante della valutazione qualitativa e quantitativa dei vari interessi pubblici, generali e settoriali, collettivi ed individuali[51]; peraltro, proprio al fine di evitare che l’interesse pubblico possa giustificare l’esercizio autoritativo dell’azione amministrativa, le disposizioni recate dalla Legge n. 241/1990 e i principi anche di matrice europea recepiti nel nostro ordinamento hanno creato una sorta di argine a garanzia dei cittadini e della valutazione degli interessi di questi ultimi[52].

Nel paragrafo che precede si è operata una disamina degli istituti di cui consta l’autotutela decisoria, «annullamento d’ufficio» e «revoca», rilevando come presupposto indefettibile dell’uno e dell’altra sia l’interesse pubblico; ora, si tratta di doverne chiarire il contenuto.

Prendendo le mosse dalla formulazione letterale dell’art. 21-quinquies si evince come la ratio della revoca, istituto caratterizzato da ampia discrezionalità, sia proprio orientare costantemente il rapporto amministrativo al soddisfacimento dell’interesse pubblico; in altri termini, non si erra nell’affermare che l’interesse pubblico assolva ad una funzione di legittimazione della revoca di provvedimenti amministrativi.

D’altronde, antecedentemente alla positivizzazione di questo istituto, dottrina e giurisprudenza hanno sempre riconosciuto all’Amministrazione il potere di revocare propri provvedimenti per finalità di pubblico interesse; si è addirittura pervenuti all’affermazione di una sorta di immanenza del potere di revoca nello stesso potere in ragione del quale il soggetto pubblico adotta il provvedimento di primo grado.

Oggi si deve rifuggire dall’idea del riconoscimento generalizzato del potere di revoca, attese le diverse modifiche che hanno interessato la Legge n. 241/1990 tutte inclini ad attenuare il primautè dell’interesse pubblico in favore di un maggiore considerazione degli interessi dei cittadini che partecipano al procedimento amministrativo e che saranno incisi dal provvedimento finale. Il che sta a significare che, a fronte di una istruttoria completa e satisfattiva degli interessi dei cittadini di cui si dia ragione nella motivazione del provvedimento finale, appare difficile riconoscere un generalizzato potere di revoca.

Dunque, deve esserci un adeguato contemperamento tra interesse pubblico ed interessi privati, all’esito di una comparazione qualitativa e quantitativa degli stessi, che può avere luogo solamente assicurando la partecipazione procedimentale al destinatario del provvedimento di primo grado favorevole. Naturale conseguenza di tanto è che nel provvedimento di revoca deve darsi ragione dei motivi per cui nella nuova valutazione dell’interesse pubblico, quest’ultimo prevalga sugli interessi del privato[53].

D’altra parte, la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha più volte affermato la contrarietà della revoca ius poenitendi ai principi dell’ordinamento giuridico europeo, laddove la nuova valutazione dell’interesse pubblico non sia supportata da una giustificazione oggettiva che consenta di superare il legittimo affidamento; analoga motivazione, ha indotto il Legislatore nazionale, con la L. n. 164/2014, ad integrare la fattispecie di revoca determinata dal mutamento della situazione di fatto prevedendo che tale mutamento non fosse prevedibile ab origine quando il provvedimento di primo grado è stato adottato[54].

Venendo all’annullamento d’ufficio, l’art. 21-nonies si apre enunciando che «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies…può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico…»; di talchè, oltre l’illegittimità ex art. 21-octies è necessaria la sussistenza di ragioni di interesse pubblico.

Ponendosi in un angolo visuale antecedente alla positivizzazione dell’annullamento d’ufficio, la dottrina del tempo non si è affatto risparmiata nell’individuare sic et simpliciter il fondamento di tale istituto nella necessità di tutelare l’interesse pubblico più che nella necessità di porre rimedio all’illegittimità del provvedimento di primo grado; si assiste ad una oggettivazione della tutela dell’interesse pubblico[55].

A ciò si aggiunga che, nonostante la L. n. 15/2005, l’assenza di un termine temporale opera a detrimento sia della posizione giuridica del privato sia di un altro interesse pubblico altrettanto meritevole di tutela, ossia, l’interesse alla stabilità e certezza del rapporto giuridico; a ben vedere, operando una analisi circa l’interazione esistente tra procedimento amministrativo e processo amministrativo da cui si evince una costruzione del primo sul modello del secondo quanto a garanzie partecipative e valutazione degli interessi, l’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici costituisce anche il fondamento della disciplina processuale in materia di termine temporale entro cui esercitare l’azione giurisdizionale di annullamento[56]

Dunque, l’Amministrazione ha tutto il diritto di poter annullare d’ufficio un proprio provvedimento amministrativo illegittimo, ma deve farlo entro rigorosi termini temporali affinchè sia garantito il legittimo affidamento.

Il legislatore, nella disciplina apprestata all’annullamento d’ufficio, ha omesso di chiarire quali siano le situazioni in cui l’interesse pubblico assuma rilevanza ai fini della rimozione del provvedimento di primo grado.

Nel silenzio della Legge, antecedentemente alla positivizzazione dell’istituto di cui si discorre, la dottrina riteneva che il procedimento di riesame avesse struttura neutra ragion per cui l’interesse pubblico all’annullamento non poteva che coincidere con l’interesse pubblico primario che presiedeva all’adozione del provvedimento di primo grado; da tale assunto, si faceva discendere che l’esercizio del potere di riesame per soddisfare un interesse pubblico differente si sarebbe sostanziato in uno sviamento di potere. La codificazione dell’annullamento d’ufficio e la progressiva integrazione della disciplina del procedimento amministrativo con le garanzie partecipative in favore del privato cittadino, hanno fatto sì che nel procedimento di secondo grado debbano essere considerati ulteriori interessi cd. «secondari»[57] che, essendo sorti a seguito dell’adozione del provvedimento annullato, non potevano essere noti quando è stato adottato tale provvedimento. Da ciò ne consegue che l’interesse pubblico sotteso all’annullamento d’ufficio è in continuo aggiornamento, muta costantemente la propria pelle, essendo il prodotto del contemperamento con gli interessi degli interessati e dei controinteressati[58].

Altresì, l’attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo deve essere tanto più motivata qualora il tempo trascorso tra l’adozione del provvedimento e il suo annullamento, abbia consolidato situazioni giuridiche soggettive in capo agli interessati[59].

 

CAP. II – LA DIMENSIONE EUROPEA DEL POTERE DI AUTOTUTELA DELLA P.A.

 

  1. Il riconoscimento del potere di autotutela nell’ordinamento U.E.

Allorquando ci si accinge a indagare l’autotutela nella dimensione europea è imprescindibile chiarire il piano dei rapporti tra ordinamento U.E. e diritto interno.

Anzitutto, deve farsi richiamo a quel principio, recepito illo tempore sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina, secondo cui l’Unione Europea è un ordinamento giuridico costituito da un insieme organizzato e strutturato di norme giuridiche provvisto di fonti proprie, di organi e procedure idonee a trasmetterle, interpretarle, farne constatare e sanzionarne le violazioni[60].

Deve precisarsi, in omaggio alle pronunce della Corte di Giustizia, che trattasi di un ordinamento di nuovo genere con caratteristiche autonome e che non ha nulla da dividere con l’ordinamento internazionale e gli ordinamenti dei singoli Stati membri; ma v’è di più, tratti essenziali e distintivi di questo ordinamento giuridico di nuovo genere sono la supremazia e la diretta applicabilità.

Non è questa la sede per soffermarsi oltre su questi due tratti distintivi ma giova precisarne in estrema sintesi le conseguenze che implicano l’uno e l’altro: la supremazia, ossia, il primato implica che il diritto comunitario si impone agli Stati membri, ne integra l’ordinamento interno e prevale sulle norme che siano in contrasto con esso, prescindendo se si stratti di disposizioni legislative anteriori o posteriori rispetto alla normativa comunitaria; diretta applicabilità sta a significare che gli atti normativi direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali non necessitano di alcun atto di recepimento e che possono essere fatti valere da chi ne abbia interesse[61].

Dunque, il diritto U.E. permea gli ordinamenti dei singoli Stati membri al punto tale che le disposizioni legislative, da cui enucleare in ragione dell’attività interpretativa le norme giuridiche, se confliggenti con l’ordinamento unionale hanno un unico destino: essere disapplicate[62]; ritenere, però, che il rapporto tra diritto europeo e diritto nazionale si dispieghi in un’unica direzione è erroneo.

Invero, questo rapporto è bidirezionale poiché consta della costante interazione tra Stati membri e Unione Europea e a riprova di ciò vi è un dato incontrovertibile: la spina dorsale del diritto europeo è il prodotto dell’attività della Corte di Giustizia che estrae i principi dai singoli ordinamenti degli Stati membri, li fa propri attraverso un’opera di riadattamento all’ordinamento U.E. e li impone agli ordinamenti nazionali. Resta salvo che l’interazione tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali non è rimessa alla spontaneità delle parti in gioco, essendo retta dal Trattato di Lisbona che ne costituisce il retroterra[63].

Sin qui si è fatta luce sulla dimensione verticale del diritto europeo, accanto alla quale si colloca la dimensione orizzontale per cui quelle stesse norme che si applicano agli Stati membri si impongono anzitutto alle istituzioni e agli organi dell’Unione Europea e, per questa via, alla produzione provvedimentale di questi ultimi.

Venendo alla ricostruzione storica nella dimensione europea, aderendo all’orientamento di autorevole dottrina[64], l’autotutela origina a cavallo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo, in epoca post-rivoluzionaria[65], subendo le influenze prodotte dalla rivoluzione francese e dall’ordinamento gerarchico dell’amministrazione napoleonica.

In specie, al tempo si assiste all’affermazione della centralità della legge e all’attribuzione in capo all’Amministrazione del potere di dare diretta esecuzione alla stessa; in altre parole, il rapporto esistente tra Amministrazione e legge era uguale a quello esistente tra Giudice e legge per cui la prima, al pari del secondo, doveva darvi esecuzione.

La funzione dell’Amministrazione di dare esecuzione alla legge spiegava la propria efficacia in una duplice direzione: eseguire con la forza i propri atti e accertarne l’invalidità.

In tale contesto, funzione amministrativa e funzione giurisdizionale vengono separate e si stabilisce che i giudici non possono in alcun modo insinuarsi nell’attività dei corpi amministrativi. Non solo, sono sottratte alla giurisdizione dei Giudici ordinari le controversie amministrative e rimesse alla competenza del Conseil d’Etat, ossia, un corpo amministrativo[66].

Orbene, all’esecutivo spettava valutare gli atti dell’Amministrazione annullandone quelli invalidi, in funzione di affermazione della legalità; questo per quanto attiene all’autotutela decisoria. Diversamente, attesa la sottrazione dell’azione amministrativa al sindacato giurisdizionale, l’Amministrazione confezionava da sé i propri titoli esecutivi attraverso cui assicurare coattivamente l’esecuzione dei provvedimenti amministrativi per il perseguimento dell’interesse pubblico. Si tratta, in questo secondo caso, dell’autotutela esecutiva[67].

Nell’autotutela esecutiva, sebbene il fine della funzione amministrativa era il perseguimento dell’interesse pubblico, il principio di legalità operava a tutela del soggetto privato limitandone la portata ed evitando che la stessa fosse considerata in re ipsa al potere amministrativo.

Non v’è chi non veda come la differenza tra autotutela decisoria e autotutela esecutiva si stagliava proprio nel rapporto col principio di legalità: la prima era considerata immanente al potere amministrativo, la seconda rappresentava una eccezione e maggiormente correlata al principio di legalità.

Concentrando l’indagine sull’autotutela decisoria si rileva come l’evoluzione della stessa in ambito europeo si sia sviluppata nella direzione del solo annullamento d’ufficio con esclusione della revoca, sebbene i Giudici comunitari utilizzino il lemma «revoca» per qualificare quell’opera di ritiro di un provvedimento che corrisponde all’annullamento d’ufficio.

L’annullamento d’ufficio è espressione di un istituto sui generis che è riconosciuto solamente in favore della Pubblica Amministrazione, non essendo attribuito dal legislatore a nessun altro potere; è noto che il Parlamento non possa annullare d’ufficio le proprie leggi, così come il Giudice non può ex officio annullare una propria sentenza.

Altresì, non v’è traccia dell’annullamento d’ufficio nemmeno nel codice civile.

Emerge ictu oculi come si è in presenza di un privilegio che corrobora solamente il potere dell’Amministrazione, la quale è deputata a far valere con efficacia retroattiva l’illegittimità di un proprio provvedimento, senza il necessario intervento del Giudice, affinchè sia ripristinata la legalità violata e sia perseguito l’interesse pubblico il cui soddisfacimento compete alla stessa P.A..

Viceversa, il potere di revoca è comune sia alle funzioni pubbliche che ai rapporti di diritto privato e la ratio di una simile scelta è rappresentata dalla cura dell’interesse perseguito, sia pubblico che privato, tendente a non risolversi nell’adozione di un singolo atto, in quanto può sempre palesarsi la necessità di doverne modificare gli effetti; inoltre, nella revoca non v’è spazio per il ripristino della legalità né l’esercizio della stessa può essere assimilato a funzioni paragiurisdizionali[68].

Ancora, tanto per il perseguimento dell’interesse pubblico quanto per il perseguimento dell’interesse privato, la revoca costituisce la regola, mentre l’irrevocabilità degli effetti degli atti costituisce l’eccezione[69].

Deve, peraltro, aggiungersi che la revoca si pone in aperto contrasto con la configurazione paragiurisdizionale dell’autotutela decisoria nell’esercizio dell’annullamento d’ufficio e con quella locuzione «materielle Rechtskraft»[70]tanto cara alla Scuola di Vienna e al principale esponente Adolf Merkl, secondo cui il principio della cosa giudicata non deve essere limitato al solo settore processuale dell’ordinamento, essendo un carattere proprio di tutto il diritto sia processuale che sostanziale[71].

Pertanto, il diritto europeo, diversamente dall’ordinamento giuridico italiano, non contempla la possibilità di ritirare provvedimenti amministrativi per ragioni di opportunità bensì gli stessi possono essere ritirati solo se viziati di legittimità, il che implica che nell’ordinamento europeo l’autotutela si identifica solamente con quell’istituto che nel nostro ordinamento passa sotto il nome di annullamento d’ufficio.

 

 

 

 

  1. La legalità archetipo per l’esercizio dell’autotutela

Un principio di fondamentale importanza tanto nel diritto U.E. quanto negli ordinamenti nazionali, che costituisce il referente del potere di autotutela unitamente ad altri principi, è il principio di legalità.

Storicamente, l’origine del principio di legalità[72] è fatta coincidere con la nascita dello Stato di diritto nel diciannovesimo secolo e sono ricondotti sotto la sua egida sia i rapporti di diritto privato che i rapporti di diritto pubblico.

Nel diritto europeo, un riconoscimento implicito del principio de quo è operato nel Trattato CE sia all’art. 220, ove si stabilisce che spetta alla Corte di Giustizia assicurare il rispetto del diritto europeo nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato medesimo, sia nel successivo art. 230, in cui si attribuisce alla Corte di Giustizia la competenza a decidere i ricorsi per violazione del trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione[73]; oltre le due disposizioni testè richiamate, non si rinvengono altri articoli in cui si fa riferimento al principio di legalità europea.

Per converso, diverse sono state le elaborazioni operate dalla Corte di Giustizia che ne ha definito la portata; invero, mentre negli ordinamenti nazionali il principio in commento è in relazione col principio democratico, con l’esigenza di protezione della proprietà e della libertà dei cittadini, nonché col rispetto dell’equilibrio tra i poteri, nel panorama giuridico europeo, invece, si rinviene unicamente la relazione tra legalità e rispetto dell’equilibrio tra i poteri dovendo fare salvo l’equilibrio istituzionale definito nei Trattati[74].

Quanto alla portata estensiva del principio di legalità deve osservarsi come l’Amministrazione europea è sottoposta alle norme adottate dalle Autorità legislative europee, ai principi affermati dalla Corte di Giustizia, ai Trattati, ai principi generali del diritto così come consacrati nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, agli atti internazionali e al diritto nazionale per via di quell’attività per cui l’ordinamento europeo fa propri i principi fondamentali dello Stato di diritto, quali il diritto al contraddittorio, l’obbligo di motivazione e il sindacato giurisdizionale dell’azione amministrativa[75].

Questo il quadro europeo del principio di legalità, su cui si tornerà a breve; sia consentita una riflessione sul piano nazionale.

Nel nostro ordinamento si registra una nuova linea di tendenza, ossia, il ricorso agli strumenti di diritto privato per la regolazione dei rapporti tra P.A. e privati, con un’idea puramente illusoria di sostanziale parità tra i due soggetti del rapporto; in realtà, deve condividersi quella dottrina secondo cui l’estensione del diritto privato a fattispecie pubblicistiche crea un vuoto sotto diversi aspetti, in quanto vengono meno le garanzie in favore degli interessi dei terzi incisi dal procedimento ma, aspetto ancora più rilevante, è il ridimensionamento che subiscono le regole che governano il potere così da eludere anche il principio di legalità comunitaria[76].

Tale tendenza ha incontrato un limite effettivo nel diritto europeo che si impone agli Stati membri, atteso che le leggi interne sono vincolate al rispetto dell’ordinamento sovranazionale essendo sottoposte ad un vaglio di compatibilità che investe sia l’Amministrazione sia il Giudice amministrativo ognuno competente a disapplicare la norma che sia contraria al diritto europeo.

Tanto, implica per l’Amministrazione soggiacere non solo al diritto nazionale ma anche a quello sovranazionale ed essere soggetta alla giurisdizione, oltre che dei Giudici nazionali, dei Giudici comunitari[77].

In particolare, si deve al diritto europeo il merito di aver provocato una progressiva armonizzazione tra gli ordinamenti dei singoli Stati membri valorizzando il principio di legalità sostanziale; in tal senso, un ruolo fondamentale è assolto dalle direttive che concorrono a costruire il diritto amministrativo europeo e incidono su quegli istituti che negli ordinamenti nazionali sono stati oggetto del decostruttivismo riconducendoli nella dimensione pubblicistica disciplinata dal principio di legalità. Non solo, non meno rilevante è il ruolo della Corte di Giustizia che, come si è detto nel paragrafo precedente, eleva a principi generali del diritto U.E. taluni principi recati dagli ordinamenti dei singoli Stati membri, così che ne estende la portata a tutti gli Stati membri[78].

Emerge sullo sfondo come il risultato ultimo di tale modus operandi sia proprio quello di favorire la creazione di una legalità uniforme per tutti gli Stati membri, portatrice di eguali diritti per tutti i cittadini, i quali possano col tempo comprendere di essere membri di un unico ordinamento federale.

Nell’ordinamento europeo, in relazione all’autotutela amministrativa tanto delle istituzioni U.E. quanto dei singoli Stati membri per atti contrari al diritto comunitario, il rapporto tra legalità e certezza del diritto appare cangiante con riferimento ad un ulteriore principio, ossia, quello dell’effetto utile del diritto U.E..

In specie, la stessa Corte di Giustizia non ha avuto remore nel qualificare come illegittimo il ritiro del provvedimento amministrativo illegittimo, operato da istituzioni comunitarie, allorquando produttivo di effetti favorevoli al destinatario ampliandone la sfera giuridica; in queste ipotesi, i principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento hanno prevalso sul principio di legalità, così che costituiscono in concreto un limite al potere di autotutela. In altri casi, invece, il potere di autotutela è lo strumento per il ripristino della legalità comunitaria violata, così che sia garantita, superando le esigenze di affidamento e certezza del diritto, l’uniforme applicazione del diritto U.E. funzionale a realizzare gli obiettivi economici che sono propri dell’Unione Europea. In altre parole, all’esito di un bilanciamento puramente discrezionale tra gli interessi in gioco, certezza del diritto ed affidamento possono assolvere a due funzioni alternative tra loro: limitare il potere di autotutela, ovvero, retrocedere non rispetto al principio di legalità [rectius interesse al ripristino della legalità violata], bensì rispetto all’interesse all’applicazione uniforme del diritto U.E. ad appannaggio di regole che mettano i vari operatori del mercato di operare in condizioni di parità[79].

Conclusivamente, si può affermare che il rapporto tra affidamento del privato e certezza del diritto, da un lato, e principio di legalità, dall’altro, cambia veste in relazione alla violazione della legalità come intesa in ambito nazionale o alla legalità europea.

 

  1. La funzionalizzazione del potere interno di autotutela all’interpretazione conforme al diritto U.E.

Nel § 1. si è dato luogo all’esame della duplice dimensione del diritto europeo, ossia, le dimensioni verticale ed orizzontale; l’analisi della funzionalizzazione del potere interno di autotutela all’interpretazione conforme al diritto U.E. investe la cd. «dimensione verticale».

Orbene, tale rapporto assume maggiore rilevanza allorquando si tratti della tutela dei diritti riconosciuti dall’ordinamento comunitario.

Al fine di meglio ricostruire la simmetria tra l’ordinamento sovranazionale e gli ordinamenti interni, in materia di tutela dei diritti riconosciuti dal diritto unionale, è necessario fare richiamo alle elaborazioni della giurisprudenza della C.G.U.E. che ha riconosciuto in diverse occasioni, addirittura sin dal 1968[80], autonomia procedurale agli Stati membri, da intendersi come autonoma scelta dei mezzi attraverso cui realizzare i diritti soggettivi attribuiti dal diritto europeo.

In proposito, il Giudice comunitario ha statuito expressis verbis che non v’è alcun limite al potere del Giudice nazionale di scegliere, tra i mezzi offerti dal diritto interno, quelli che appaiono più appropriati per la tutela dei diritti attribuiti dal diritto europeo, sebbene vi siano disposizioni della normativa nazionale contrastanti.

Qualche anno più tardi[81], la C.G.U.E. ha delimitato tale autonomia procedurale statuendo che la preminenza assoluta del diritto comunitario si estende anche alle norme procedurali di diritto interno, atteso che sarebbe contraria alla natura dell’ordinamento comunitario la circostanza che gli Stati membri possano adottare o mantenere in vita provvedimenti che siano tali da compromettere l’effetto utile delle disposizioni normative U.E..

Da ciò ne consegue, prosegue il Giudice comunitario, che il singolo ha diritto all’annullamento o alla revoca del provvedimento amministrativo contrario al diritto europeo affinchè sia soddisfatta l’esigenza di realizzare l’effetto utile dell’effetto diretto delle norme comunitarie; all’uopo, però, fintantoché per i diritti attribuiti dal diritto europeo non sia predisposta una disciplina ad hoc, il Giudice interno deve adempiere i relativi obblighi avendo come referente le proprie norme procedurali.

Non solo, qualora sia stata proposta impugnazione avverso un provvedimento amministrativo contrario al diritto europeo oltre i termini previsti dalla legislazione processuale nazionale, il diritto europeo non osta a che sia opposta al ricorrente l’inosservanza del ridetto termine temporale; altresì, conclude enunciando un ulteriore principio di diritto per cui le azioni giudiziali a tutela dei diritti attribuiti dall’ordinamento unionale non devono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale.

Al netto delle pronunce della Corte di Giustizia è evidente ictu oculi come il potere di autotutela amministrativa interna [ergo l’annullamento d’ufficio essendo sconosciuta la revoca all’ordinamento europeo] sia funzionale all’interpretazione conforme del diritto unionale e della sua primautè. In altre parole, il potere di autotutela deve favorire la realizzazione dei fini previsti dalla normativa comunitaria evitando di arrecare ostacolo[82].

Successivamente, la C.G.U.E. non ha mancato di intervenire ulteriormente delineando tale funzionalizzazione caso per caso.

Invero, sempre facendo salva l’autonomia procedurale degli Stati membri ma salvaguardando l’interpretazione conforme al diritto unionale, in materia di aiuti di Stato, ha riconosciuto la legittimità della revoca con efficacia ex tunc di un provvedimento amministrativo di concessione che, sebbene favorevole al destinatario, era stato adottato secondo una procedura che violava la disciplina del TFUE; aggiungeva, inoltre, che l’operatore economico nell’ipotesi descritta non avrebbe potuto vantare alcun legittimo affidamento in quanto, facendo uso dell’ordinaria diligenza, avrebbe dovuto rilevare l’illegittimità della procedura data la chiara evidenza interpretativa delle norme violate[83].

Qualche anno più tardi, la Corte di Giustizia[84], torna sull’autonomia procedurale degli Stati membri e risolve la tensione tra legalità e certezza del diritto facendo uso del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa[85]; la valutazione di proporzionalità è diretta a rendere obbligatoria la revoca del provvedimento amministrativo illegittimo al fine di ripristinare la legalità violata. In altre parole, la proporzionalità costituisce il presupposto del provvedimento di secondo grado che è configurato quale unico rimedio atto ad assicurare l’effet utile della norma comunitaria[86].

All’uopo, il Giudice europeo, richiama il principio di leale collaborazione, ex art. 10 Trattato CE, in omaggio al quale le Autorità degli Stati membri devono adottare i relativi provvedimenti amministrativi funzionali ad eliminare le violazioni del diritto europeo; tale obbligo è temperato dal principio di autonomia procedurale per cui è rimesso al Giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere il provvedimento che viola il diritto unionale.

Nello stesso anno, l’organo giudicante dell’Unione Europea, statuisce che, in ossequio al principio di cooperazione derivante dall’art. 10 Trattato CE, è imposto ad un organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente del diritto U.E., nel frattempo accolta dalla Corte, al ricorrere delle seguenti condizioni: il diritto nazionale ammetta la possibilità di riesaminare la decisione divenuta definitiva; la decisione sia divenuta definitiva all’esito di una pronuncia del Giudice nazionale che decide in ultima istanza; la sentenza del Giudice nazionale di ultima istanza, in ragione di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, sia fondata su una interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste dall’art. 234, n. 3, Trattato CE e l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato di tale nuova giurisprudenza sopravvenuta[87]. Più recentemente, la CGUE, ha affermato che i principi di autonomia procedurale degli Stati membri e la necessità del rispetto dei principi di effettività ed equivalenza, non pongono in discussione che un atto amministrativo, come considerato da una sentenza del giudice nazionale passata in giudicato che sia poi accertata da una sentenza della Corte di Giustizia come violativa del diritto europeo, continui a spiegare i propri effetti, in disparte i possibili profili risarcitori[88].

Conclusivamente, alla luce della richiamata giurisprudenza europea, la funzionalizzazione del potere di autotutela all’interpretazione conforme del diritto U.E. o, per meglio dire, a garantire l’effet utile di una norma europea è governata da una serie di principi tra cui il principio di proporzionalità, strumentale alla valutazione degli interessi coinvolti dal procedimento, e il principio di leale collaborazione, attraverso cui nel rispetto dell’autonomia procedurale riconosciuta gli Stati membri devono cooperare all’interpretazione conforme del diritto europeo mediante eliminazione del provvedimento amministrativo illegittimo.

In questo modo, l’autotutela non deve essere più intesa come privilegio dell’Amministrazione ma quale strumento di raccordo tra opposti interessi quali la legalità, la certezza del diritto e il legittimo affidamento; di talchè, la valutazione secondo il canone di proporzionalità rafforza il giudizio di prevalenza tra opposti interessi.

Ne consegue che l’interesse pubblico prevale sull’affidamento incolpevole del privato quando sia diretto a garantire il ripristino della legalità, seppur a detrimento della certezza del diritto; viceversa, l’interesse pubblico non può costituire la giustificazione a che l’Amministrazione, seppur utile alla collettività, mantenga in vita un provvedimento illegittimo che illegittimamente arreca nocumento alla sfera giuridica del privato.

L’affidamento legittimo prevale solamente qualora sia conseguenza dell’incolpevole ignoranza dell’illegittimità del provvedimento da parte del suo destinatario; diversamente, qualora il privato destinatario sia consapevole dell’illegittimità, prevale l’effet utile per cui ha luogo l’esercizio vincolato del potere di autotutela finalizzato ad eliminare da panorama giuridico ogni provvedimento che violi il diritto U.E.[89].

 

  1. L’autotutela nel Codice ReNEUAL e la comparazione con la disciplina interna

La latitudine degli interessi di cui ha assunto la cura, incidendo sulla vita quotidiana degli individui e delle formazioni sociali ove i primi agiscono[90], e le crescenti competenze che le sono affidate, hanno fatto sì che l’Unione Europea assuma i caratteri di una Pubblica Amministrazione sovranazionale che consta di proprie risorse, economiche ed umane, e procedure, sebbene non disponga di un insieme coerente e completo di norme codificate di diritto amministrativo; d’altro canto, i cittadini, pur confrontandosi direttamente con l’Amministrazione dell’Unione, non dispongono dei corrispondenti diritti procedurali di cui potersi avvalere contro la stessa nei casi in cui ciò risulti necessario, diversamente da quanto accade nei singoli Stati membri ove la tradizione di diritto amministrativo ha condotto alla codificazione dei principi e delle guarentigie riconosciute agli stessi nell’ambito del procedimento amministrativo.

È stata così avvertita l’esigenza di predisporre una disciplina ad hoc del procedimento amministrativo europeo.

A tal proposito, il Parlamento europeo con Risoluzione del 15 gennaio 2013 (2012/2024(INL)), recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto dell’Unione europea in materia di procedimenti amministrativi, ha richiesto alla medesima Commissione di presentare una proposta di regolamento su un diritto dell’Unione Europea in materia di procedimenti amministrativi così da assicurare una regolazione generale della cd. dimensione orizzontale.

Appare doveroso richiamare i pilastri della normativa comunitaria su cui fondare la proposta di regolamento, ossia, l’art. 298 TFUE, che contempla la potestà regolamentare del Parlamento europeo e del Consiglio al fine di garantire un’amministrazione efficace, aperta ed indipendente, e l’art. 41 Trattato di Nizza, recante il diritto ad una buona amministrazione riconosciuto ad ogni persona che è interessata dai procedimenti delle istituzione e degli organi dell’Unione Europea,  espressamente citati nei considerando della ridetta Risoluzione.

La proposta di Regolamento è pervenuta dalla organizzazione Research Network on EU Administrative Law (ReNEUAL), che consta di Professori e ricercatori universitari di Diritto amministrativo, pubblico ed europeo provenienti da svariati Stati membri[91], e che passa sotto il nome di «Codice ReNEUAL», costituito da sei libri; in specie, gli artt. III-35 e III-36, Libro III rubricato «Processo decisionale sul singolo caso», sono dedicati all’autotutela amministrativa.

Trattasi di normativa indirizzata alle istituzioni comunitarie, sebbene non sia esclusa la possibilità che il singolo Stato membro possa sua sponte osservarla.

Dalla lettura della rubrica di entrambi gli articoli testè richiamati emerge la principale distinzione recata dal codice ReNEUAL, ossia, tra provvedimenti amministrativi favorevoli e sfavorevoli; all’interno di queste due grandi categorie vi è l’ulteriore distinzione tra provvedimenti legittimi e provvedimenti illegittimi.

Preliminarmente, ambedue le disposizioni qualificano la revoca dei provvedimenti amministrativi quale procedura amministrativa, intendendosi come tale, ex art. I-4 paragrafo 2, il processo mediante il quale un’autorità pubblica prepara e formula l’azione amministrativa che si conclude con l’adozione di una decisione [rectius provvedimento amministrativo].

Dunque, si assiste alla procedimentalizzazione del potere di autotutela che deve concludersi con l’adozione di un provvedimento espresso; per questa via, risulta governato dal principio del giusto procedimento, dal diritto ad una buona amministrazione ed è assistito dalle garanzie in materia di partecipazione procedimentale recate dal medesimo codice[92].

Non solo, entrambe le disposizioni chiariscono che il procedimento tendente alla revoca di un provvedimento amministrativo favorevole o sfavorevole, nonché legittimo o illegittimo, può avere impulso ex officio o su istanza di parte; di talchè, dal tenore delle norme si evince che il procedimento, in presenza di una istanza che ne dà impulso, deve essere obbligatoriamente attivato, restando salva la discrezionalità dell’Autorità circa il provvedimento da adottare per concluderlo.

Inoltre, nell’esercizio del potere di autotutela, l’Autorità pubblica, deve tenere in debita considerazione gli effetti che lo stesso produce sulle altre parti e i terzi; id est non vi è un’automatica prevalenza dell’affidamento dell’interessato sugli interessi delle altre parti [controinteressati] e dei terzi. La revoca deve essere il prodotto della ponderazione di tutti gli interessi in gioco.

Chiariti i tratti comuni, si esamineranno analiticamente l’una e l’altra disposizione.

Orbene, quanto alla revoca di provvedimenti sfavorevoli, ex art. III-35, occorre distinguere tra provvedimento illegittimo e legittimo: nel caso di provvedimento sfavorevole illegittimo, la revoca ha effetto retroattivo cd. «ex tunc»; qualora, invece, trattasi di provvedimento sfavorevole legittimo, la revoca ha effetto per il futuro cd. «ex nunc».

Non sono stabiliti limiti di tempo all’esercizio del potere, atteso che l’art. III-35 recita testualmente che la revoca può avere luogo anche oltre il termine di impugnazione giudiziaria.

Quanto, invece, ai provvedimenti favorevoli, ex art. III-36, qualora essi siano illegittimi, la revoca può avere efficacia retroattiva ovvero solo per il futuro; non sono previsti limiti temporali all’esercizio del potere. La dottrina ha rilevato come, nel caso di provvedimento favorevole illegittimo, assumono rilevanza sia l’affidamento che il privato ha riposto nella legittimità del provvedimento amministrativo, sia quanto il medesimo provvedimento è stato determinante per l’assunzione di iniziative economiche da parte del privato. Sono due elementi che non tollerano una sovrapposizione in quanto l’affidamento investe il diritto o la posizione di vantaggio, mentre il secondo elemento guarda all’effetto materiale prodotto dal provvedimento a revocarsi, ossia, aver indotto il destinatario ad assumere iniziative economicamente rilevanti[93].

Nel caso di revoca di provvedimenti favorevoli legittimi, l’art. III-36 reca una serie di restrizioni che sono il prodotto della codificazione delle elaborazioni della Corte di Giustizia.

Premesso che la Corte di Giustizia generalmente è incline ad escludere la revocabilità di provvedimenti favorevoli legittimi, la revoca degli stessi deve avvenire anzitutto entro il termine perentorio previsto per l’impugnazione giudiziale; ciò nonostante, la revoca può avere luogo oltre il termine perentorio entro cui proporre l’impugnazione giudiziale solamente in tre ipotesi: la normativa di settore lo consenta espressamente; la parte non si è conformata ad un obbligo recato dal provvedimento «cd. inadempimento» ovvero non ha adempiuto entro il termine stabilito nel provvedimento medesimo «cd. adempimento tardivo»; al fine di prevenire o eliminare danni gravi. In quest’ultimo caso è previsto in favore del destinatario del provvedimento revocando il risarcimento del danno, previa richiesta del destinatario danneggiato, se e nella misura in cui sia meritevole di tutela.

La revoca di provvedimenti favorevoli legittimi o illegittimi deve avere luogo entro un «termine ragionevole» che, secondo la giurisprudenza della C.G.U.E.[94], è di qualche mese per il ritiro di provvedimenti della P.A..

Conclusivamente, operando un rapido confronto tra Codice ReNEUAL e ordinamento nazionale è evidente come mentre nel primo si assiste alla distinzione tra provvedimenti favorevoli e sfavorevoli, al cui interno si opera l’ulteriore distinzione tra provvedimenti legittimi e illegittimi; nel nostro ordinamento, invece, la distinzione è tra revoca, produttiva di effetti ex nunc, e annullamento d’ufficio, produttivo di effetti ex tunc.

L’articolazione di cui al Codice, sebbene possa apparire prima facie complessa, in realtà dovrebbe essere assunta dal legislatore nazionale come nuovo angolo visuale circa la relazione esistente tra legalità e legittimo affidamento; è noto come, secondo la giurisprudenza formatasi in materia e il tenore letterale dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990, affinchè abbia luogo l’annullamento d’ufficio è richiesto un interesse ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità, il quale sarebbe già sufficiente per motivare il ritiro del provvedimento illegittimo. A ciò si aggiunga l’incertezza dei tratti caratteristici dell’ulteriore interesse pubblico, la cui ricostruzione ha luogo in via pretoria per mano del Giudice amministrativo.

Diversamente, nel Codice si stabilisce che la P.A. revochi i provvedimenti amministrativi favorevoli illegittimi ma legalità e affidamento sono posti in stretta correlazione, atteso che l’Amministrazione modula gli effetti del ritiro tenendo in debita considerazione due elementi: l’affidamento di colui che ha tratto o avrebbe potuto trarre vantaggio dal provvedimento e l’effetto materiale prodotto consistente nell’investimento che il destinatario ha compiuto in ragione dell’affidamento. In altri termini, la ricostruzione codicistica dell’annullamento del provvedimento favorevole illegittimo non richiede la ricerca di un ulteriore interesse pubblico ma lo ritiene sussistente in re ipsa, sostanziandosi nell’interesse al ripristino della legalità.

Un’ultima notazione investe il confronto tra la nostra revoca e la revoca di provvedimento favorevole legittimo; l’apprezzabile ricostruzione codicistica ha sottratto il privato cittadino a qualsivoglia tendenza autoritativa della P.A., nella misura in cui, contrariamente a quanto accade nel nostro ordinamento con l’art. 21-quinques che riconosce il diritto al ripensamento sine die, subordina l’annullamento di provvedimento favorevole legittimo ad un termine temporale definito, quale è il termine entro cui può essere proposta l’impugnazione giudiziale, e a criteri più rigidi che restringono la discrezionalità e per questa via l’autoritarismo della P.A.. Non solo, l’indennizzo nel Codice è limitato al solo di fine di prevenire o eliminare danni gravi, laddove nell’art. 21-quinques, invece, è previsto per tutte le ipotesi di revoca di provvedimenti ad efficacia durevole o istantanea che incidono su rapporti negoziali.

Inoltre, nel Codice non si rinviene traccia dei paradossali vizi non invalidanti che sono recati dal nostro art. 21-octies, comma II, L. n. 241/1990.

Da ultimo, la procedimentalizzazione dell’autotutela in seno al Codice fa sì che sussista in capo alla P.A., ammettendo espressamente l’ipotesi dell’istanza di parte che possa dare impulso al procedimento di revoca, un generale obbligo di provvedere a fronte del quale è rimessa alla valutazione dell’Amministrazione l’adozione del provvedimento finale.

 

  1. L’annullamento di atto contrario al diritto U.E.

Si è dato atto della distinzione che secondo l’ordinamento giuridico europeo rileva ai fini dell’annullamento: provvedimento favorevole o sfavorevole, al cui interno si opera l’ulteriore distinzione tra legittimo o illegittimo.

Attesa la doppia anima del diritto europeo che consta sia della dimensione verticale che della dimensione orizzontale, l’indagine sulla contrarietà del provvedimento amministrativo all’ordinamento giuridico europeo dovrà essere condotta avendo riguardo a tale duplice dimensione.

Nella dimensione verticale del diritto europeo, che investe il rapporto tra ordinamento unionale e ordinamento nazionale, si assiste ad una sorta di doverosità dell’annullamento di tutti quei provvedimenti amministrativi nazionali che risultino essere contrari all’ordinamento europeo, così che il principio del legittimo affidamento, di matrice europea, indietreggia rispetto alla ossequiosa osservanza dell’ordinamento unionale; la doverosità dell’annullamento retrocede a discrezionalità ogni qualvolta vi sia violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) laddove i controinteressati non abbiano partecipato al giudizio dinanzi i Giudici di Strasburgo. Peraltro, la Corte di Giustizia non ha mancato di chiarire che, sebbene vi è un rinvio operato dall’art. 6, par. 3, T.U.E. alla CEDU, di fatto non sussiste alcun obbligo in capo ai Giudici nazionali di disapplicare la norma interna che sia in contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; al più, la norma interna potrà essere disapplicata solo all’esito di una declaratoria di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale[95].

Dunque, nella dimensione verticale del diritto europeo, alla luce della primautè di quest’ultimo sugli ordinamenti nazionali, in caso di provvedimenti anticomunitari l’autotutela amministrativa diviene obbligatoria quale strumento di attuazione dell’interesse sovranazionale, potendo anche infrangere il giudicato interno che abbia dichiarato legittimo il provvedimento amministrativo che violi il diritto U.E..

A ciò si aggiunga che la giurisprudenza ampiamente prevalente ha evidenziato che il contrasto di un atto amministrativo con il diritto europeo costituisce sempre e solo motivo di annullabilità e non di nullità. In altri termini, fermo restando che il contrasto tra un provvedimento amministrativo nazionale e il diritto dell’Unione europea debba generare qualche forma d’invalidità dell’atto in questione, il Consiglio di Stato, almeno a far tempo dalla sentenza 31 marzo 2011, n. 1983, ha affermato che l’atto amministrativo che viola il diritto dell’Unione europea è affetto da annullabilità per vizio di legittimità sotto forma di violazione di legge e non da nullità, atteso che l’art. 21-septies, L. 7 agosto 1990, n. 241, ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e tra queste ipotesi non rientra il contrasto con il diritto dell’Unione europea. Ne consegue che la nullità è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento amministrativo nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere incompatibile con il diritto europeo e quindi disapplicabile.

La violazione del diritto europeo, quindi, implica un vizio d’illegittimità con conseguente annullabilità dell’atto amministrativo con esso contrastante e da ciò discende un duplice ordine di conseguenze: sul piano processuale l’onere dell’impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto europeo davanti al giudice amministrativo entro il termine di decadenza di sessanta giorni, pena l’inoppugnabilità del provvedimento stesso; sul piano sostanziale, l’obbligo per l’amministrazione di dar corso all’applicazione dell’atto, fatto salvo l’esercizio del potere di autotutela. La natura autoritativa di un provvedimento amministrativo, peraltro, non viene meno se la disposizione attributiva di potere è poi dichiarata incostituzionale o si manifesta in contrasto con il diritto europeo a maggior ragione quando, il contrasto con il diritto europeo non ha riguardato la disposizione attributiva del potere, ma una regola sui criteri da seguire per il legittimo esercizio del potere[96].

Quanto alla dimensione orizzontale, deve avvertirsi sin da subito che vi è un più largo riconoscimento del legittimo affidamento, costituendo un limite al ritiro dei provvedimenti amministrativi.

I limiti al ritiro dei provvedimenti amministrativi si atteggiano in maniera differente a seconda che si tratti di provvedimenti favorevoli o meno al destinatario.

I Giudici comunitari hanno individuato i confini entro cui il provvedimento amministrativo legittimo e favorevole al destinatario possa essere ritirato: qualora vi sia il consenso di colui che è inciso dal ritiro; mancato avveramento della condizione di efficacia; revisione della policy; l’inadempimento da parte del destinatario del provvedimento di un obbligo specificato nello stesso[97].

Allorquando, invece, si tratti di provvedimenti illegittimi il ritiro non è ammesso sic et simpliciter, ma si deve dare luogo alla composizione del conflitto tra legalità, di cui è espressione l’interesse pubblico a che l’Amministrazione eviti di consolidare situazione illegittime, e affidamento del privato.

La Corte di Giustizia non ha mancato di intervenire attestandosi su posizioni differenti dettate dalla valutazione caso per caso; di talchè, ha ammesso il ritiro con efficacia ex tunc del provvedimento amministrativo illegittimo qualora il suo destinatario lo abbia impugnato innanzi al Giudice amministrativo. La ratio di una simile pronuncia riposa nell’assenza di un legittimo affidamento da tutelare in capo al destinatario del provvedimento. Di segno opposto è stata la pronuncia della Corte di Giustizia rispetto al ritiro con efficacia ex tunc del provvedimento amministrativo illegittimo, qualora l’illegittimità non era riconoscibile ictu oculi dal suo destinatario indotto a farvi affidamento; a contrario, qualora l’illegittimità è riconoscibile dal destinatario in ragione delle sue specifiche competenze, l’istituzione comunitaria è legittimata al ritiro del provvedimento senza possibilità di opporvi qualsivoglia affidamento. Altresì, l’affidamento resta escluso, ad appannaggio dell’interesse pubblico al ritiro, quando lo stesso destinatario abbia indotto con la sua condotta in errore la stessa Amministrazione che ha rilasciato il provvedimento amministrativo per quanto legittimo e favorevole.

 

CAP. III – IL PROCEDIMENTO PER L’ESERCIZIO DELL’AUTOTUTELA

 

  1. Doverosità dell’autotutela decisoria

Le riforme che hanno interessato l’art. 21-nonies L. n. 241/1990, in materia di annullamento d’ufficio, operate dapprima mediante la L. 11 novembre 2014, n. 164, che ha convertito il D.L. 12 settembre 2014, n. 133, e successivamente con la L. 7 agosto 2015, n. 124, hanno indotto a ritenere che le stesse abbiano contribuito a ridisegnare l’istituto de quo; più precisamente, sembrerebbe che sia stata ridimensionata la natura discrezionale, da sempre accolta in dottrina e giurisprudenza, in favore di una configurazione in termini di doverosità.

Sia consentita una premessa di metodo: riservando la trattazione del rapporto tra istanza di annullamento del privato e doverosità dell’annullamento officioso al § 3., l’indagine di cui al presente paragrafo sarà condotta avendo riguardo alle tesi e ai presupposti cui ancorare la doverosità della eliminazione dal panorama giuridico di un provvedimento amministrativo che sia viziato di legittimità.

All’uopo, a parere di chi scrive, deve evidenziarsi come la Consulta ha statuito che, in via di principio, il momento discrezionale del potere della Pubblica Amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale; così che la previsione legislativa di casi di autotutela obbligatoria è possibile, così come l’introduzione di limiti all’esercizio del potere di autoannullamento[98]. In altre parole, la Corte Costituzionale, in controtendenza rispetto alla giurisprudenza e dottrina maggioritaria, ha ammesso che sul piano legislativo possano sussistere ipotesi in cui l’autotutela decisoria e, quindi, l’annullamento d’ufficio sia obbligatorio; da ciò ne consegue che la discrezionalità non dovrebbe essere considerata come carattere indefettibile dell’autotutela. Sul punto si tornerà nuovamente nelle pagine che seguono.

La dottrina da par suo ha individuato casi in cui, prevalendo l’interesse alla restaurazione dell’ordine giuridico violato, l’autotutela risulta eccezionalmente doverosa: invalidità dell’atto dichiarata con sentenza pronunciata dal Giudice ordinario e passata in giudicato; annullamento in sede giurisdizionale o amministrativa dell’atto presupposto rispetto a quello successivo da annullare; l’invalidità dell’atto è stata rilevata in sede di procedimento di controllo cd. «successivo»[99].

Orbene, l’assunto addotto a sostegno della tesi circa la sussistenza di una generale doverosità si fonda sulla formulazione letterale dell’ultimo periodo del comma I, art. 21-nonies, come modificato dalla L. n. 164/2014, laddove fa discendere la responsabilità del pubblico funzionario, oltre che dall’adozione, dal mancato annullamento del provvedimento illegittimo; di talchè, il potere di annullamento in autotutela risulterebbe vincolato nel quomodo ogni qualvolta il provvedimento di primo grado risulti viziato di legittimità[100]. Altresì, rafforza l’idea della doverosità la specificazione del termine ragionevole entro cui rimuovere il provvedimento illegittimo mediante cui sono stati attribuiti o autorizzati vantaggi economici; in tale ipotesi, l’annullamento deve avvenire entro dodici mesi dall’adozione del provvedimento stesso[101].

E’ noto che l’illegittimità del provvedimento amministrativo costituisce il presupposto principale, ma non l’unico, al ricorrere del quale la P.A. si determina alla rimozione dello stesso, non potendola ignorare; diversamente, si riconoscerebbe all’Amministrazione una intollerabile arbitrarietà che la configurerebbe legibus soluta, per cui deciderebbe discrezionalmente se conformare il proprio agere al paradigma normativo ovvero confermare il provvedimento di primo grado e, quindi, mantenere in vita un provvedimento sostanzialmente contra legem[102].

Ciò nonostante, prendendo quale angolo visuale la lettera dell’art. 21-nonies, emerge chiaramente come, oltre l’illegittimità del provvedimento, sia richiesto un ulteriore presupposto da identificare con l’interesse pubblico; allo scopo, taluna dottrina[103], ha ricondotto la doverosità dell’annullamento d’ufficio alla funzionalizzazione legislativa dell’agere amministrativo all’interesse pubblico, così che qualora l’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento di primo grado illegittimo prevalga sul contrario interesse privato al mantenimento della situazione giuridica soggettiva conferita o ampliata dallo stesso, si deve procedere all’annullamento. Aggiunge che la sussistenza in re ipsa del vincolo finalistico favorisce l’interpretazione della locuzione «…può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico…» nel senso che l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio è vincolato solamente laddove vi sia prevalenza e rilevanza dell’interesse pubblico.

In realtà, il legislatore ha omesso di chiarire quali siano le ragioni di pubblico interesse che in sede di riesame devono risultare prevalenti e prioritarie rispetto al mero ripristino della legalità violata; sta di fatto che nel silenzio della legge la giurisprudenza amministrativa, rifacendosi ad indeterminate ragioni di pubblico interesse, ha fatto coincidere le stesse con il mero ripristino della legalità violata, così che l’Amministrazione è stata affrancata, per un verso, dall’onere motivazionale circa la rilevanza dell’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento illegittimo e la prevalenza sull’interesse privato al mantenimento del provvedimento illegittimo, allegando l’illegittimità del provvedimento, per altro verso, dall’onere della partecipazione al procedimento di riesame.

A tal proposito, i Giudici amministrativi hanno individuato taluni interessi pubblici, definiti particolarmente sensibili, che risultano rilevanti e prevalenti rispetto all’interesse privato al mantenimento in vita del provvedimento amministrativo illegittimo: l’interesse alla tutela dell’ambiente, l’interesse alla tutela del paesaggio, l’interesse al rispetto della normativa urbanistico edilizia.

Tale ricostruzione non appare convincente, in quanto tanto la disciplina generale dell’annullamento d’ufficio, recata nel citato art. 21-nonies, quanto la disciplina di settore, inferente l’esercizio dell’autotutela decisoria nella forma dell’annullamento officioso in relazione agli interessi cd. sensibili come enucleati dalla giurisprudenza, sono ispirate alla tutela del legittimo affidamento del privato; di talchè, non tollerano alcuna differenziazione nella tutela del legittimo affidamento sulla scorta della rilevanza dell’interesse pubblico in questione. La disciplina legislativa recata dalla carta costituzionale, dalla legge sul procedimento amministrativo e di settore, sebbene attribuisce pregnanza agli interessi pubblici testè richiamati, sino al punto di poterli definire «interessi sensibili», non consente di ritenere gli stessi per ciò solo necessariamente prevalenti rispetto all’interesse privato che vi si contrappone; invero, essa stessa pone in risalto la necessità di tutelare il legittimo affidamento del privato[104].

Diversamente, l’elaborazione giurisprudenziale ha individuato casi in cui la prevalenza dell’interesse pubblico è determinata dalla irrilevanza dell’interesse privato contrapposto; ciò accade quando l’affidamento del privato non si è consolidato ovvero risulta colpevole. Nella prima ipotesi, l’affidamento del privato si ritiene che non si sia consolidato qualora sia trascorso un breve periodo tra la sua emanazione e la successiva rimozione; nella seconda ipotesi, l’affidamento si ritiene colpevole quando il provvedimento illegittimo sia stato conseguito mediante dichiarazioni false ed infedeli[105].

La ricostruzione della prevalenza dell’interesse pubblico determinata dalla irrilevanza dell’interesse privato, appare più convincente in quanto maggiormente ancorata ai presupposti richiesti dall’art. 21-nonies circa l’esercizio dell’annullamento ex officio.

Ad ogni modo, la tesi circa la doverosità dell’annullamento d’ufficio non coglie nel segno per le ragioni di seguito esposte.

Anzitutto, la doverosità, soprattutto quando questa è giustificata dall’interesse pubblico identificato sic et simpliciter con il mero ripristino della legalità violata, implica la dequotazione della motivazione; il che si pone in palese contrasto con il dettato ex art. 21-nonies che, invece, impone di rendere note le ragioni di pubblico interesse per cui ha avuto luogo l’annullamento d’ufficio e di tenere in considerazione l’interesse del destinatario del provvedimento.

Ma v’è di più.

Affrancare l’Amministrazione dall’onere motivazionale lede la funzione di garanzia cui deve assolvere l’istituto de quo, nella misura in cui nega al privato di conoscere i profili specifici che hanno assunto rilievo ai fini della decisione di secondo grado; di talchè, non sarebbe dato conoscere quale sia stato il percorso logico giuridico sotteso alla valutazione degli interessi [pubblico e privato] in gioco.

Conclusivamente, priva di pregio, a parere di chi scrive, è la tesi che fa discendere dal tenore letterale dell’ultimo periodo del I comma, art. 21-nonies, inferente la responsabilità del pubblico funzionario per mancato annullamento del provvedimento illegittimo, un generalizzato dovere di annullare ex officio ogni provvedimento amministrativo illegittimo; invero, tale inciso deve essere inteso nel senso che il dovere di annullare d’ufficio, cui è collegata la relativa responsabilità nel caso in cui sia omesso, sussiste fintanto che si tratti di provvedimenti il cui contenuto è vincolato poiché predeterminato dalla legge. Id est si ha ragione di ritenere che si è in presenza di una «clausola di salvaguardia» dell’agere amministrativo che, costituendo eccezione alla discrezionalità di cui gode la P. A. in materia, impone di annullare tutti quei provvedimenti che, discostandosi dal paradigma delineato dalla legge, producono danni di cui l’Amministrazione potrebbe essere chiamata al risarcimento, essendo incorsa in violazioni della legge non eliminate in via di autotutela.

 

  1. Discrezionalità dell’autotutela decisoria

Dopo aver delimitato i confini entro cui poter configurare l’esercizio doveroso dell’annullamento d’ufficio rispetto a provvedimenti vincolati nel contenuto, in quanto già predeterminato dalla legge, l’indagine prosegue enucleando le ragioni per cui si aderisce alla tesi circa la discrezionalità dell’autotutela decisoria e i relativi connotati.

La migliore dottrina ritiene che l’autotutela amministrativa si collochi al di fuori del concetto di dovere, qualificandola piuttosto come facoltà in quanto la nozione di annullabilità od invalidità del provvedimento amministrativo configura l’annullamento dell’atto invalido come non giuridicamente necessario; a sostegno di tale orientamento, assume che la non necessarietà giuridica dell’annullamento dell’atto invalido è data proprio dall’incidenza che ha sull’ordinamento il principio della conservazione dei valori giuridici, atteso che è recepita nel nostro ordinamento la sanatoria del provvedimento per decorrenza del tempo[106].

Invero, dottrina e giurisprudenza si sono attestate su una posizione comune secondo cui la discrezionalità dell’autotutela decisoria ed in specie dell’annullamento d’ufficio, così come accade per la revoca, si staglia nell’an e nel quomodo per cui l’Amministrazione, in presenza di un provvedimento amministrativo illegittimo già adottato, è libera di decidere se attivare o meno il procedimento di riesame; non solo, il Giudice amministrativo è privo di qualsivoglia competenza giurisdizionale, atteso che non può sindacare la decisione dell’Amministrazione, la quale, invece, è l’unica titolare del potere in questione. Da ciò ne consegue che, ex art. 21-nonies, la P.A. può decidere di autoannullare ex officio un proprio provvedimento amministrativo entro un termine temporale ragionevole e purchè l’interesse pubblico al ripristino della legalità sia contemperato con gli altri interessi privati[107].

Sul punto, giova evidenziare come la ricostruzione discrezionale dell’autotutela decisoria è da farsi risalire alla teorica del Benvenuti, secondo il quale il potere di riesame non è finalizzato sic et simpliciter alla restaurazione obiettiva dell’ordine giuridico violato, bensì alla realizzazione di un interesse concreto ed immediato dell’Amministrazione[108].

La discrezionalità, dunque, è un tratto distintivo tanto della revoca quanto dell’annullamento d’ufficio e a riprova di ciò v’è l’uso del termine «può», il quale identifica una facoltà; inoltre, con riferimento alla prima, la riforma del 2015, diversamente dalle integrazioni introdotte all’art. 21-nonies, non ha previsto l’apposizione di un termine temporale entro cui esercitare la revoca.

Con ciò non si vuole certo assumere che l’apposizione del termine temporale, di diciotto mesi prima e di dodici mesi ora, costituisca motivo per ritenere che sia cambiata la pelle dell’annullamento officioso per cui la discrezionalità abbia ceduto il passo alla doverosità; anzi, l’apposizione del termine di decadenza rappresenta solo il limite massimo entro cui tale potere, limitatamente ai provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, può essere esercitato.

Si badi bene, il termine di decadenza legale è confinato ad una specifica categoria di provvedimenti amministrativi, valendo per tutti gli altri il cd. «termine ragionevole» che, unitamente al contemperamento tra l’interesse pubblico alla rimozione e gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, costituiscono senza dubbio il corollario della discrezionalità di cui gode l’Amministrazione nell’esercizio dell’annullamento d’ufficio.

Il fondamento del «termine ragionevole» e del contemperamento dell’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento illegittimo con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, va individuato nella garanzia della tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento illegittimo, mediante una valutazione discrezionale volta alla ricerca del giusto equilibrio tra il ripristino della legalità violata e la conservazione dell’assetto regolativo impresso dal provvedimento viziato.

In altre parole, si può affermare, senza tema di essere smentiti, che l’annullamento d’ufficio consta di una serie di valutazioni di opportunità al pari di quanto accade per l’adozione del provvedimento di primo grado illegittimo[109].

Prendendo le mosse dal cd. «termine ragionevole», deve osservarsi come la decorrenza del tempo non produce come effetto automatico l’estinzione del potere, bensì lo condiziona richiedendo una valutazione particolarmente pregnante dell’interesse pubblico e degli altri interessi rilevanti; affinchè non si ricada nel libero arbitrio, tale valutazione dovrà essere egualmente pregnante anche quando sia trascorso un breve lasso di tempo, dall’adozione del provvedimento illegittimo, idoneo a far sorgere l’affidamento incolpevole del privato[110].

Per quel che attiene l’interesse pubblico, invece, da sempre viene considerato da dottrina e giurisprudenza quale presupposto imprescindibile dell’annullamento d’ufficio poiché assolve ad una duplice funzione: per un verso, è garante della tutela dei privati destinatari del provvedimento di riesame; per altro verso, è la fonte della discrezionalità di cui gode l’Amministrazione nel decidere se annullare o meno un proprio precedente provvedimento amministrativo viziato di legittimità[111] .

Ciò nonostante, il riconoscimento dell’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento illegittimo non implica di per sé la pretermissione di ogni altra circostanza rilevante (come gli interessi dei destinatari dell’atto) esonerando l’Amministrazione da qualunque valutazione sul punto; infatti, un conto è la tendenziale prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine giuridico rispetto agli altri interessi rilevanti, altro è la radicale pretermissione, anche ai fini motivazionali, di tali ulteriori circostanze attraverso una loro innaturale espunzione dalla fattispecie.

Ne consegue che è proprio la formulazione letterale dell’art. 21-nonies a positivizzare il carattere discrezionale dell’annullamento d’ufficio e in generale dell’autotutela decisoria.

D’altronde, laddove si aderisse alla teorica dell’interesse pubblico in re ipsa al ripristino della legalità violata, si assisterebbe all’erosione dello spatium deliberandi dell’Amministrazione per cui non esercitare il proprio ius poenitendi attraverso l’annullamento d’ufficio; in ipotesi, il soggetto pubblico non potrebbe valutare né il decorso del tempo perché inidoneo ad attenuare la prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino, né la sussistenza di un interesse pubblico in senso contrario, né l’interesse del privato destinatario dell’atto, che non potrebbe in alcun caso essere valorizzato neppure nell’ottica del legittimo affidamento[112].

 

  1. Modalità di impulso del procedimento

Titolare in via esclusiva del potere di autotutela, quale manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, è la sola Pubblica Amministrazione.

Occorre a questo punto indagare se sia possibile dare impulso a tale potere mediante istanza proveniente dal privato e se, in caso di risposta affermativa, sia configurabile l’insorgenza di un qualsivoglia obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione.

La giurisprudenza prevalente è solita affermare che non sussiste alcun obbligo per la P.A. di pronunciarsi su un’istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall’esterno l’attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell’atto amministrativo mediante l’istituto del silenzio-rifiuto; tale orientamento è conseguenza della natura officiosa e ampiamente discrezionale del potere di autotutela.  Il privato, sempre secondo tale orientamento, può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente. Ulteriore conseguenza è che il potere di autotutela è incoercibile dall’esterno attraverso l’istituto del silenzio-inadempimento ex art. 117 c.p.a.[113].

Invero, la ragione per cui è apprestato un trattamento all’annullamento d’ufficio rispetto alla generalità dei procedimenti amministrativi attivabili d’ufficio ha natura squisitamente processuale: si sostanzia nel timore per cui, imponendo all’organo pubblico l’obbligo di riscontrare l’istanza di riesame, soprattutto quando proposta al di là del termine perentorio entro cui proporre ricorso giurisdizionale, e, conseguentemente, ammettendo la possibilità di impugnazione da parte del privato del silenzio della P.A., si concretizzerebbe una elusione dei termini decadenziali entro cui impugnare il provvedimento di primo grado illegittimo.

Tale timore si espone a rilievi di non poco momento poiché  l’annullamento d’ufficio, sul piano temporale, deve essere esercitato entro dodici mesi, qualora trattasi di provvedimenti autorizzativi o attributivi di vantaggi economici, ovvero entro un termine ragionevole per cui non si rileva alcun referente normativo che faccia richiamo al termine perentorio entro cui opporre in via giurisdizionale il provvedimento amministrativo illegittimo; altresì, sebbene sia l’annullamento d’ufficio sia l’annullamento giurisdizionale producano effetti demolitori nei confronti del provvedimento che ne è oggetto, non possono sottacersi le profonde diversità tra i due istituti, nella misura in cui il primo richiede una valutazione di tutti gli interessi in gioco [pubblico e privati] a differenza del secondo che è preordinato al solo accertamento dell’illegittimità. Così che appare difficile sostenere la tesi dell’elusione del termine perentorio per la proposizione della tutela giurisdizionale, laddove il privato solleciti, oltre quest’ultimo termine temporale, l’annullamento d’ufficio che, essendo ampiamente discrezionale, non obbliga l’Amministrazione a riempire la propria decisione dei contenuti richiesti dall’istante. Non solo, le valutazioni che la P.A. compie nell’esercizio dell’annullamento d’ufficio, soprattutto con riferimento al contemperamento dell’interesse pubblico al ritiro con gli altri interessi privati dei destinatari e dei controinteressati, sono sindacabili nel limite del solo eccesso di potere; il che implica che l’eventuale rigetto dell’istanza, in ragione della prevalenza dell’interesse pubblico, non potrà costituire oggetto di sindacato giurisdizionale. Sul piano, poi, delle garanzie procedimentali l’annullamento d’ufficio si rivela assai meno garantista rispetto all’annullamento giurisdizionale poiché non operano i principi della parità delle armi e dell’indipendenza del soggetto pubblico, posto che l’annullamento d’ufficio è esercitato dallo stesso organo che ha adottato il provvedimento illegittimo[114].

I Giudici di Palazzo Spada hanno aperto alla possibilità di proporre l’azione avverso il silenzio inadempimento, ex artt. 31 e 117 c.p.a., qualora l’istanza di riesame sia stata proposta in pendenza del termine entro cui promuovere l’azione giurisdizionale di annullamento, sebbene tale apertura sia giustificata dal solo interesse alla deflazione del contenzioso[115].

Orbene, dovendo dare risposta ai quesiti posti in apertura al presente paragrafo, appare doveroso, ad avviso di chi scrive, prendere le mosse dall’importante distinzione tra «dovere di agire» e «dovere di provvedere», con la necessaria precisazione che il primo si staglia al di fuori del procedimento amministrativo.

In specie, il «dovere di agire» impone all’Amministrazione destinataria dell’istanza del privato di valutare la sollecitazione pervenuta, così che il funzionario pubblico deve operare sempre quella preventiva delibazione all’esito della quale potrebbe sorgere il «dovere di provvedere», sussistendo i presupposti per l’avvio del procedimento; tale fase la possiamo definire pre-procedimentale poiché, essendo una fase interna all’Amministrazione, non implica l’insorgenza di alcun rapporto tra privato e soggetto pubblico[116].

Conseguentemente, aderendo all’insegnamento di M.S. Giannini, la circostanza per cui non sussiste un obbligo di provvedere rispetto a talune istanze o denunce, come si vedrà appresso, non solleva il funzionario pubblico dall’onere di verificarle né deve far credere che le denunce siano inutili forme di manifestazione perché in una Amministrazione ben organizzata la condotta del funzionario è suscettibile di controlli superiori, giuridici e politici.

È appena il caso di evidenziare che la dottrina[117] ha più volte chiarito che nell’ambito dell’ampia categoria delle denunce mediante cui dare impulso a procedimenti officiosi, tra cui vi rientra anche l’annullamento d’ufficio, si distingue tra denunce «semplici» che sono improduttive di alcun obbligo di provvedere, in quanto proposte da chi non è titolare di alcun interesse differenziato, e denunce «qualificate» provenienti da titolari di situazioni giuridiche soggettive di interesse legittimo o comunque meritevoli di tutela; solo queste ultime sono idonee a far sorgere il dovere di provvedere, posto che tale dovere involge solamente l’attività e non la decisione della P.A. che resta pur sempre discrezionale. Qualora a fronte di una denuncia qualificata l’Amministrazione serbi il proprio silenzio, il privato sarà legittimato ad agire in via giurisdizionale.

Titolare di una situazione giuridicamente soggettiva di interesse legittimo può essere anche il controinteressato, atteso che, ragionando a contrario, se l’interesse del controinteressato deve essere valutato ai fini della pronuncia della decisione di annullamento non si comprenderebbe la ratio di una eventuale esclusione dal dovere di provvedere a fronte di una denuncia o istanza qualificata proveniente da quest’ultimo.

Deve affermarsi che sulla P.A. sussiste un generale «dovere di agire» a fronte di tutte le istanze e/o denunce che intendono dare impulso al procedimento officioso, trattandosi di fase pre-procedimentale in cui vagliare la sussistenza dei presupposti del procedimento, da cui può insorgere, qualora si tratti di denunce qualificate provenienti da soggetti titolari di interessi differenziati, il «dovere di provvedere» che ha ad oggetto l’attività e non i contenuti della decisione.

Da ultimo, deve condividersi l’orientamento secondo cui quand’anche la denuncia sia semplice può comunque essere idonea a far sorgere la responsabilità per mancato annullamento del provvedimento illegittimo, qualora sia occasione per rilevare eventuali profili di illegittimità che affliggono il provvedimento di primo grado e che la P.A. con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto rilevare a tutela non del privato istante, bensì dell’interesse pubblico sotteso[118].

 

  1. Il fattore tempo nell’esercizio dell’autotutela

È noto come il fattore tempo, anche nel diritto amministrativo, assume rilevanza in quanto suscettibile di determinare la costituzione, modificazione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive. Il tempo, invero, rientra nella categoria dei fatti giuridici oggettivi ed è idoneo a sortire i propri effetti sui rapporti giuridici, ivi compresi i rapporti di matrice pubblicistica, indipendentemente dall’atteggiamento psicologico dei soggetti interessati; di talchè, il decorso del tempo incide sia il versante dei poteri esercitabili dall’amministrazione, quanto quello delle posizioni giuridiche riconosciute ai privati[119].

Tanto, accade anche nell’ambito dell’autotutela decisoria con specifico riguardo all’annullamento d’ufficio.

Prendendo, dunque, come angolo visuale il fattore tempo è possibile affermare che la disciplina dell’annullamento d’ufficio, ex art. 21-nonies, consta di due paradigmi: il primo è quello generale per cui l’istituto de quo deve essere esercitato entro un termine temporale elastico pur sempre ancorato al canone della «ragionevolezza»; il secondo, invece, è delineato rigorosamente in dodici mesi con possibilità di deroga nel caso di falsità accertata con sentenza passata in giudicato.

Con riferimento al «termine ragionevole» deve osservarsi che tale locuzione richiama un concetto relazionale, id est riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel singolo caso.

La nozione di «ragionevolezza» del termine è strettamente connessa a quella di «esigibilità» in capo all’Amministrazione, così che per questa via il termine entro cui esercitare l’annullamento d’ufficio è ragionevole allorquando il dies a quo decorra dal giorno in cui il soggetto pubblico ha conoscenza dei profili di illegittimità del provvedimento amministrativo da riesaminare.

Mediante la L. n. 124/2015, il legislatore, ha delineato il «termine ragionevole» in diciotto mesi, sebbene limitatamente ai provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici; successivamente, l’art. 63, D.L. n. 77/2021, convertito in L. n. 108/2021, ha ridotto ulteriormente tale termine a dodici mesi.

La previsione di un termine specifico pari a dodici mesi persegue un duplice scopo: per un verso, offre adeguata tutela giuridica all’affidamento del cittadino che ha ottenuto un provvedimento favorevole; per altro verso, implica la configurabilità dello stesso come termine di decadenza, ragion per cui, una volta decorsi i dodici mesi dalla concessione di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, quivi inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato per silenzio assenso della P.A., l’organo che ha adottato il provvedimento o il diverso organo competente individuato dalla legge decadrà dall’esercizio del potere di annullamento officioso[120].

Il termine dei dodici mesi, peraltro, può essere legittimamente superato nelle ipotesi di cui al comma 2-bis dell’art. 21-nonies, vale a dire di provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato.

Emerge ictu oculi come il principio della certezza del diritto trova attuazione attraverso la previsione del termine di dodici mesi per esercitare l’annullamento d’ufficio; mentre, il principio di buona fede rappresenta la mens legis ispiratrice dell’eccezione alla regola generale dei dodici mesi[121].

La deroga di cui al comma 2-bis, art. 21-nonies, ha il merito di sottrarre il privato all’adozione da parte della Pubblica Amministrazione di provvedimenti di secondo grado, a lui pregiudizievoli, giustificati dal sol fatto che siano in corso indagini penali ovvero sia pendente un giudizio che poi si concludano con una pronuncia di non luogo a procedere o di assoluzione[122].

Orbene, occorre evidenziare che la giurisprudenza ha chiarito, ai fini dell’operatività del comma 2-bis in relazione al superamento del termine dei dodici mesi, come non possa sostenersi che le «false attestazioni» debbano essere state accertate con sentenza penale passata in giudicato. A tali fini, infatti, è stata operata una netta distinzione tra le due ipotesi contemplate dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies, costituite, l’una, dalle «false rappresentazioni dei fatti», l’altra, dalle «dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci».

In specie, il superamento del rigido limite temporale di dodici mesi per l’esercizio del potere di autotutela deve ritenersi ammissibile, a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte in cui il soggetto interessato abbia rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, atteso che, in questi casi, viene in rilievo una fattispecie non corrispondente alla realtà. Tale contrasto, tra la fattispecie rappresentata e quella reale, può essere determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante, dovrà scontare l’accertamento definitivo in sede penale, ovvero da una falsa rappresentazione dei fatti, che può essere rilevante ai fini del superamento del termine di dodici mesi anche in assenza di un accertamento giudiziario della falsità, purché questa sia accertata inequivocabilmente dall’Amministrazione con i propri mezzi.

A ciò si aggiunga che la ratio del comma 2-bis risiede nell’esigenza che il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela debba essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’Amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro; resta salvo che la scoperta sopravvenuta all’adozione del provvedimento di primo grado deve tradursi in una impossibilità di conoscere fatti e circostanze rilevanti imputabile al soggetto destinatario del provvedimento di primo grado, non potendo la negligenza dell’Amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa, che potrebbe continuamente differire il termine di decorrenza dell’esercizio del potere[123].

Peraltro, a sostegno di tale interpretazione risulta decisivo il richiamo contenuto dal comma 2-bis al Capo VI, D.P.R. n. 445/2000, il cui art. 75 non accenna ad alcun giudizio di accertamento della falsità, piuttosto richiamando la sufficienza della circostanza per cui la falsità sia direttamente accertata per mezzo dei controlli effettuati dalla medesima Amministrazione[124], allorquando la stessa possa accertarla senza margini di incertezza perché in possesso di dati certi conoscibili e verificabili senza esitazione.

Conclusivamente, si può affermare che, nonostante la poco chiara formulazione, il comma 2-bis in commento ha positivizzato quella reciprocità degli obblighi procedimentali gravanti sul soggetto pubblico e sul cittadino quale corollario della teorica del procedimento amministrativo paritario la cui paternità appartiene all’illustre giurista Feliciano Benvenuti; in altre parole, ad una Amministrazione imparziale deve rapportarsi un cittadino leale, sincero e non reticente. Ne consegue che alcuna posizione di legittimo affidamento può essere originata dalla falsità.

 

  1. L’obbligo di motivazione dei provvedimenti di secondo grado espressione dell’autotutela

A chiusura dell’indagine sui profili rilevanti in relazione alla procedimentalizzazione dell’autotutela decisoria, sia consentita qualche riflessione sull’onere motivazionale che incombe sulla pubblica Amministrazione.

L’elaborazione giurisprudenziale più recente riconosce all’Amministrazione procedente la facoltà di graduare [rectius attenuare] l’obbligo della motivazione in base all’interesse pubblico che viene in rilievo[125].

In proposito, i Giudici amministrativi hanno statuito che se è vero come è vero che il decorso del tempo onera l’Amministrazione che intenda procedere all’annullamento in autotutela del provvedimento di primo grado illegittimo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento e alla valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, è altrettanto vero che tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina di settore in riferimento alla quale è stato adottato il provvedimento illegittimo.

In particolare, qualora si sia in presenza di preminenti interessi pubblici la cui tutela è «autoevidente», l’onere motivazionale potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono per l’esercizio dello ius poenitendi; altresì, secondo tale orientamento giurisprudenziale, sarebbe da rifiutare la tesi per cui nell’ipotesi appena rappresentata l’interesse privato debba comunque prevalere sull’interesse pubblico in ragione dell’ormai definitività degli effetti del provvedimento illegittimo, cui consegue il consolidamento della situazione giuridica soggettiva attribuita all’interessato.

Non solo, aggiunge che l’onere motivazionale sarà parimenti attenuato nelle ipotesi in cui la non veritiera prospettazione dei fatti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo, nel qual caso l’esigenza di rispettare i principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento, da parte dell’Amministrazione che opera il ritiro del provvedimento illegittimo, non può dirsi sussistente qualora il contegno del privato abbia consapevolmente determinato una situazione di affidamento non legittimo.

Orbene, ad avviso di chi scrive, l’orientamento consolidato in giurisprudenza circa l’attenuazione dell’onere motivazionale in capo alla P.A. non è esente da qualche considerazione critica.

È noto come l’art. 3, L. n. 241/1990, sancisca expressis verbis e in via assoluta l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti amministrativi, indicando tassativamente al comma 2 quali siano gli atti[126] per i quali viene meno l’obbligo di motivazione; non solo, il precedente art. 2, a fronte di istanze manifestamente inammissibili, infondate, irricevibili e improcedibili, prevede pur sempre l’obbligo di motivazione sebbene in forma semplificata.

L’onere motivazionale, espressione del principio di trasparenza, dispiega i propri effetti in una duplice direzione: per un verso, permettere alla pletora dei cittadini di controllare il pubblico agere; per altro verso, permettere al destinatario del provvedimento di comprendere la ragioni in fatto e in diritto che sono poste a fondamento dello stesso e valutare, in caso di lesioni alla propria sfera giuridica, se vi siano vizi di merito o di legittimità per cui impugnare il provvedimento.

Pertanto, il vizio di motivazione si sostanzia nella violazione di legge.

Dunque, non si comprende come, attesa la funzione cui assolve l’onere motivazionale e le uniche ipotesi in cui il legislatore solleva l’Amministrazione dallo stesso, possa accettarsi la facoltà per il soggetto pubblico di graduare l’obbligo motivazionale in presenza di taluni interessi pubblici definiti nel § 1. «sensibili», in ragione della loro pregnanza; soprattutto, laddove quando l’importanza dell’interesse pubblico costituisca il fondamento della teorica circa la doverosità dell’annullamento d’ufficio.

La tesi dell’attenuazione dell’onere motivazionale, secondo chi scrive, può concretamente risolversi in una inaccettabile assenza di trasparenza perché impedisce al destinatario di comprendere il ragionamento logico giuridico posto dal pubblico funzionario alla base della decisione di ritiro; il che si pone in netta antitesi con i principi di correttezza, buona fede e lealtà che devono corroborare integralmente il rapporto amministrativo.

 

CAP. IV – IL LEGITTIMO AFFIDAMENTO QUALE LIMITE ALL’AUTOTUTELA DELLA P.A.

 

  1. Il principio del legittimo affidamento nell’ordinamento giuridico nazionale e sovranazionale

L’affidamento legittimo del privato impone alla Pubblica Amministrazione, nell’esercizio dei poteri di secondo grado, di tenere in debita considerazione l’interesse del cittadino alla conservazione di un determinato vantaggio, bene od utilità, conseguito in buona fede, in virtù di un previo chiaro atto dell’Amministrazione allo scopo diretto; tanto più, allorquando l’utilità o il vantaggio si sono consolidati per effetto del decorso di un ampio lasso temporale[127].

Le origini di tale istituto sono rinvenibili già agli albori del diritto romano ed in particolare nell’exceptio doli; tale rimedio è introdotto nel processo formulare romano e trova applicazione a fronte di un’azione che, seppur conforme al diritto, risultava lesiva degli affidamenti ingenerati. Nella tradizione di diritto romano diverse erano le applicazioni dell’eccezione in commento, cui facevano ricorso le parti di un rapporto negoziale la cui cd. bona fides era lesa.

La nozione di legittimo affidamento quale principio di derivazione europeistica non è espressamente contemplata nei Trattati dell’U.E., il suo riconoscimento come principio cardine del diritto europeo è dovuto all’attività di interpretazione della Corte di Giustizia[128], la quale ha statuito che il principio della tutela del legittimo affidamento fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario e la sua inosservanza costituirebbe violazione del Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione[129]; qualche anno più tardi, aggiunge che il principio della tutela del legittimo affidamento rientra fra i principi fondamentali dell’Unione[130].

L’elaborazione dei Giudici del Lussemburgo è ispirata alla dottrina e alla giurisprudenza tedesche che, sin dagli inizi del Novecento, hanno riconosciuto la necessità di assicurare tutela al legittimo affidamento del cittadino anche nei rapporti con la Pubblica Amministrazione; non solo, hanno desunto il principio in commento dal principio della certezza del diritto. Invero, la Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca ha considerato il principio della certezza del diritto immanente allo Stato di diritto, ragion per cui merita tutela l’affidamento riposto dal cittadino nel permanere di un determinato assetto vantaggioso. A tal proposito, il Giudice europeo di ultima istanza ha precisato come il canone della certezza del diritto impone che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti[131].

Nell’ordinamento unionale il principio del legittimo affidamento si palesa non solo come regola di carattere attizio[132] strumentale a limitare il potere amministrativo di disconoscere i vantaggi riconosciuti con pregressi atti, ma anche come principio informatore dei comportamenti del soggetto pubblico; ne consegue, dunque, che la violazione da parte dell’Amministrazione del divieto di condotte auto-contraddittorie costituisce uno dei presupposti fondamentali del legittimo affidamento[133].

Così configurato, il principio del legittimo affidamento costituisce il precipitato non solo della certezza del diritto, ma anche del principio di legalità; in questa veste, inferisce tanto alla dimensione oggettiva della legalità e della certezza del diritto, quanto alla dimensione soggettiva essendo posto a tutela di diritti fondamentali.

Nella dimensione europea, il principio della tutela del legittimo affidamento, investe i provvedimenti amministrativi, gli atti legislativi, i rapporti tra Stati membri, tra questi ultimi e le Istituzioni comunitarie, tra cittadini e Istituzioni europee.

Negli altri ordinamenti nazionali, diversi da quello tedesco, la tutela del legittimo affidamento è corollario del principio di buona fede che è espressione del brocardo «non venire contra factum proprium», ossia, non contraddizione tra l’atto e il proprio precedente comportamento. Nell’ordinamento inglese, il legittimo affidamento ha trovato sostanza nell’«estoppel» per cui il soggetto che con i suoi comportamenti ha indotto la controparte in errore, non può agire in giudizio contraddicendo l’affidamento che egli stesso ha generato, laddove ciò conduca ad un risultato contrario a giustizia ed equità[134].

Nel diritto amministrativo italiano l’emersione del principio del legittimo affidamento come principio di regolazione dell’azione amministrativa, nasce in via spontanea negli anni ʻ50 per mano della giurisprudenza amministrativa, ben prima che di tale fenomeno fosse compiuta una ricostruzione teorica.

Agli anni ʻ70 risalgono i primi studi di razionalizzazione della materia e un importante contributo della dottrina[135], ricollegò la tutela dell’affidamento, anche quella di stampo amministrativo, alla nozione di buona fede oggettiva; fino a quel momento, buona parte della dottrina, tra cui il Guicciardi, si mostrava restia ad ammettere che la buona fede oggettiva potesse trovare margini di operatività anche nei confronti del potere amministrativo, sostenendo che l’interesse pubblico assorbirebbe la funzione della buona fede e, in ogni caso, che il principio di buona fede si applicherebbe soltanto ai rapporti paritari.

La clausola generale della buona fede, cui è ricondotto il legittimo affidamento, consta di due accezioni: in senso soggettivo si sostanzia nell’ignoranza di ledere il diritto altrui; in senso oggettivo si risolve nell’insieme di regole che concorrono ad assicurare il canone della correttezza posto a fondamento di ogni rapporto giuridico.

Posto che l’affidamento trae senz’altro origine dal Codice Civile[136], nel tempo ha assunto la veste di convitato di ogni rapporto giuridico, finanche nei rapporti tra privato e P.A.; in altre parole, il legittimo affidamento nell’ordinamento nazionale rafforza l’idea di diritto amministrativo paritario che presuppone un paradigma di Amministrazione Pubblica coerente con i principi di correttezza e buona amministrazione, ex art. 97 Cost., così che cittadino e soggetto pubblico sono sullo stesso piano[137].

Conclusivamente, sia consentita una notazione sui tre «cromosomi» di cui consta l’affidamento legittimo e ragionevole: elemento oggettivo; elemento soggettivo; elemento cronologico. Quanto all’elemento oggettivo, affinchè possa essere ingenerato un ragionevole affidamento nel privato è necessario che il vantaggio che questi difende sia chiaro e sia stato generato da un comportamento attivo dell’Amministrazione, che si sostanzia in un provvedimento espresso ed efficace; non assumono rilevanza né meri facta concludentia né atti endoprocedimentali. Con riferimento, invece, all’elemento soggettivo, affinchè vi sia affidamento legittimo è necessario che l’interessato abbia agito in buona fede; non dà luogo a legittimo affidamento il contegno del cittadino che si risolve nella mala fede, ossia, nella condotta protesa ad ottenere con dolo [si pensi all’ipotesi delle false informazioni o delle false rappresentazioni] ovvero colpa grave il bene della vita. Quanto all’elemento cronologico, siccome tanto il diritto comunitario quanto l’ordinamento nazionale percepiscono la centralità del fluire del tempo, il decorso del tempo, per un verso, rafforza l’idea della spettanza del bene della vita, per altro verso, limita e condiziona il potere di ritiro in quanto, non escludendo tale potere, richiede, proporzionalmente all’affidamento del privato, l’emersione di un interesse pubblico correlativamente più spesso[138].

 

  1. Natura giuridica del legittimo affidamento: diritto soggettivo, interesse legittimo o soluzione della terza via?

Particolarmente dibattuta in seno alla giurisprudenza, tant’è vero che si registrano posizioni diametralmente opposte tra Corte di Cassazione e Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, è la natura giuridica del legittimo affidamento.

In proposito, si devono prendere le mosse dalle tre ordinanze «gemelle» pronunciate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 23 maggio 2011, nn. 6594 – 6595 – 6596, con cui si ammette la configurabilità della responsabilità dell’Amministrazione, anche al di fuori dell’attività contrattuale conclusa dalla stessa, in ragione dell’annullamento, in via giurisdizionale o in via di autotutela, di un provvedimento favorevole al destinatario.

Alla base delle suddette tre pronunce vi era, in sostanza, la considerazione che i privati che avevano instaurato i giudizi in cui le medesime erano state emesse non mettevano in discussione l’illegittimità degli atti amministrativi, ampliativi della loro sfera giuridica, annullati in via di autotutela o ope judicis, ma lamentavano la lesione del loro affidamento sulla legittimità degli atti annullati che avevano costituito la base delle scelte negoziali o imprenditoriali compiute; l’intervenuto annullamento, stante l’illegittimità del provvedimento favorevole, aveva privato di utilità l’attività negoziale od imprenditoriale posta in essere, venendo così in rilievo le voci tipiche del danno patrimoniale, ossia, il danno emergente e il lucro cessante (mancati guadagni).

Tale ipotesi configurava responsabilità del soggetto pubblico per comportamento in violazione del diritto soggettivo alla libertà di autodeterminazione negoziale[139]; il legittimo affidamento, pertanto, viene configurato non come interesse legittimo, bensì come diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità patrimoniale e, quindi, alla libertà di autodeterminazione negoziale.

Il dibattito sul tema non si è affatto sopito, attesa la rilevanza dello stesso anche in relazione all’individuazione del Giudice titolare della giurisdizione, così che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione vi tornano nuovamente con l’Ordinanza del 28 aprile 2020, n. 8236, statuendo che, sebbene l’interesse legittimo consiste nella pretesa ad un provvedimento favorevole che derivi dall’attività legittima dell’Amministrazione, il danno lamentato dal privato non è stato causato dall’atto favorevole illegittimo poiché  l’atto, ancorchè illegittimo, essendo favorevole gli ha permesso di conseguire il bene della vita e, pertanto, non gli ha prodotto alcun danno. Ne consegue che la fattispecie causativa del danno non consiste nella lesione dell’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, bensì nella lesione dell’affidamento che costui ha riposto nella legittimità del provvedimento che gli ha attribuito il bene della vita.

Id est la lesione discende non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’Amministrazione; regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità.

Aggiunge, il supremo consesso, che non sussiste alcun collegamento, nemmeno mediato, tra il comportamento dell’Amministrazione e l’esercizio del potere; il comportamento si colloca in una dimensione relazionale complessiva tra soggetto pubblico e privato, nel cui ambito un atto provvedimentale di esercizio del potere amministrativo potrebbe mancare del tutto o essere legittimo.

L’elaborazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, operata con l’Ordinanza testè citata, conduce all’emersione di una nuova definizione di affidamento quale situazione autonoma, tutelata in sé, e non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica, che si sostanzia nella fiducia, nella delusione della fiducia e nel danno subìto a causa della condotta dettata dalla fiducia mal riposta; si tratta, in sostanza, di un’aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento del soggetto pubblico fondata sulla buone fede.

Deve aderirsi alla tesi di autorevole dottrina che configura il legittimo affidamento quale tertium genus che non ha nulla da dividere e con l’interesse legittimo, in quanto non è correlato se non in via indiretta ed eventuale al mancato o cattivo uso del potere, e col diritto soggettivo all’integrità del patrimonio, posto che il patrimonio è costituito dall’insieme di situazioni giuridiche di valore economico che non hanno consistenza autonoma[140].

L’orientamento fin qui tratteggiato è stato criticato da parte della dottrina sul rilievo che la lesione dell’affidamento causata da una attività provvedimentale estrinsecatasi in un provvedimento amministrativo poi caducato perché illegittimo sarebbe pur sempre una lesione causata dal cattivo esercizio del potere amministrativo; cosicché la situazione soggettiva lesa da tale cattivo esercizio non potrebbe che essere quella stessa situazione che fronteggia il potere, vale a dire l’interesse legittimo[141].

La posizione su cui si è attestata la dottrina è stata condivisa in toto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che con sentenza del 29 novembre 2021, n. 20, operando il richiamo al comma II-bis, art. 1, L. n. 241/1990, statuisce che la mancata osservanza del dovere di correttezza da parte dell’Amministrazione in violazione del principio di affidamento può determinare una lesione della situazione soggettiva del privato che afferisce pur sempre all’esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell’esercizio di quel potere, e la cui natura quindi resta qualificata dall’inerenza al pubblico potere; di talchè, conclude, si è pur sempre di fronte ad aspettative correlate ad interessi legittimi concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo.

La ricostruzione della natura giuridica del legittimo affidamento, operata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è stata ribadita in pronunce successive[142] e costituisce un novum nella dimensione dei comportamenti della P.A..

 

  1. Il legittimo affidamento quale limite all’esercizio dell’autotutela

Alla positivizzazione del legittimo affidamento nella Legge n. 241/1990 si assiste mediante l’introduzione del Capo IV-bis, rubricato «Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso», ad opera della Legge n. 15/2005; successivamente, la Legge n. 124/2015, intervenendo sui presupposti del potere di autotutela, ha previsto che deve essere sempre considerato l’affidamento del privato ingenerato da un provvedimento di primo grado ampliativo della sfera giuridica; da ultimo, deve darsi atto dell’introduzione del comma II-bis all’art. 1, L. n. 241/1990, inserito dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella Legge 11 settembre 2020, n. 120, che prevede espressamente che i principi della collaborazione e della buona fede siano posti a fondamento dei rapporti tra il cittadino e la Pubblica Amministrazione.

Dunque, la positivizzazione delle disposizioni sull’autotutela decisoria ha comportato l’introduzione nell’ordinamento nazionale, nonché la specificazione rispetto alle regole civilistiche, del principio della tutela dell’affidamento con funzione limitante rispetto all’agere amministrativo.

Invero, nella Legge 7 agosto 1990, n. 241, si rinvengono diverse disposizioni[143] a presidio del legittimo affidamento che attribuiscono a tale istituto la funzione di garanzia del privato, così da bilanciare il comportamento dell’Amministrazione fino al punto di limitarne i poteri di autotutela decisoria

Di particolare interesse si rivelano le disposizioni in materia di autotutela decisoria che, recependo gli orientamenti ormai invalsi nella giurisprudenza, hanno valorizzato l’affidamento legittimo e ragionevole del privato.

Principiando dall’art. 21-quinquies, rileva la previsione della tutela indennitaria il cui fondamento è costituito proprio dal legittimo affidamento; la prospettazione di un ristoro indennitario non assume valore escludente rispetto all’esercizio del potere di revoca, piuttosto riconoscendo una forma di ristoro per il privato inciso dall’esercizio di tale potere.

In altre parole, l’indennizzo è espressione di una specifica scelta di politica legislativa attraverso cui l’affidamento del privato è tutelato non solo in ipotesi di provvedimenti illegittimi, di cui si tratterà a breve, ma anche nell’ipotesi di provvedimenti che, pur essendo legittimi, si rivelano inopportuni nel merito o perché l’inopportunità è sopravvenuta ovvero perché l’inopportunità sussisteva ab origine e, pertanto, debbano essere revocati per superiori ragioni di interesse pubblico.

Quanto all’art. 21-nonies, in materia di annullamento d’ufficio, l’affidamento del privato è presidiato dalla previsione, seppur limitatamente ad una precisa categoria di provvedimenti, di un rigido termine temporale trascorso il quale l’affidamento prevale; d’altronde, la prevalenza dell’affidamento sussiste anche a fronte di quella incolore locuzione «termine ragionevole» che non è sufficiente a giustificare l’esercizio del potere di ritiro a distanza di considerevole lasso temporale da quando l’Amministrazione lo ha adottato o è venuta a conoscenza dei vizi di legittimità.

Ma v’è di più.

La formulazione dell’art. 21-nonies appresta tutela all’affidamento non solo dell’interessato destinatario del provvedimento, ma anche dei controinteressati nella misura in cui impone, nell’esercizio del potere di annullamento, di tenere in debita considerazione gli interessi di questi ultimi.

Dunque, nelle ipotesi di annullamento d’ufficio, il tempo garantisce e salvaguarda l’affidamento precludendo l’esercizio del potere di ritiro, mentre, nelle ipotesi di revoca, il tempo non esclude l’esercizio del potere di ritiro, costituendo al più parametro da considerare ai fini della determinazione dell’entità dell’indennizzo.

Avvertita dottrina ha evidenziato come il legittimo affidamento rinviene la propria base fondativa nella buona fede in senso oggettivo, ossia, quale obbligo di non contraddizione[144].

Conclusivamente, ampliando l’orizzonte visivo deve osservarsi come il legittimo affidamento, sebbene sia stato positivizzato piuttosto recentemente nel nostro ordinamento[145], costituisce un’entità per così dire impalpabile immanente a tutti i rapporti giuridici, tanto tra privati quanto tra questi ultimi e l’Amministrazione; nell’ambito dei rapporti tra cittadino e soggetto pubblico, l’affidamento informa l’intero procedimento amministrativo se si pensa ai vari istituti che nel tempo hanno integrato la disciplina iniziale della Legge n. 241/1990 [a titolo esemplificativo si pensi agli istituti partecipativi, agli obblighi relativi agli stessi e all’osservanza dei termini temporali]. Se è vero come è vero che il procedimento amministrativo riprende lo schema del processo, allora forse si potrebbe affermare che il legittimo affidamento è principio generale dell’ordinamento che potrebbe spiegare la propria efficacia non solo nella dimensione procedimentale/rapporto con a P.A., ma anche in ambito giurisdizionale e, quindi, affidamento della parte processuale nell’imparzialità, terzietà, indipendenza del Giudice e nella corretta applicazione della legge da questi operata.  

 

  1. Interesse pubblico vs. legittimo affidamento: quid all’esito della cd. «prova di resistenza»?

La ricerca di un equilibrio tra l’interesse pubblico e la tutela del legittimo affidamento costituisce senz’altro il nodo gordiano delle decisioni inferenti l’esercizio legittimo del potere di autotutela decisoria.

Il diritto unionale, attesa la produzione giurisprudenziale della C.G.U.E., nel rapporto tra interesse pubblico e legittimo affidamento, si mostra favorevole alla prevalenza del secondo sul primo; di talchè, se normalmente l’interesse pubblico alla legalità dei provvedimenti amministrativi si palesa come interesse superiore, sono ammesse delle eccezioni allorquando l’annullamento del provvedimento, atteso che l’ordinamento U.E. non conosce l’istituto della revoca, si risolve in un ingiusto sacrificio della sfera giuridica del privato. Il che sta a significare che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, l’ammissibilità del potere di ritiro [ergo annullamento] deve essere vagliata caso per caso, tenendo in debita considerazione: gli interessi privati delle parti coinvolte; il carattere del provvedimento amministrativo oggetto del riesame in relazione al suo contenuto; le ragioni che spingono all’eliminazione dell’atto; l’obiettivo che s’intende raggiungere con la sua abrogazione ex tunc[146].

Si è detto nel § 1. che la configurazione del legittimo affidamento nell’ordinamento europeo è di chiara ispirazione tedesca e, infatti, in quest’ultimo ordinamento, sulla configurazione del legittimo affidamento quale corollario dei principi di certezza del diritto e di legalità è imperniata la distinzione tra provvedimenti favorevoli e sfavorevoli ed è, altresì, delineata la portata dell’autotutela decisoria.

Analogamente, nell’ambito dell’ordinamento europeo, come si è anticipato nel Cap. II § 4., il Codice ReNEUAL conosce la distinzione tra provvedimenti favorevoli e sfavorevoli, nonché, all’interno di questa categoria, distingue tra provvedimenti legittimi e illegittimi.

Ne consegue che a fronte di un provvedimento sfavorevole sia esso illegittimo o legittimo, atteso che alcun affidamento può aver maturato il privato in considerazione della natura restrittiva del medesimo, l’interesse pubblico prevale sull’affidamento del destinatario e quindi il provvedimento è, a seconda dei casi, revocato o al più rettificato; in questa ipotesi, però, giova evidenziare come l’impostazione codicistica imponga di considerare l’affidamento delle altre parti e dei terzi. Quindi, si può affermare che a fronte di provvedimenti amministrativi sfavorevoli, siano essi legittimi o illegittimi, l’affidamento del privato destinatario è sacrificato a vantaggio dell’interesse pubblico; ciò non toglie che assume, invece, rilevanza l’interesse [ergo l’affidamento] delle altre parti[147] e dei terzi.

Resta salvo che la revoca o rettifica hanno efficacia ex tunc nel caso di provvedimento sfavorevole illegittimo, ovvero, ex nunc nel caso di provvedimento sfavorevole legittimo.

Diverso discorso va fatto se trattasi di provvedimento favorevole: laddove questo sia illegittimo, l’affidamento, sebbene non prevarrà, quantomeno rileverà per graduare l’efficacia della revoca o della rettifica, ossia, se le stesse avranno efficacia ex tunc ex nunc e, comunque, assumerà rilevanza anche l’incidenza del provvedimento revocando ai fini delle determinazioni che il destinatario ha assunto in relazione alle iniziative economiche; laddove, invece, il provvedimento amministrativo favorevole sia legittimo sono previste pregnanti limiti al potere di revoca per cui si assiste ad un generale favor per la prevalenza del legittimo affidamento sull’interesse pubblico. In questa seconda ipotesi, l’impianto codicistico sembra accogliere l’orientamento giurisprudenziale della CGUE contraria all’annullamento [rectius revoca nel linguaggio europeo] di provvedimenti favorevoli legittimi. Non solo, altra evidenza della propensione alla tutela del legittimo affidamento la si evince dalla previsione di un termine temporale a pena di decadenza per l’annullamento di provvedimenti favorevoli legittimi: entro un termine ragionevole e non oltre la scadenza del termine di impugnazione giurisdizionale; trascorso tale termine, solo se si avverano le condizioni previste nell’art. III-36, la P.A, conserva la titolarità del potere di revoca.

Deve, peraltro, richiamarsi la Risoluzione del Parlamento europeo del gennaio 2013 recante raccomandazione alla Commissione di elaborare una proposta di regolamento che disciplinasse il procedimento amministrativo europeo; a fronte dell’inerzia della Commissione, il Parlamento il 9 giugno 2016 ha approvato una proposta di regolamento da sottoporre alla Commissione.

La proposta di regolamento, al pari del Codice ReNEUAL, distingue tra provvedimenti favorevoli e sfavorevoli, nonché tra provvedimenti legittimi ed illegittimi. Altresì, prevede l’esercizio della revoca non più come facoltativa ma come obbligatoria e, per quel che interessa in questa sede, non configura l’affidamento legittimo del privato come limite all’esercizio dell’autotutela. L’affidamento legittimo si sostanzia in un obbligo di motivazione rafforzata di cui deve dare ragione l’Amministrazione in caso di esercizio del potere di revoca; id est quest’ultimo non può prevalere sul potere di revoca. Nella disciplina apprestata dal Parlamento europeo, non v’è traccia dell’interesse pubblico. Il legittimo affidamento, nel caso di provvedimento favorevole illegittimo, fa sì che la revoca abbia efficacia ex nunc per il destinatario e se questi, confidando nella legittimità del provvedimento, ha assunto iniziative economiche ha diritto ad essere risarcito[148].

A tutt’oggi tale regolamento non ha visto la luce.

Venendo alla dimensione nazionale deve rilevarsi come è sconosciuta l’articolazione recata dal codice europeo e dalla proposta di regolamento; per quanto possa apparire complessa la distinzione tra provvedimenti favorevoli e sfavorevoli e, all’interno di questa categoria, tra provvedimenti legittimi ed illegittimi, di fatto semplifica il rapporto tra interesse pubblico e affidamento.

Diversamente, l’art. 21-nonies, riferendosi al contemperamento tra non meglio precisate «ragioni di interesse pubblico» all’annullamento e interessi privati, ha favorito, nel silenzio della legge, l’elaborazione giurisprudenziale che, per un verso, agli interessi privati ha ricondotto il legittimo affidamento, mentre, per altro verso, circa le ragioni di interesse pubblico all’annullamento si è concentrata nella ricerca di un interesse ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità violata.

Infatti, i Giudici amministrativi, avendo individuato ipotesi in cui l’interesse pubblico ulteriore è in re ipsa all’annullamento perché coincidente con quello per cui era stato adottato il provvedimento amministrativo di primo grado, così che l’annullamento è configurato come doveroso, hanno sancito la prevalenza dell’interesse pubblico sul legittimo affidamento.

Quanto, invece, alla revoca, ex art. 21-quinquies, deve osservarsi come, diversamente alla revoca di provvedimenti favorevoli legittimi di cui all’ordinamento europeo e a cui corrisponde, l’affidamento legittimo è esposto ad una maggiore compressione essendo ammessa la revoca jus poenitendi, ossia, revoca del provvedimento di primo grado per una nuova valutazione dell’interesse pubblico; quest’ultimo, dunque, prevale sul legittimo affidamento in ragione dell’ampia discrezionalità riconosciuta alla P.A..

Alla revoca di provvedimenti favorevoli legittimi nell’ordinamento unionale, invece, è sconosciuta la revoca jus poenitendi con conseguente maggiore tutela dell’affidamento del privato.

Senza dubbio l’intervento del legislatore operato mediante la L. n. 164/2014 ha sicuramente rilievo ai fini della tutela del legittimo affidamento, avendo ridimensionato i presupposti della revoca fino ad escludere la revoca jus poenitendi nel caso di provvedimenti autorizzativi o attributivi di vantaggi economici, ma ha mancato di prevedere un termine temporale entro cui esercitare la revoca, a differenza di quanto accade per la revoca di provvedimenti favorevoli legittimi nell’ordinamento europeo.

Conclusivamente, sull’esempio del modello di autotutela accolto nel diritto unionale, a parere di chi scrive, una maggiore tutela dell’affidamento legittimo nella disciplina interna dell’autotutela decisoria potrebbe essere assicurata mediante: l’eliminazione delle sacche di incertezza determinate da imprecisate «ragioni di interesse pubblico» che giustificano l’annullamento d’ufficio; la procedimentalizzazione dell’annullamento ammettendo la possibilità di attivazione del procedimento di secondo grado in ragione della proposizione della relativa istanza da parte del privato il cui affidamento è stato leso; una nuova riflessione sull’attualità della revoca jus poenitendi che è idonea a incidere in maniera pregnante l’affidamento del privato; definizione di un termine temporale decadenziale entro cui esercitare sia l’annullamento che la revoca perché, come dimostra l’elaborazione giurisprudenziale prevalente, il decorso del tempo favorisce il consolidamento del legittimo affidamento.

 

CAP. V – I RIMEDI ESPERIBILI NEI CONFRONTI DELLA P.A., A TUTELA DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO, AVVERSO L’AUTOTUTELA

 

  1. Natura della responsabilità della P.A. per lesione del legittimo affidamento

La mancata osservanza, da parte dell’Amministrazione in violazione del principio di affidamento, dei doveri di correttezza e buona fede, da cui possono sorgere aspettative che per il privato si indirizzano all’utilità derivante dall’atto finale del procedimento, determina una lesione della situazione soggettiva di quest’ultimo che afferisce pur sempre all’esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell’esercizio di quel potere; di talchè, la frustrazione delle aspettative del privato può costituire per l’Amministrazione fonte di responsabilità.

Orbene, la responsabilità dell’Amministrazione per illegittimo esercizio della funzione autoritativa costituisce da qualche decennio il terreno su cui si staglia un interessante duello che vede protagoniste le Sezioni Unite della Corte di Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, circa la natura di tale responsabilità.

Prima di proseguire oltre, però, è doverosa una premessa: il primo referente normativo in materia lo si rinviene nell’art. 28 della Costituzione che recita testualmente «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.»; emerge ictu oculi come la responsabilità della P.A. abbia assoluto rilievo nella carta costituzionale, essendo collocata nella parte I, titolo I, rubricata “Diritti e doveri dei cittadini”. Analogamente, sul piano europeo, nell’art. 340 TFUE si prevede che «l’Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni…».

L’individuazione di una responsabilità a carico dell’Amministrazione muove da una nuova visione del rapporto tra soggetto pubblico e soggetto privato poiché vi è una progressiva e crescente considerazione della tutela delle situazioni giuridiche di cui il titolare è appunto il soggetto privato[149].

In seno alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione si è sviluppato l’orientamento che qualifica la responsabilità della P.A. nell’esercizio del potere autoritativo come «responsabilità da contatto sociale qualificato». In proposito, il Giudice di legittimità ha statuito che da chi esercita una funzione amministrativa, sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento, ex art. 97 Cost., il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo, così che è richiesto un quid pluris rispetto al generale precetto del neminem laedere; si tratta, non della generica «responsabilità del passante», bensì della responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente prima che abbia luogo un danno che consegue non alla violazione di un dovere di prestazione, ma alla violazione di un dovere di protezione, il quale sorge non da un contratto ma dalla relazione che si instaura tra l’amministrazione ed il cittadino nel momento in cui quest’ultimo entra in contatto con la prima. Il contatto sociale [ergo il rapporto] tra soggetto pubblico e soggetto privato deve essere inteso come il fatto idoneo a produrre obbligazioni, in conformità dell’ordinamento giuridico ex art. 1173 cod. civ., dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione, bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 [correttezza], 1176 [diligenza] e 1337 [buona fede] cod. civ.; il contatto sociale, poi, si dice qualificato in ragione dello status della Pubblica Amministrazione quale soggetto tenuto all’osservanza della legge come fonte della legittimità dei propri atti[150].

Deve darsi atto che gli ermellini nella disamina del tema della responsabilità di tipo contrattuale in assenza di contratto hanno, altresì, affermato che l’elemento qualificante della culpa in contrahendo, non è più la colpa, bensì la violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti[151].

A sostegno dell’orientamento testè esplicitato si è affermato che l’instaurazione del procedimento amministrativo implica la nascita, tra privato e Amministrazione, di una relazione qualificata che sarebbe governata non solo dalle norme di diritto pubblico sulla legittimità dell’azione amministrativa e del relativo provvedimento, ma anche dagli obblighi di protezione di cui al diritto privato, ossia, correttezza, buona fede e diligenza, fino a ricomprendere tra di essi anche gli obblighi sanciti dalla Legge n. 241/1990; di talchè, il rapporto procedimentale, in ragione di tali obblighi, sarebbe equiparato ad un rapporto obbligatorio con la conseguenza che l’inadempimento degli stessi configurerebbe responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato pur in assenza di un contratto[152].

Altresì, si è affermato che, sebbene nel procedimento amministrativo manchi un diritto alla prestazione, dallo stesso scaturirebbe il diritto reciproco al comportamento secondo buona fede la cui lesione genera responsabilità[153].

L’orientamento ut supra esposto, circa la qualificazione della responsabilità dell’Amministrazione quale «responsabilità da contatto sociale qualificato», in realtà non ha trovato largo consenso né tra la giurisprudenza amministrativa e di legittimità, né tra la dottrina.

Anzitutto, deve osservarsi come la teorica della «responsabilità da contatto sociale qualificato» si fondi su di una inaccettabile divisione tra norme di diritto pubblico, dalla cui violazione origina l’illegittimità del provvedimento, e norme di diritto privato, la cui violazione si risolve nella illiceità del comportamento.

All’uopo, autorevole dottrina ha osservato come, sebbene siano nate nel diritto civile, correttezza e buona fede sono state positivizzate anche nel diritto pubblico per cui regolano il procedimento amministrativo per espressa previsione normativa; di talchè, appare anacronistico affermare ancor oggi che le regole di comportamento appartengano al solo diritto privato. Anzi, correttezza e buona fede, costituendo i referenti normativi dell’esercizio del potere, hanno assunto natura di diritto pubblico[154].

Non solo, l’attività amministrativa per sua natura è incompatibile con l’obbligatorietà della prestazione, propria delle obbligazioni.

Invero, il modello del contatto sociale richiede che le parti del rapporto obbligatorio siano collocate su un piano di perfetta parità, il che è escluso nell’ambito dei rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione che, invece, sono caratterizzati dalla superiorità dell’Amministrazione; il carattere discrezionale dell’azione amministrativa, in specie dell’autotutela decisoria al punto da ledere l’affidamento legittimo, non è in alcun modo conciliabile con il dovere di protezione[155].

A ciò si aggiunga che l’elemento «sociale», presupposto fondamentale per ricondurre la relativa responsabilità nell’ambito degli artt. 1218 ss. cod. civ., non pertiene affatto al rapporto tra soggetto pubblico e soggetto privato; mentre nella relazione privatistica le parti del contatto sociale sono alla ricerca di un reciproco beneficio, nella relazione tra P.A. e cittadino, quest’ultimo può vedere soddisfatto il proprio interesse solo per il tramite dell’unica P.A. per legge legittimata a soddisfarlo. Da par suo, il soggetto pubblico non può esimersi dal compimento delle azioni doverose[156].

In realtà, sin dalla storica sentenza Cass. civ., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 500, l’orientamento prevalente nella giurisprudenza è favorevole alla tesi della responsabilità extracontrattuale, ossia, responsabilità da fatto illecito, ex art. 2043 cod. civ..

La relazione giuridica che si instaura tra il privato e l’Amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse legittimo del privato e il potere dell’Amministrazione nell’esercizio della sua funzione. In questo caso è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’Amministrazione, rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato, bensì un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza. In un’organizzazione dei pubblici poteri improntata al buon andamento, in cui si afferma il modello dell’«Amministrazione di prestazione», quest’ultima mantiene rispetto al privato la posizione di supremazia necessaria a perseguire «i fini determinati dalla legge», con atti di carattere autoritativo in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato, così che non v’è spazio per assimilare la P.A. al «debitore» obbligato per contratto ad «adempiere» in modo esatto nei confronti del privato. Elemento centrale nella responsabilità extracontrattuale è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale. La riconducibilità del danno ingiusto lesivo di interessi legittimi al modello della responsabilità per fatto illecito è retta anche da indici normativi, tra cui vi rientra l’art. 30, comma II, cod. proc. amm. nella misura in cui fa riferimento al danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria[157].

 

  1. Competenza giurisdizionale in materia di legittimo affidamento

La giurisdizione amministrativa rinviene il proprio fondamento costituzionale nella dicotomia diritti soggettivi – interessi legittimi, ex artt. 24 e 113 Cost., alla quale corrisponde un Giudice cui è naturalmente devoluta la cognizione: al Giudice ordinario sui diritti soggettivi e al Giudice amministrativo sugli interessi legittimi, fatte salve le materie di giurisdizione esclusiva, in cui è concentrata presso quest’ultimo la tutela di entrambe le situazioni, poiché nelle «speciali materie», di cui all’art. 103 Cost., queste si presentano inestricabilmente intrecciate[158]. Tale riparto è conseguenza del recepimento nella Carta costituzionale dell’assetto venutosi a determinare nell’ordinamento pre-repubblicano, in cui all’abolizione del contenzioso amministrativo e all’affermazione del principio del Giudice unico, ordinario, in tutte le materie in cui si faceva questione di diritti civili o politici rispetto alle quali vi era interessata l’Amministrazione[159], ha fatto seguito il «recupero» alla giurisdizione degli interessi che, ex art. 3 della Legge di abolizione del contenzioso amministrativo, dapprima furono affidati alla cura esclusiva della Pubblica Amministrazione e poi, con la Legge 31 marzo 1889, n. 5992, rimessi alla IV Sezione del Consiglio di Stato[160], riconosciuto organo giurisdizionale ai sensi della Legge 7 marzo 1907, n. 62.

Dunque, il Giudice amministrativo ha pari dignità rispetto al Giudice ordinario per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive nei confronti dell’Amministrazione Pubblica; espressione di ciò è l’art. 113 Cost. che, considerato una conquista liberale di grande importanza, prevede expressis verbis la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. A ciò si aggiunga che il giudizio amministrativo è idoneo a garantire la tutela di ogni diritto perché, come sancito dall’art. 7 cod. proc. amm., è devoluta al Giudice amministrativo la giurisdizione nelle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti posti in essere da Pubbliche Amministrazioni; il comma 7, della medesima disposizione, positivizza il principio di effettività per cui dinanzi al Giudice amministrativo ha luogo la concentrazione di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi.

Nella dicotomia diritti soggettivi – interessi legittimi, richiamata ut supra in apertura al presente paragrafo, si colloca anche l’affidamento quale principio regolatore di ogni rapporto giuridico, ivi compresi anche quelli di diritto amministrativo; invero, la lesione del legittimo affidamento costituisce argomento particolarmente dibattuto in punto di giurisdizione competente tra Sezioni Unite della Corte di Cassazione e Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

La Suprema Corte riconosce in favore del Giudice ordinario la giurisdizione in tema di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento, causato da una condotta della P.A. contraria ai canoni di correttezza e buona fede poiché trattasi di responsabilità di tipo contrattuale, inquadrabile nello schema della responsabilità da contatto sociale qualificato, intesa come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 cod. civ., e ciò sia nel caso in cui alcun provvedimento amministrativo sia stato emanato, così che il privato abbia riposto il proprio affidamento in un comportamento dell’Amministrazione, sia nel caso in cui il danno derivi da un provvedimento amministrativo emanato e successivamente annullato che era ampliativo della sfera giuridica del privato[161].

Questo orientamento, invero, non può essere accolto anzitutto perché l’affidamento riposto dal privato nell’adozione del provvedimento favorevole o nella stabilità dello stesso corrisponde ad una situazione giuridica soggettiva che si sovrappone a quella avente ad oggetto l’interesse sostanziale, così che nei confronti dell’Amministrazione non può che coincidere con l’interesse legittimo o al più può essere considerata una situazione giuridica soggettiva di natura strumentale; giammai può essere un diritto soggettivo[162].

Non solo, in ragione del principio di effettività testè richiamato, ex art. 7 cod. proc. amm., il Giudice amministrativo che conosce l’atto ampliativo illegittimo a seguito di ricorso proposto dalla parte che ne chiede l’annullamento, dovrebbe essere competente anche a conoscere dell’azione risarcitoria promossa dal medesimo ricorrente o da altro controinteressato[163].

Peraltro, il privato non si duole di un mero comportamento della P.A. ma promuove una domanda risarcitoria inferente il danno sofferto in ragione di un’attività amministrativa procedimentalizzata e conclusasi con l’emanazione di un provvedimento: l’annullamento, sia esso giurisdizionale o officioso, è un evento cronologicamente successivo che alcuna rilevanza assume affinchè la situazione giuridica soggettiva possa essere definita come diritto soggettivo[164].

All’uopo, deve osservarsi che la fiducia su cui riposa la relazione giuridica tra amministrazione e privato si riferisce non già ad un comportamento privato o materiale ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale il soggetto pubblico è tenuto ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo.

Al netto delle argomentazioni sin quì esposte deve essere affermata la giurisdizione amministrativa, poiché anche quando il comportamento non si sia manifestato in atti amministrativi, nondimeno l’operato della P.A. costituisce espressione dei poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura. Tale operato è riferibile all’Amministrazione che «agisce in veste di autorità» e si iscrive pertanto nella dinamica potere autoritativo – interesse legittimo, il cui Giudice naturale è, ex art. 103, comma I, Cost., il Giudice amministrativo; tanto, sia che si verta dell’interesse del soggetto leso dal provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il risarcimento del danno alternativamente o cumulativamente all’annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo all’interesse del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento[165].

 

  1. Tutela processuale del legittimo affidamento: il risarcimento del danno

Assodato che la responsabilità in cui incorre l’Amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni pubbliche sia inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito, ivi compresa l’ipotesi in cui v’è lesione del legittimo affidamento, resta da indagare quali siano i mezzi che l’ordinamento giuridico appresta a tutela dell’affidamento del privato.

Si è detto ut supra come la relazione giuridica che si instaura tra il soggetto privato e il soggetto pubblico è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse legittimo del privato e il potere dell’Amministrazione nell’esercizio della sua funzione; di talchè, a tacer d’altro, la relazione tra privato e Pubblica Amministrazione è caratterizzata in termini di «supremazia» della seconda sul primo.

In un simile contesto lo strumento di tutela elettivo e di carattere generale per l’interesse legittimo è quello dell’azione costitutiva di annullamento dell’atto amministrativo, cui si aggiunge la tutela risarcitoria, ammessa anche nei confronti del potere pubblico, secondo quanto disposto dal Codice del processo amministrativo; come ha rilevato la migliore dottrina[166], risulta superata la teorica elaborata dai Giudici amministrativi sulla cd. pregiudiziale di annullamento, per cui oggi l’azione risarcitoria è autonoma non richiedendo quale presupposto il previo esperimento dell’azione di annullamento.

In particolare, è stato introdotto nel diritto pubblico un sistema in cui è devoluto al Giudice amministrativo il potere di condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da illegittimo esercizio del potere pubblico quale «strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio e/o conformativo, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione»[167] e in quanto tale attribuito al «Giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica»[168].

L’assetto della tutela così delineato ha fatto ingresso e trovato definitiva sistemazione nel Codice del processo amministrativo, di cui al D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ove all’art. 7, commi IV e VII, si prevede la devoluzione al Giudice amministrativo delle controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma e la concentrazione presso di esso di ogni forma di tutela degli interessi legittimi.

È così riconosciuta la possibilità di domandare, entro i termini di cui all’art. 30, commi III – IV – V, cod. proc. amm. previsti dal legislatore a pena di decadenza per esigenze di certezza del rapporto giuridico amministrativo, la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.

Orbene, si è detto nel § 1. che elemento centrale nella responsabilità aquiliana è l’ingiustizia del danno; tale requisito, implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Pertanto, solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest’ultimo può fondatamente domandare il risarcimento per equivalente monetario; diversamente, il risarcimento resta escluso quando l’interesse legittimo riceva tutela idonea con l’accoglimento dell’azione di annullamento, ma quest’ultimo sia determinato da una illegittimità, solitamente di carattere formale, da cui non derivi un accertamento di fondatezza della pretesa del privato ma un vincolo per l’Amministrazione a rideterminarsi, senza esaurimento della discrezionalità ad essa spettante[169].

L’art. 30, comma III, cod. proc. amm. prescrive sia che nel determinare il risarcimento il Giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti, sia che è escluso il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti; tale inciso, fa sì che, nel settore della responsabilità della P.A. da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi, a carico del privato è posto un onere di ordinaria diligenza di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi il perimetro del danno risarcibile. Invero, l’art. 30, comma III, cod. proc. amm. fa il paio con l’art. 1227, comma II, cod. civ. laddove impone di valutare il comportamento del creditore circa l’evitabilità del danno ed esclude il risarcimento qualora il creditore abbia omesso di adoperare l’ordinaria diligenza.

Con riferimento alla individuazione e determinazione del quantum del risarcimento deve escludersi che possa operare il limite, ex art. 1225 cod. civ., rappresentato dalla sua prevedibilità; tale limite, piuttosto, opera rispetto alla responsabilità da inadempimento di cui all’art. 1218 cod. civ..

Assume, invece, un ruolo centrale l’art. 1223 cod. civ., richiamato dall’art. 2056 cod. civ., secondo cui il risarcimento comprende tanto il danno emergente [ergo la perdita subita], quanto il lucro cessante [ergo il mancato guadagno], in quanto siano conseguenza immediata e diretta del danno; emerge la funzione della responsabilità civile, ossia, reintegrare la sfera patrimoniale dell’individuo rispetto ad aggressioni esterne[170].

L’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente. A differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica. La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume pertanto la fisionomia di un giudizio di probabilità in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. All’uopo, torna utile il richiamo all’art. 2056, comma II, cod. civ. secondo cui il lucro cessante deve essere valutato dal Giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.

 In questo ambito è sorta la tematica della risarcibilità della chance, considerata ormai, sia dalla giurisprudenza civile sia dalla giurisprudenza amministrativa, una posizione giuridica autonomamente tutelabile, intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole, purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata.

 

  1. Diritto all’indennizzo

Un mezzo di tutela dell’affidamento del privato rispetto alla responsabilità da provvedimento legittimo o da attività lecita della P.A. è sicuramente l’indennizzo di cui all’art. 21-quinquies, Legge n. 241/1990.

In proposito, appare doverosa una precisazione: la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento legittimo o da attività lecita è cosa diversa dalla responsabilità extracontrattuale, meglio nota come responsabilità aquiliana, ex art. 2043 cod. civ.; mentre, la responsabilità civile è caratterizzata dalla sussistenza di dolo o colpa, nella responsabilità discendente da provvedimento legittimo, invece, l’indagine sull’elemento soggettivo si rivela ultronea poiché il soggetto pubblico si è reso responsabile di un danno «giusto» ovvero «non ingiusto», meritevole di essere indennizzato per ragioni di giustizia distributiva – riparativa[171].

Viene da chiedersi quando un danno si può definire giusto? Il danno è giusto quando l’interesse privato perisce ad appannaggio dell’interesse pubblico e, quindi, il potere esercitato dalla Pubblica Amministrazione, nel caso sia stato adottato un provvedimento amministrativo, ovvero, l’agere amministrativo, che non si risolve in esercizio del potere stante la mancanza di un provvedimento espresso, siano protesi al raggiungimento del benessere sociale.

Orbene, quanto al presupposto della responsabilità de qua, come si è anticipato più sopra, essa origina da provvedimento legittimo; esempio tipico è la revoca del provvedimento amministrativo, ex art. 21-quinquies L. n. 241/1990.

Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’Amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo; tale previsione, nella prevalenza accordata all’interesse pubblico rispetto a confliggenti posizione private, accorda rilevanza al principio del legittimo affidamento e della certezza dei rapporti giuridici.

In particolare, di fronte ad un atto espressivo di apprezzamenti di carattere ampiamente discrezionale, riconducibile ad una diversa valutazione del medesimo interesse pubblico che aveva originariamente indotto l’amministrazione ad emettere l’atto poi ritirato, qualsiasi affidamento privato è destinato a soccombere, tanto è vero che l’art. 21-quinquies non attribuisce ad esso alcun rilievo impeditivo all’esercizio del relativo potere, diversamente da quanto previsto per l’annullamento d’ufficio dal successivo art. 21-nonies. La prima delle norme della Legge generale sul procedimento amministrativo tutela, infatti, il contrapposto interesse unicamente sul piano patrimoniale, attraverso l’indennizzo e dunque mediante un ristoro pecuniario conseguente ad un atto lecito ma pregiudizievole per i contrapposti interessi privati[172].

La misura di tale indennizzo è stata definita dallo stesso legislatore che ha parametrato detta misura al solo danno emergente, tenendo conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.

È appena il caso di evidenziare brevemente la differenza, sia sul piano della causa petendi che del petitum, tra indennizzo e risarcimento.

La causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere l’indennizzo, deve essere ravvisata nella legittimità dell’atto adottato dalla P.A., ovvero, nella liceità della condotta da questa tenuta e che ha causato il pregiudizio, cui consegue un incompleto ristoro contemplato di volta in volta dal legislatore; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell’atto produttivo del danno ingiusto, cui consegue un generalizzato obbligo di integrale ripristino dello status quo ante in forma specifica o per equivalente monetario, che tenga indenne il danneggiato dell’intero spettro di pregiudizi subiti.

Quanto al petitum, nel giudizio per responsabilità da atti legittimi o comportamenti leciti, esso è limitato al pregiudizio immediatamente subito, ed è quindi limitato al cd. danno emergente, mentre nel giudizio risarcitorio esso si estende, fermi i necessari presupposti probatori, a tutto il pregiudizio [comprensivo del danno emergente e lucro cessante], conseguente all’illegittima violazione della sfera giuridico – patrimoniale del soggetto leso.

Non solo, l’attribuzione dell’indennizzo a favore del soggetto che direttamente subisce il pregiudizio, presuppone la legittimità del provvedimento di revoca, atteso che in caso di revoca illegittima subentra eventualmente, sussistendone gli ulteriori presupposti, la diversa ipotesi del risarcimento del danno[173].

Ciò nonostante, deve condividersi quella dottrina secondo cui la disciplina dell’indennizzo si presta ad alcuni rilievi critici.

Anzitutto, limitare l’indennizzo solo ai casi di revoca incidente su rapporti negoziali opera un discrimen di cui non si comprende quale sia la ratio, laddove tale misura indennitaria non sia prevista per tutti coloro che siano attinti da provvedimenti di revoca; in secondo luogo ma non affatto meno importante, appare arduo apprezzare la conoscenza od eventuale conoscibilità da parte del privato di vizi di merito del provvedimento, non potendosi pretendere che questi curi, oltre i propri interessi, anche quelli dell’Amministrazione e/o dei terzi. In altre parole, il privato dovrebbe assolvere al ruolo di vero e proprio organo di controllo esterno dell’azione del soggetto pubblico; al privato, al contrario, preme vedere soddisfatto il proprio interesse finanche laddove l’Amministrazione cada in errore adottando un provvedimento contrario all’interesse pubblico, sebbene l’agire del primo dovrebbe essere ispirato da correttezza e buona fede[174].

Da ultimo, destinatari dell’indennizzo possono essere solamente i «soggetti direttamente interessati», intendendosi come tali solamente i destinatari del provvedimento di revoca con esclusione di tutti gli ulteriori soggetti che dal provvedimento abbiano tratto beneficio indirettamente[175].

Conclusivamente, in presenza di un danno «non ingiusto» cagionato da provvedimento amministrativo legittimo o da attività lecita della P.A., il privato può accedere alla tutela indennitaria al ricorrere dei seguenti presupposti: I) il sacrificio dell’interesse privato è imposto per ragioni di utilità sociale; II) il sacrificio sofferto dal cittadino deve essere positivizzato in una disposizione legislativa; III) il provvedimento legittimo o l’azione amministrativa lecita devono comportare il sacrificio di una situazione giuridica soggettiva costituzionalmente riconosciuta.

Da par suo, il principio di giustizia distributiva – riparativa spiega la ratio dell’indennizzo, ossia, l’onere strumentale alla produzione di una utilità socia deve essere proporzionalmente ripartito tra tutti i consociati[176].

 

CAP. VI – CASI CONCRETI E QUESTIONI APERTE

 

  1. Autotutela e silenzio assenso della P.A.

Una delle questioni di particolare interesse per lo studio dell’autotutela, su cui si rilevano diverse pronunce della giurisprudenza amministrativa che in qualche caso hanno comportato una revisione dei precedenti orientamenti, investe la possibilità e i limiti con cui esercitare il potere di autotutela rispetto al provvedimento amministrativo formatosi a seguito del silenzio assenso della Pubblica Amministrazione; in particolare, costituiranno oggetto della presente disamina le fattispecie di cui agli artt. 17-bis e 20 della Legge n. 241/1990.

È noto come il silenzio assenso, di là da qualsivoglia digressione sulla natura provvedimentale o meno dello stesso, equivale ad accoglimento dell’istanza, ragion per cui l’Amministrazione risulta legittimata all’esercizio dei poteri di autotutela; a conforto di tale orientamento, possono richiamarsi taluni indici normativi, ossia, l’art. 20, comma III, Legge n. 241/1990, secondo cui l’avvenuta formazione del silenzio assenso implica che il soggetto pubblico, ove intenda assumere nuove determinazioni, dovrà farlo in via di autotutela, ai sensi dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies, dopo aver effettuato le valutazioni di legittimità omesse o non correttamente compiute.

Orbene, con riferimento alla fattispecie ex art. 17-bis, introdotta dalla Legge n. 124/2015, deve anzitutto premettersi che questa disposizione ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico una regola generale che trova applicazione ai rapporti «interni» tra Amministrazioni: trattasi di silenzio assenso endoprocedimentale.

Il che implica che, laddove l’Amministrazione interpellata rimanga silente, tale silenzio non ha effetto preclusivo, consentendo all’Amministrazione procedente di adottare il provvedimento finale.

Quanto, invece, al rapporto tra silenzio assenso di cui all’art. 17-bis e l’autotutela decisoria, si distingue tra due ipotesi: I) fase successiva all’adozione del provvedimento definitivo, formatosi in ragione del silenzio assenso dell’Amministrazione interpellata; II) fase compresa tra la formazione del silenzio assenso e l’adozione del provvedimento finale.

I Giudici di ultima istanza della giustizia amministrativa hanno chiarito che nella prima ipotesi troverà applicazione il principio del contrarius actus, per cui l’esercizio del potere di riesame deve seguire il medesimo procedimento che ha condotto all’adozione del provvedimento che si intende revocare o rimuovere dall’ordinamento giuridico; non solo, ha, altresì, chiarito che l’Amministrazione interpellata, rimasta silente, non potrà limitarsi a rappresentare il proprio sopravvenuto dissenso ma deve sollecitare l’avvio del procedimento di riesame, ad opera dell’Autorità procedente, che avrà luogo secondo la disciplina di cui agli artt. 21-quinquies o 21-nonies.

Nella seconda ipotesi, diversamente, allorquando l’Amministrazione interpellata sia rimasta silente e non sia stato ancora adottato formalmente il provvedimento finale, i Giudici di Palazzo Spada hanno puntualizzato che, attesa la previsione a pena di decadenza legale del termine entro cui il parere deve essere reso noto, l’Amministrazione concertante nei cui confronti si è consolidato il silenzio assenso, trascorso il termine legale, non potrà a posteriori esprimere il proprio dissenso. Da ciò ne consegue che, formatosi il silenzio assenso, l’Amministrazione interpellata potrà al più, in omaggio al principio di collaborazione tra Pubbliche Amministrazioni, segnalare all’Amministrazione procedente le ragioni di opportunità o illegittimità la cui sussistenza preclude l’adozione formale del provvedimento finale; in altre parole, la decisione finale spetterà all’Amministrazione procedente, la quale potrà decidere, assumendo la responsabilità, di ritenere consolidato il silenzio assenso e adottare formalmente comunque il provvedimento finale. Non è prevista, invece, la decadenza dell’Amministrazione concertante dal potere di esprimere il proprio atto di assenso espresso allorquando si sia formato il silenzio assenso[177].

Atteso che l’istituto del silenzio assenso ex art. 17-bis investe la fase decisoria e non istruttoria, nell’ipotesi da ultimo esaminata potrebbe verificarsi una inversione delle parti poiché l’Amministrazione silente potrebbe assumere i panni di Amministrazione procedente e procedere in autotutela; ciò nonostante, in ragione del principio del contrarius actus, dovrà prima ottenere l’assenso dell’Amministrazione che ha adottato il provvedimento viziato di legittimità o di opportunità, la quale da procedente assume i panni di concertante nel procedimento di autotutela[178].

Ad ogni buon fine, si deve aderire a quella dottrina secondo cui nulla osta a che tanto l’Amministrazione procedente, quanto l’Amministrazione che avrebbe dovuto intervenire nel procedimento amministrativo ma che di fatto è rimasta inerte per non aver reso l’atto di assenso o concerto o nulla osta e nei cui confronti si sia consolidato il silenzio assenso, conservano la facoltà di esercitare il potere di autotutela decisoria, allorquando rilevino che il provvedimento finale difetti della necessaria istruttoria[179].

Venendo al silenzio assenso, di cui al successivo art. 20, che si configura nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e privato, deve anzitutto evidenziarsi un revirement circa l’orientamento della giurisprudenza amministrativa sul presupposto necessario per la sua configurabilità.

È noto che il silenzio assenso costituisce uno strumento di semplificazione amministrativa e non di liberalizzazione, per cui esso non si perfeziona con il mero decorrere del tempo, ma richiede la contestuale presenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge per l’attribuzione del bene della vita richiesto.

Pertanto, secondo l’orientamento per lungo tempo prevalente in seno alla giurisprudenza amministrativa, la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio assenso presupponeva, quale sua condizione imprescindibile, non solo il decorso del tempo dalla presentazione della domanda senza che fosse presa in esame e fosse intervenuta risposta dall’Amministrazione, ma la contestuale presenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduceva l’avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si sarebbe formato nel caso in cui la fattispecie rappresentata non fosse conforme a quella normativamente prevista[180].

Sennonchè, recentemente il Giudice di ultima istanza della giustizia amministrativa ha ammesso che, ove sussistono i requisiti di formazione del silenzio assenso, il provvedimento può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge, in quanto reputare che tale istituto sia produttivo di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, significherebbe sottrarre i provvedimenti così formatisi alla disciplina della annullabilità. Infatti, a conforto della configurabilità del silenzio assenso anche in presenta di una istanza del privato contra legem soccorre l’espressa previsione della annullabilità d’ufficio anche nel caso in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’art. 20, L. n. 241/1990.

Dunque, per quel che riguarda il rapporto tra autotutela decisoria e silenzio assenso configuratosi all’esito di una domanda difforme dalla disciplina legale, deve evidenziarsi che, essendo trascorso il termine previsto a pena di decadenza legale entro cui avrebbe dovuto pronunciarsi, così che è esclusa la possibilità di emettere un diniego tardivo, il soggetto pubblico, al ricorrere dei presupposti che legittimano l’annullamento d’ufficio o la revoca, potrà esercitare il potere di autotutela decisoria con cui eliminare dal panorama giuridico il provvedimento implicito di assenso.

Pertanto, anche dopo la decorrenza del termine utile per il formarsi del silenzio assenso permane in capo alla P.A. il potere di provvedere per rimuovere gli effetti del silenzio significativo contrastanti con la normativa di riferimento esercitando il potere di autotutela nei termini previsti dalla legge generale sul procedimento. Ovviamente il provvedimento che rimuove gli effetti ex post non è senza limiti temporali, ma deve essere esercitato entro termini temporali ragionevoli, che siano, cioè, compatibili con il principio eurounitario che tutela la stabilità delle situazioni soggettive consolidate[181].

 

  1. L’autotutela rispetto alla S.C.I.A.

Un modello peculiare di autotutela, ontologicamente diverso dal modello generale di cui all’art. 21-nonies, è senza dubbio recato dall’art. 19, comma IV, Legge 7 agosto 1990, n. 241; anzitutto, illustrando a volo d’angelo quelle che sono le differenze tra i due istituti, l’autotutela di cui all’art. 19 non incide su un precedente provvedimento amministrativo, connotandosi piuttosto per conseguire ad un procedimento di primo e non di secondo grado. Inoltre, mentre di regola il potere di autotutela è ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e pertanto non coercibile, al punto che la P.A. non ha l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio, nel caso di cui all’art. 19, comma IV, della L. n. 241/1990, si ritiene che l’Amministrazione abbia l’obbligo di rispondere, sicché la discrezionalità risulta piuttosto relegata alla verifica in concreto della sussistenza o meno dei presupposti di cui all’articolo 21-novies. Depongono nel senso della doverosità, in deroga al consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile, sia l’argomento letterale – segnatamente, la differente formulazione dell’art. 21-nonies rispetto all’art. 19, comma IV, della Legge n. 241/1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l’Amministrazione «adotta comunque» i provvedimenti repressivi e conformativi ‒, sia la lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo[182].

Operando una breve ricostruzione del quadro normativo, con la Legge n. 80/2005 si assiste ad un progressivo ampliamento dell’ambito di applicazione degli strumenti di liberalizzazione quali la d.i.a./s.c.i.a., cui si accompagna la previsione, ex art. 21 comma II, circa la possibilità di esercitare i poteri di revoca e annullamento d’ufficio di cui agli artt. 21-quinquies e 21-nonies, sebbene fosse nota l’incompatibilità delle determinazioni assunte dalla P.A. in via di autotutela decisoria rispetto alla natura privata di tali strumenti di liberalizzazione.

A fronte di tale stato di fatto, si palesa una crescente preoccupazione dettata, per un verso, dalla necessità di contenere l’abuso del ricorso alla D.I.A./S.C.I.A., nella misura in cui se ne potesse fare un uso contra legem, per altro verso, dall’esposizione sine die, di coloro i quali ne facessero uso in buona fede, alle medesime conseguenze sanzionatorie previste per coloro che avevano agito dolosamente o colposamente in violazione della legge, allorquando in entrambi i casi l’Amministrazione illegittimamente omettesse di esercitare i prescritti poteri inibitori entro limiti di tempo previsti a pena di decadenza legale[183].

Ma v’è di più, ossia, la difficoltà di individuare la regola iuris recante una compiuta tutela del terzo rispetto alla D.I.A./S.C.I.A..

Orbene, mediante l’art. 6, Legge n. 124/2015, il sistema viene ricondotto a coerenza in quanto hanno luogo sia la riforma dei commi III e IV dell’art. 19, laddove si prevede che per le attività intraprese con D.I.A./S.C.I.A. in contrasto con la normativa vigente, allo scadere del termine di sessanta giorni [ergo trenta giorni per la materia edilizia] entro cui esercitare i poteri inibitori e/o repressivi, il soggetto pubblico adotta comunque i medesimi poteri soltanto al ricorrere delle condizioni previste dall’art. 21-nonies, sia l’abrogazione del comma II, art. 21, circa l’esercizio dei poteri di revoca ed annullamento d’ufficio.

La portata cogente della disposizione di cui al comma III, art. 19, è stata recentemente rinforzata mediante l’introduzione del comma VIII-bis, all’art. 2, L. n. 241/1990 introdotto dall’art. 12, comma 1, lett. a), del D.L. n. 76/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 120/2020, a mente del quale sono sanzionati a pena di «inefficacia»  i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti adottati dopo la scadenza del termine di sessanta o trenta giorni.

Dunque, con la L. n. 124/2015, si è posto rimedio alle prime due criticità emerse in relazione alla D.I.A./S.C.I.A.; diversamente, nulla di nuovo sotto il sole riguardo la tutela del terzo.

In proposito, deve evidenziarsi che l’art. 19, comma VI-ter, L. n. 241/1990 riconosce al terzo la possibilità di sollecitare le verifiche della P.A. che non si diversificano per tempistiche, finalità e contenuti, dai controlli attivati ex officio.

Il meccanismo di tutela congegnato da tale ultima disposizione richiede l’individuazione di tre distinti termini: il primo è quello entro cui il terzo deve sollecitare le verifiche spettanti all’Amministrazione; il secondo è quello entro cui l’Amministrazione si deve pronunciare sulla sollecitazione del terzo e decorso il quale Essa deve considerarsi inerte; l’ultimo è quello entro cui il terzo deve esperire l’azione avverso il silenzio inadempimento della P.A.. Mentre il secondo termine, quello concesso all’Amministrazione per pronunciarsi sull’istanza sollecitatoria del privato, si ricava dalla disciplina generale dettata dall’art. 2, Legge n. 241/1990, per cui, in mancanza di una diversa previsione normativa, i procedimenti amministrativi ad istanza di parte devono concludersi entro trenta giorni dal ricevimento della domanda; il terzo termine, entro cui proporre l’azione sul silenzio, è fissato espressamente dall’art. 31, comma II, cod. proc. amm., per cui essa può essere intentata fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. Non sarebbe invece fissato dalla norma censurata, né sarebbe ricavabile dal sistema, il termine entro il quale il terzo deve presentare l’istanza di sollecitazione delle verifiche amministrative; di talchè, sussiste una lacuna normativa ancor oggi affatto colmata dal legislatore nonostante le sollecitazioni del Giudice delle leggi[184].

La più avvertita dottrina, prendendo le mosse dalla nota sentenza n. 45/2019 pronunciata dalla Corte Costituzionale, ha così ricostruito i termini entro cui il terzo può esercitare il potere di sollecitazione: entro sessanta giorni dalla presentazione della S.C.I.A., nei quali l’Amministrazione come si è detto ut supra esercita i poteri inibitori, repressivi e/o conformativi; trascorso tale termine, nei successivi dodici mesi il terzo conserva la possibilità di compulsare il potere di autotutela cd. «atecnica»[185]; trascorso inutilmente questo ulteriore termine, atteso che la situazione giuridica soggettiva del segnalante si è consolidata tanto nei confronti della P.A., il cui potere amministrativo di tutela giustiziale risulta esaurito, quanto nei confronti del terzo, il cui interesse legittimo pretensivo si è estinto, l’unica forma di riparazione che residuerebbe a tutela di quest’ultimo è quella risarcitoria per equivalente monetario, ex art. 30, comma II, cod. proc. amm., il cui presupposto è l’accertamento dell’inadempimento del soggetto pubblico che omette di esercitare l’azione amministrativa. Resta salvo che l’azione di cui all’art. 30, comma II, cod. proc. amm. non potrà avere luogo se alcuna istanza sia stata rivolta dal terzo all’Amministrazione al fine di eccitare la stessa ad esercitare i poteri di cui ai commi III e IV dell’art. 19.

Preme evidenziare come la previsione di termini entro cui esercitare i poteri inibitori, repressivi e conformativi, per un verso, assolve alla funzione di assicurare stabilità agli effetti degli strumenti di liberalizzazione a tutela del legittimo affidamento, per altro verso, lascia privo di adeguata tutela il terzo allorquando l’attività oggetto della S.C.I.A. non sia tempestivamente avviata, così che questi non è nella condizione di attivarsi sollecitamente al fine di compulsare l’Amministrazione[186]; non solo, conseguenza naturale della previsione di termini a pena di decadenza, entro cui la P.A. deve esercitare i propri poteri, è la riduzione del potere pubblico ad appannaggio dell’espansione del diritto soggettivo del privato che avvia l’attività con la S.C.I.A. a detrimento della tutela pubblicistica dell’interesse del terzo[187].

Da ultimo, deve evidenziarsi come il legislatore, all’esito delle diverse modifiche ed integrazioni che hanno interessato la disciplina legale della S.C.I.A., ha provveduto a tenere in debita considerazione il legittimo affidamento del segnalante, rispetto ai poteri inibitori/repressivi; indici di ciò sono sia l’utilizzo dell’inciso «qualora sia possibile», in relazione all’esercizio dei poteri conformativi eventualmente accompagnato dalla sospensione cautelare dell’attività, sia l’introduzione della sanzione della inefficacia dei provvedimenti recanti il divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti adottati dopo la scadenza del termine, ai sensi dell’art. 2, comma VIII-bis, L. n. 241/1990[188].

 

  1. L’autotutela rispetto alle determinazioni decisorie della conferenza di servizi

Una fase sub eventuale del procedimento amministrativo è la conferenza di servizi, la cui disciplina è recata nel Capo IV, L. n. 241/1990, tra gli artt. 14 e 14-quinquies, che è dedicato alla semplificazione amministrativa.

La semplificazione si sostanzia nel trovare dei modi diversi più economici per ottenere lo stesso risultato garantito da quel particolare adempimento o controllo che viene ripensato e non eliminato; raggiungere l’obiettivo con modi più semplici e efficienti di quelli tradizionalmente utilizzati.

La conferenza di servizi è il principale strumento di semplificazione amministrativa perché è uno strumento che aiuta ad accelerare l’azione amministrativa attuando il principio di buon andamento; la logica della conferenza è quella di sostituire ad una singola valutazione di interessi pubblici il dialogo tra più Amministrazioni per la valutazione di tutti gli interessi rilevanti coinvolti dal procedimento.

Nell’ambito della conferenza di servizi si è soliti distinguere tra tre tipi: conferenza istruttoria; conferenza decisoria; conferenza preliminare.

La determinazione della conferenza decisoria è un atto esoprocedimentale immediatamente impugnabile, idoneo a sostituire i provvedimenti delle Amministrazioni coinvolte nella conferenza.

Venendo, dunque, alla disamina circa l’esercizio del potere di autotutela rispetto alla determinazione finale deve sin da subito precisarsi come l’Amministrazione procedente, qualora voglia agire in autotutela, non può esercitare tale potere in autonomia, bensì dovendo convocare una nuova conferenza di servizi; analogamente, il potere di autotutela resta precluso anche nei confronti dell’Amministrazione interpellata, la quale può solo sollecitare l’Amministrazione procedente a convocare una nuova conferenza di servizi, a condizione che abbia partecipato alla conferenza all’esito della quale è stata adottata la determinazione finale.

La disciplina del potere di autotutela rispetto alla determinazione finale che conclude la conferenza di servizi è recata dall’art. 14-quater, comma II, Legge n. 241/1990, ai sensi del quale le Amministrazioni, i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di conclusione della conferenza, possono sollecitare con congrua motivazione l’Amministrazione procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza, determinazioni in via di autotutela per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio, ex art. 21-nonies, L. n. 241/1990; prosegue, affermando un importante discrimen rispetto, invece, all’esercizio del potere di revoca nella misura in cui possono sollecitare l’Amministrazione procedente, affinchè questa assuma le determinazioni per l’esercizio della revoca ex art. 21-quinquies, solo le Amministrazioni che abbiano partecipato alla conferenza di servizi, anche a mezzo del rappresentante di cui ai commi IV e V dell’art. 14-ter, ovvero si siano espresse nei termini.

In altre parole, l’Amministrazione che sia stata assente alla conferenza di servizi o sia rimasta silente potrà sollecitare la P.A. procedente per l’esercizio del solo annullamento d’ufficio, con esclusione di ogni possibilità di sollecitazione ai fini dell’esercizio della revoca; la ratio di una simile esclusione, a parere di chi scrive, potrebbe essere giustificata dalla circostanza per cui, avendo omesso di partecipare alla conferenza di servizi o essendo rimasta silente, l’Amministrazione interpellata perde l’occasione di poter sollevare eventuali eccezioni su una questione rispetto a cui avrebbe avuto tempo e modo di intervenire, in omaggio alla tutela della stabilità delle situazioni giuridiche e alla certezza del diritto. Tale conclusione potrebbe essere confutata con la circostanza secondo cui l’Amministrazione interpellata, sebbene non abbia partecipato alla conferenza ovvero sia rimasta inerme, potrebbe pur sempre sollecitare l’esercizio dell’annullamento d’ufficio; in proposito, deve precisarsi la sostanziale differenza che connota i presupposti dell’annullamento d’ufficio, per i quali il legislatore ha ridotto il margine di discrezionalità nella misura in cui ha apposto termini temporali a pena di decadenza legale, rispetto ai presupposti della revoca che sono privi di termini temporali e emblema della più ampia discrezionalità dell’agere amministrativo [si pensi alla revoca ius poenitendi].

Dunque, in omaggio al principio del contrarius actus competente ad esercitare i poteri di autotutela rispetto alla determinazione finale che conclude la conferenza di servizi, essendo questa una decisione pluristrutturata, è la sola Amministrazione procedente, la quale conserva la piena responsabilità del procedimento ed è l’unica competente a valutare se vi sono i presupposti per indire una nuova conferenza e proporre a questa l’esercizio del potere di autotutela. Altresì, la riconvocazione della conferenza non può derivare sic et simpliciter da un cambiamento di idea ad opera dell’Amministrazione interpellata, la quale dopo aver espresso il proprio assenso rivede la propria posizione, perché in ipotesi il dissenso successivo avrebbe valenza superiore al dissenso normalmente espresso in seno alla conferenza; peraltro, si aggiunga che il dissenso espresso in conferenza di servizi può essere superato in base al principio di maggioranza. Non solo, la volontà espressa durante la conferenza di servizi ha valore endoprocedimentale, ragion per cui una sua eventuale revoca non ha alcuna incidenza sul provvedimento finale che resta valido ed efficace[189].

Ad ogni buon fine, non sussiste alcun obbligo per l’Amministrazione procedente, in presenza di una istanza per l’esercizio del potere di autotutela proveniente da una delle Amministrazioni interpellate, di procedere all’esercizio dei poteri di autotutela poiché spetta solo a quest’ultima valutare l’esistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti di revoca o annullamento d’ufficio; del pari, l’obbligo di provvedere viene meno anche nell’ipotesi in cui la decisione finale sia divenuta inoppugnabile.

Da ultimo, qualora l’istanza di riesame investa un atto di assenso espresso da parte dell’Amministrazione interpellata deve ritenersi, sulla base dell’orientamento prevalente in giurisprudenza, che, sebbene l’autotutela decisoria è un potere che può essere sempre attivato, laddove ne sia oggetto l’atto di assenso confluito nella decisione finale l’Amministrazione che lo ha reso non potrà procedere autonomamente all’annullamento o alla revoca dello stesso, bensì deve sollecitare l’indizione di una nuova conferenza di servizi mediante cui sottoporre anche alle altre Amministrazioni la richiesta di riesame; pertanto, non sarà sufficiente all’uopo il semplice consenso preventivo delle Amministrazioni che nell’originaria conferenza di servizi a maggioranza si sono espresse favorevolmente.

 

  1. L’autotutela della Stazione Appaltante in conseguenza del parere precontenzioso Anac: possibile configurabilità quale strumento di ADR in materia di contratti pubblici?

Il titolo del presente paragrafo ha una ratio specifica: provare a configurare l’autotutela esercitata dalla Stazione Appaltante, da ora per l’innanzi S.A., in conseguenza del parere di precontenzioso Anac, quale strumento di risoluzione alternativa delle controversie in materia di public procurement.

All’uopo, deve evidenziarsi come l’art. 1, Legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici, ha stabilito un criterio direttivo secondo cui il legislatore delegato avrebbe dovuto estendere e rafforzare i metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale; uno di questi metodi è, senza tema di smentita, il parere precontenzioso Anac.

Sulla scorta di tale criterio, una delle principali innovazioni introdotte dal nuovo Codice dei contratti pubblici, adottato col D. Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, è la riscrittura della relativa disciplina ad opera dell’art. 220.

Anzitutto, sebbene come ha osservato la dottrina[190] sia venuta meno la regola della vincolatività del parere su base volontaria, è stata potenziata la legittimazione ad agire dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’impugnazione non solo di bandi, atti generali e provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi S.A., qualora ritenga che gli stessi violino la disciplina legislativa in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, ma anche di provvedimenti della S.A. o dell’ente concedente che, non conformandosi al parere dell’Autorità, abbiano comunicato entro quindici giorni alle parti interessate e all’Anac, le ragioni per cui non intendono conformarsi. La previsione dell’obbligo di rendere note le ragioni per cui la S.A. o l’ente concedente non intendano conformarsi al parere dell’Anac rappresenta una regola di trasparenza coerente con la regola generale dell’art. 3, L. n. 241/1990, che impone l’obbligo di motivazione per i provvedimenti amministrativi; di talchè, la decisione di non conformarsi al parere dell’ANAC assume la veste di provvedimento.

A ciò si aggiunga che l’Anac, qualora ritenga che la S.A. abbia adottato un provvedimento viziato da gravi violazioni del Codice, dovrà emettere entro sessanta giorni dalla notizia della violazione, un parere motivato nel quale indica specificamente i vizi di legittimità riscontrati; se la S.A. entro trenta giorni dalla trasmissione, o in un termine più breve stabilito dall’Anac, non si adegua, l’Autorità può presentare ricorso entro i successivi trenta giorni, ex art. 120 cod. proc. amm., dinanzi il Giudice amministrativo.

Deve evidenziarsi che il parere precontenzioso ha carattere «volontario», atteso che spiega la sua efficacia solamente nei confronti delle parti che lo abbiano richiesto.

Non essendo questa la sede per intrattenersi sul procedimento che conduce all’emanazione, per quanto di interesse sono legittimati a richiedere il parere di precontenzioso: la S.A., l’ente concedente, gli operatori economici e le associazioni di categoria alle condizioni di cui all’art. 3 del relativo Regolamento adottato con Delibera n. 267 adottata dal Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione il 20 giugno 2023.

In ordine al momento entro cui il parere può essere richiesto, si sono sviluppati due orientamenti se prima dell’adozione del provvedimento, così che il parere assolva ad una funzione consultiva, ovvero, successivamente all’adozione del provvedimento; ha prevalso questa seconda tesi, ragion per cui il parere di precontenzioso può essere richiesto anche dopo l’emanazione del provvedimento ad opera della S.A. o dell’ente concedente[191].

Può accadere che l’Anac rimanga inerte rispetto alla richiesta del parere nel qual caso, sebbene una simile ipotesi non sia prevista dall’art. 220 in commento, si è di fronte a silenzio inadempimento per cui è possibile promuovere la relativa azione ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm.; analogamente, si deve ricorrere a tale azione giurisdizionale nel caso in cui sia l’Amministrazione a rimanere inerte a fronte del parere di precontenzioso qualora l’Anac lo abbia emesso perché il provvedimento adottato dalla S.A. sia viziato di legittimità per violazione del Codice dei contratti pubblici[192].

Quanto all’ambito oggettivo, il ridetto parere può essere richiesto all’Anac in merito a questioni controverse insorte per qualunque tipo di appalto di servizi, forniture o lavori sia durante la procedura gara, ad eccezione della materia relativa all’accesso agli atti, sia durante la fase di esecuzione del contratto.

Il parere viene pronunciato dall’Anac entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta e investirà le questioni controverse insorte durante lo svolgimento della gara; solo per l’operatore economico che abbia richiesto il parere o che vi abbia aderito è previsto l’obbligo di uniformarsi entro i successivi trenta giorni.

Inoltre, solo l’operatore economico, diversamente che dalla S.A. e dall’ente concedente, potrà impugnare il parere precontenzioso esclusivamente per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia; tale previsione è un importante elemento di novità poiché limita l’impugnazione solo ai profili sostanziali.

In proposito, la Commissione Speciale del Consiglio di Stato, nella Relazione al Codice, ha osservato come la limitazione dell’impugnazione ai soli profili sostanziali sia un’applicazione estensiva della regola di non annullabilità dettata in generale dall’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990 in quanto è chiara la ratio legislativa di un rafforzamento del parere, di cui l’operatore economico può ottenere l’annullamento in sede giudiziale solo quando esso sia sbagliato nella sostanza.

Emerge ictu oculi come l’Autorità Nazionale Anticorruzione svolge funzioni «paragiurisdizionali», fra cui vi rientra rendere il parere di precontenzioso.

Orbene, attesa la disciplina predisposta dal legislatore delegato, è possibile affermare che i pareri di precontenzioso dell’Autorità Nazionale Anticorruzione  assolvono ad una finalità deflattiva del contenzioso di fronte al Giudice amministrativo, nell’ottica di prevenire l’insorgenza delle liti durante lo svolgimento delle procedure di gara; conseguentemente, a parere di chi scrive, rientrano nel novero delle ADR [Alternative Dispute Resolution], in quanto le Amministrazioni, adeguandosi al parere Anac da cui difficilmente si discostano, possono risolvere attraverso l’istituto dell’autotutela decisoria le controversie insorte durante la gara o nella fase di esecuzione del contratto.

D’altronde, un significativo impulso in favore degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie anche in materia di contratti pubblici è espressamente contemplato dalle tre direttive U.E. del 2014[193]; in particolare, il considerando 122 della direttiva 24 ammette expressis verbis che i cittadini e i soggetti interessati dovrebbero avere la possibilità di segnalare all’Autorità competente le violazioni alla medesima direttiva, senza dover necessariamente ricorrere dinanzi ai Tribunali o alle Corti[194].

A ciò si aggiunga che il paradigma normativo di riferimento nell’ordinamento giuridico interno, l’art. 220 del D. Lgs. n. 36/2023, conferisce al parere di precontenzioso natura anticipatoria in quanto finalizzato a prevenire l’insorgenza di eventuali controversie; per questa via, dunque, i pareri di precontenzioso, al pari delle linee guida che promanano sempre dall’Anac, orientano l’attività degli operatori del settore dei contratti pubblici sia sul versante delle S.A. e degli enti concedenti sia sul versante degli operatori economici.

 In questo senso, atteso che la Pubblica Amministrazione può discostarsi dal parere di precontenzioso quale atto non vincolante pur facendo salvo l’obbligo per la stessa di motivare al fine di non incorrere nel vizio di eccesso di potere, i pareri di precontenzioso e le linee guida non essendo vincolanti partecipano dei caratteri del cd. soft law.

La categoria del soft law dà essenza ad un sistema di regole che si distingue per il fatto di non possedere la medesima forza cogente delle norme giuridiche: mancanza di qualsivoglia precettività od obbligatorietà; id est gli atti normativi di soft law per quanto non vincolanti comunque producono effetti giuridici informalmente obbligatori, attesa anche l’autorevolezza dell’Autorità da cui promanano.

Ne consegue che sia le linee guida che il parere di precontenzioso non possono considerarsi fonti del diritto soprattutto in un ordinamento giuridico di civil law perché non espressamente classificabili, per le caratteristiche testè esposte, tra gli atti normativi veri e propri. A questo proposito sia consentita una breve digressione, come testimonia l’esperienza di politica legislativa maturata nel nostro ordinamento, quando il legislatore ha preso atto del costante ricorso, ad opera dei diversi operatori del diritto, ai principi formatisi in ragione del precedente giurisprudenziale, ha espressamente codificato l’idoneità del precedente giurisprudenziale, pronunciato dai massimi plessi della giustizia, a creare principi di diritto in ragione, appunto, dell’appartenenza al sistema di civil law nel quale le fonti del diritto sono espressamente stabilite dalla legge e per iscritto[195].

Purtroppo, il sistema del parere di precontenzioso Anac presenta ancora delle criticità dettate dalla coincidenza tra il termine di trenta giorni, il cui dies a quo è rappresentato dalla data di richiesta dello stesso, entro cui l’Anac emette il parere e l’altrettanto breve termine entro cui, ex art. 120 cod. proc. amm., è possibile proporre ricorso giurisdizionale[196]; sul tempo è auspicabile un intervento del legislatore teso ad agevolare il ricorso al parere precontenzioso eliminando questa sovrapposizione con l’azione giurisdizionale, atteso che allo stato dell’arte, se l’atto della S.A. è impugnabile mediante ricorso giurisdizionale, il parere non assolverà alla sua tipica funzione deflattiva del contenzioso.

Resta salva, si ribadisce, la legittimazione dell’Anac a impugnare i provvedimenti della S.A. viziati di legittimità, qualora sia rimasto inascoltato il parere di precontenzioso con cui sia sollecitato l’esercizio dell’autotutela.

Conclusivamente, deve chiarirsi che l’esercizio del potere di autotutela rispetto all’aggiudicazione della gara prima della stipula del contratto, atteso che successivamente alla stipula del contratto di appalto gli atti che possono farne cessare l’efficacia sono la risoluzione anticipata o il recesso, spetta, in omaggio al principio del contrarius actus per cui soltanto l’organo che ha emanato legittimamente l’atto è titolare del potere di autotutela, al Responsabile Unico di Progetto, salvo che la revoca sia dovuta all’illegittima ammissione od esclusione dalla gara di un concorrente; in questa seconda ipotesi, spetta alla Commissione l’onere di riesaminare, nell’esercizio del potere di autotutela, il procedimento di gara già espletato[197]. Con riferimento ai presupposti che giustificano la revoca dell’aggiudicazione, la giurisprudenza, tutelando il legittimo affidamento dell’aggiudicatario, ne ha delineato in maniera netta i confini statuendo che  il ritiro dell’aggiudicazione legittima postula la sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico, o una rinnovata valutazione di quelle originarie, prevalenti sulle esigenze di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi; non solo, ha aggiunto che la revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto originario dev’essere preceduta da un confronto procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende revocare[198].

L’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione, invece, è doveroso nell’ipotesi di cui all’art. 220, D. Lgs. n. 36/2023, nella quale la doverosità dell’intervento in autotutela sembra essere imposta dalla assoluta preminenza riconosciuta agli interessi pubblici lesi dal provvedimento illegittimo, quali l’interesse pubblico economico, la primazia del diritto comunitario e l’interesse alla tutela del territorio.

 

  1. Autotutela e intelligenza artificiale

L’impiego delle tecnologie informatiche nell’esercizio delle funzioni amministrative, tra cui vi rientra anche il potere di autotutela, e più in generale l’incidenza delle stesse sul rapporto giuridico tra Pubblica Amministrazione e cittadino, costituisce una delle questioni maggiormente rilevanti che impegna, vuoi per l’inerzia del legislatore vuoi per il sollecito apporto pretorio, sia dottrina che giurisprudenza.

In seno alla dottrina, M.S. Giannini sin dal 1979 rilevava come i sistemi informativi erano utili all’Amministrazione non solo per fatti di gestione interna ma per amministrare, enfatizzandone la proiezione verso l’esterno[199].

Il percorso che ha condotto alla digitalizzazione dell’agere amministrativo, fino ad ammettere l’uso dell’algoritmo, si articola in quattro fasi: la prima fase, comunemente definita Amministrazione 1.0, è caratterizzata dal prevalente utilizzo del modello cartaceo; la seconda fase, cd. Amministrazione 2.0, si caratterizza per l’impiego di personal computer e di altri apparecchi informatici per l’elaborazione di atti e provvedimenti amministrativi; la terza fase, cd. Amministrazione 3.0, si risolve nell’utilizzo di risorse digitali presenti nella rete internet o nelle applicazioni mobili o nei social network; la quarta fase, quella corrente cd. Amministrazione 4.0, si sostanzia nell’automazione delle funzioni amministrative che precedentemente erano affidate in via esclusiva alle abilità umane[200].

Con riferimento al quadro normativo sul piano nazionale è da evidenziarsi che la primigenia disposizione legislativa, oggi abrogata, in materia era l’art. 3, D. Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39, la quale sanciva il passaggio dalla cd. «Amministrazione 1.0» alla cd. «Amministrazione 2.0» prevedendo espressamente l’utilizzo di sistemi informatici o telematici per l’immissione, riproduzione ed emanazione di atti amministrativi; accanto a questa si colloca l’art. 3-bis, Legge n. 241/1990, secondo cui le Pubbliche Amministrazioni nei rapporti interni, tra loro e con i cittadini fanno ricorso all’uso di sistemi informatici e telematici, cui si aggiunge il Codice dell’Amministrazione Digitale [C.A.D.], adottato con D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, interamente dedicato all’Amministrazione digitale.

Ancora, importante è il richiamo all’art. 1, comma I lett. b), L. n. 124/2015 che individua il principio del digital first avente ad oggetto la semplificazione dei procedimenti amministrativi mediante la ridefinizione, in chiave digitalizzata, delle procedure amministrative e della stessa organizzazione interna.

Non mancano disposizioni sul piano sovranazionale in ordine alla digitalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche, basti pensare al Regolamento UE n. 679/2016 che, ex art. 22, ammette la possibilità per le stesse di adottare atti automatizzati purchè la legge dello Stato le autorizzi ovvero qualora la determinazione automatizzata sia conseguenza di un contratto col privato o del consenso di quest’ultimo.

All’interno del C.A.D. è contenuta la principale disposizione per cui oggi è fatto divieto all’Amministrazione di formare documenti cartacei, a meno che il supporto cartaceo sia necessario, purchè nel rispetto del principio di economicità; id est è fatto obbligo alla P.A. di formare documenti mediante mezzi informatici.

Il documento informatico che sia redatto per iscritto e rechi la firma digitale gode dell’efficacia ex art. 2702 cod. civ., così che risulta equiparato alla scrittura privata.

Venendo al procedimento amministrativo, deve aderirsi a quella dottrina che individua una analogia tra procedimento amministrativo e algoritmo, laddove come la struttura del primo consta della sequenza di atti ed operazioni che sfociano in un certo risultato che altro non è che la decisione finale, anche la struttura dell’algoritmo consta di una sequenza finita di operazioni che danno soluzione ad un problema[201].

Uno dei principali aspetti indagati dalla giurisprudenza ha investito l’utilizzabilità dell’algoritmo per lo svolgimento dell’intero procedimento o di alcuni segmenti di esso, giungendo finanche alla determinazione del contenuto del provvedimento finale.

Come hanno rilevato i Giudici di Palazzo Spada, anche l’Amministrazione deve poter sfruttare le rilevanti potenzialità della c.d. rivoluzione digitale; in proposito, atteso che in diversi ambiti gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani, le decisioni prese dall’algoritmo assumono così un’aura di neutralità, frutto di asettici calcoli razionali basati su dati[202].

In tale ottica si è concordi nel riconoscere gli indubbi vantaggi che l’atto, frutto dell’elaborazione per il tramite dell’algoritmo, presenta quanto a minimizzazione dei rischi a che lo stesso sia contra legem; in specie, saranno ridotte le possibilità che il provvedimento sia discriminatorio ovvero sia affetto da fenomeni corruttivi.

L’utilità dell’algoritmo e della conseguente decisione automatizzata è ancor più evidente con riferimento a procedure implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale.

È stato osservato come la digitalizzazione dell’azione amministrativa soddisfa i canoni di efficienza ed economicità, i quali, nel rispetto del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., impongono all’Amministrazione il conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse, attraverso lo snellimento e l’accelerazione dell’iter procedimentale.

Resta salvo che l’uso del software per l’esercizio dell’azione amministrativa sarà considerato legittimo fintanto che sia assicurata la piena intellegibilità delle operazioni svolte dalla macchina e siano imputabili all’organo, da intendersi come tale la persona fisica titolare dell’ufficio e non l’apparecchio informatico, le scelte effettuate dalla macchina e le responsabilità ad esse connaturate[203].

Invero, una delle problematiche che affligge il ricorso all’algoritmo attraverso cui assumere decisioni automatizzate è proprio la trasparenza dell’iter logico giuridico che presiede alle stesse; in realtà, accade che, per quanto programmabili, i programmi di intelligenza artificiale formulino decisioni autonome mediante la combinazione di dati di esperienza acquisiti senza che sia offerta traccia del percorso logico. In tal senso, vi è una vera e propria tensione tra il processo di informatizzazione amministrativa e le imprescindibili esigenze di trasparenza sottese all’obbligo di motivazione della decisione finale; pertanto, considerato che la sequenza algoritmica non è altro che la traduzione in formula matematica del provvedimento amministrativo, affinchè non vi sia elusione dei principi di trasparenza, pubblicità, proporzionalità e ragionevolezza che governano l’azione amministrativa, è necessario che i software utilizzati dalla P.A. consentano la conoscibilità in termini giuridici del contenuto del provvedimento amministrativo formulato in linguaggio computazionale[204].

Dunque, il ricorso all’algoritmo va inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta della legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere.

Inizialmente, in seno alla giurisprudenza si era consolidato il convincimento per cui l’uso di strumenti informatici avrebbe dovuto essere limitato alla sola attività vincolata; solo recentemente si è ritenuto che anche l’esercizio di attività discrezionale, in specie tecnica, può in astratto beneficiare delle efficienze e, più in generale, dei vantaggi offerti dagli strumenti di automazione. In tale contesto, si ribadisce, è necessario che siano conoscibili coloro che hanno creato l’algoritmo, il procedimento utilizzato per la sua elaborazione e il meccanismo di decisione, di guisa che siano chiare e sindacabili le modalità e le regole in base alle quali è stato impostato; sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, invece, deve essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di correttezza, degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di legalità sia nell’interesse dell’Amministrazione che dei soggetti coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo[205].

A ciò si aggiunga il principio di non esclusività della decisione algoritmica, in base al quale, nel caso in cui una decisione automatizzata produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente sul processo automatizzato; in altre parole, deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. Concretamente, elaborato attraverso l’algoritmo lo schema di provvedimento finale, questo è sottoposto all’interessato per divenire oggetto di contraddittorio con l’organo preposto all’adozione del provvedimento definitivo.

Si è scritto ut supra che l’algoritmo deve essere inquadrato in termini di strumento procedimentale ed istruttorio, il che sta a significare che le risultanze dell’istruttoria eseguita per mezzo dello stesso vengono fatte proprie dall’Amministrazione nel provvedimento finale.

Stando così le cose, deve ritenersi che se il programma [ergo l’algoritmo] è viziato sussisterà un vizio di istruttoria, il che implicherà che il provvedimento finale sia illegittimo per eccesso di potere.

Quanto all’esercizio dell’autotutela è noto che anche i provvedimenti espressione dell’autotutela decisoria sono presieduti da un procedimento amministrativo nel quale deve essere assicurato il contraddittorio; con specifico riferimento alla revoca o all’annullamento d’ufficio di provvedimenti illegittimi totalmente o parzialmente automatizzati, si è osservato come l’autotutela decisoria si risolva in una funzione dal carattere spiccatamente vincolato negli esiti [necessario annullamento o revoca degli stessi], capace di derogare al modello generale e agli approdi in materia di tutela del legittimo affidamento, il cui esercizio deve essere considerato doveroso non fosse altro perché necessaria a emendare il vizio prodotto da errori computazionali dell’algoritmo.

Una ricostruzione in termini sia di esercizio doveroso che di esito vincolato del potere di riesame rispetto ai provvedimenti elaborati mediante il ricorso all’algoritmo, con conseguente sacrificio delle guarentigie di partecipazione previste dalla legge sul procedimento amministrativo, deve essere rifiutata proprio per il nocumento che comporterebbe al destinatario del provvedimento di secondo grado, il quale vedrebbe irreparabilmente compresso il proprio diritto a quella che, se è vero come è vero che il procedimento amministrativo riprende l’ossatura propria del processo, passa sotto il nome di «parità delle armi» strumentale alla tutela del proprio legittimo affidamento.

Conclusivamente, appare irrinunciabile quella notoria «riserva di umanità» che, indispensabile per l’agere amministrativo, si traduce in una misura di garanzia funzionale a salvaguardare il complesso di prerogative che costituiscono la testata d’angolo del rapporto Pubblica Amministrazione – cittadino; diversamente opinando, si assisterebbe ad una inaccettabile regressione del rapporto in commento che in un colpo solo vedrebbe frustrati i principi di trasparenza, pubblicità e proporzionalità dell’azione amministrativa e i diritti partecipativi riconosciuti in favore del cittadino.

 

CONCLUSIONI

L’autotutela amministrativa è evidente come sia un istituto complesso e poliedrico, che oscilla tra il potere di amministrazione attiva e il potere di tutela giustiziale.

La sua natura giuridica riflette questa duplice dimensione, evidenziando l’importanza di un equilibrio tra la discrezionalità della Pubblica Amministrazione e la tutela della certezza del diritto, della stabilità delle situazioni giuridiche soggettive e più in generale del legittimo affidamento dei cittadini.

I primi passi nella direzione di una maggiore attenzione riguardo al legittimo affidamento dei cittadini sono stati compiuti dal legislatore attraverso la cd. «riforma Madia», sebbene è indubbio che tanto deve essere ancora fatto; in proposito, diversi sono gli spunti di riflessione in relazione alle possibili prospettive di riforma, avendo come referente la tutela del legittimo affidamento dei cittadini.

Sia consentita una premessa di metodo: le riflessioni che seguono prendono le mosse dallo stato dell’arte della disciplina legale odierna per giungere a prospettare possibili riforme.

Premesso che con la L. n. 124/2015 è stata definitivamente sancita l’eccezionalità dell’esercizio del potere di autotutela decisoria, abbandonando per questa via l’idea della immanenza ed inesauribilità del potere in commento, si ritiene necessario anzitutto che il legislatore intervenga nuovamente sui presupposti dello stesso chiarendo il significato e, per quanto possibile, tipizzando le non meglio precisate «ragioni di interesse pubblico»; del pari, deve essere definita, tenendo in debita considerazione anche gli approdi giurisprudenziali, l’ulteriore locuzione del cd. «termine ragionevole» entro cui l’annullamento officioso e la revoca possono essere esercitati. Diversamente, concreto è il rischio che non sia del tutto estinta l’idea della inesauribilità del potere di autotutela decisoria; l’inesauribilità del potere porta con sé la discrezionalità a detrimento del legittimo affidamento che, al contrario, richiede come presupposti la stabilità delle decisioni e la certezza del diritto.

In proposito, la definizione del termine temporale entro cui esercitare l’annullamento d’ufficio, una delle due facce dell’autotutela decisoria italiana, ha interessato solamente i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, essendo stato fissato dapprima in diciotto mesi successivamente ridotti a dodici; viceversa, per tutti gli altri provvedimenti amministrativi l’annullamento deve essere esercitato entro un termine ragionevole.

L’esigenza di apporre un termine temporale è maggiormente avvertita anche con riferimento all’esercizio del potere di revoca; invero, l’unico presidio a tutela del legittimo affidamento del privato attinto dalla revoca del provvedimento di primo grado è l’indennizzo limitato alla sola ipotesi in cui il provvedimento revocato incida sui rapporti negoziali, mentre alcun riferimento è recato rispetto al termine temporale entro cui esercitare quest’ultimo potere. Il termine temporale implica l’impossibilità di tornare discrezionalmente sulla precedente determinazione, così che ne è fatta salva la stabilità ad appannaggio del legittimo affidamento dell’interessato; peraltro, è appena il caso di ribadire come la revoca dovrebbe essere espunta dall’autotutela decisoria, anche in omaggio al diritto eurounitario che tratta esclusivamente dell’annullamento dei provvedimenti amministrativi di primo grado, atteso che il potere revocatorio non ha come finalità il ripristino della legalità ma la cura dell’interesse pubblico che in quest’ultimo istituto, emblema della discrezionalità del soggetto pubblico, prevale sul legittimo affidamento.

Non solo, deve condividersi quella teorica per cui alcuna salvaguardia è assicurata al legittimo affidamento del privato laddove è escluso l’esercizio dell’annullamento ex officio nell’ipotesi di provvedimenti amministrativi affetti dai vizi di cui all’art. 21-octies, comma II; in tali ipotesi, per un verso, è stata fatta salva la stabilità dei provvedimenti, mentre, per altro verso, rimane privo di protezione l’affidamento del privato rispetto alla legittimità dell’azione amministrativa. In altri termini, se la violazione delle norme sul procedimento, nell’ipotesi di provvedimenti vincolati, non assume rilevanza ai fini dell’annullamento ex officio, nessuna tutela giuridica è assicurata all’affidamento del privato circa il rispetto delle norme sul procedimento; di talchè, alcuna forma di responsabilità sussisterà per il mancato rispetto delle norme procedimentali[206].

Si tratta, pertanto, di indagare se si possa ritenere sussistente un affidamento del privato rispetto non solo alla positiva conclusione del procedimento, ma anche alla conformità di quest’ultimo alle norme che lo disciplinano; a parere di chi scrive, l’affidamento del privato è in prima facie ingenerato dalla convinzione del rispetto delle norme procedimentali da parte dell’Amministrazione Pubblica.

All’uopo, attesa l’individuazione dell’azione risarcitoria quale rimedio a tutela del legittimo affidamento, sarebbe doveroso che il legislatore delineasse i presupposti della stessa avendo riguardo all’affidamento del privato e alla condotta posta in essere dall’Amministrazione che si riveli difforme rispetto al dettato normativo, così che si eviterebbe un abuso del rimedio ad opera dei privati e, contestualmente, si confezionerebbe un rimedio di tutela effettiva del legittimo affidamento che, prescindendo dal rigido schema del riparto di giurisdizione, porrebbe l’accento sulla causa lesiva del legittimo affidamento[207] [208].

Al netto dei rilievi critici testè esposti, deve assumersi come le modifiche legislative che via via sono sempre più avvertite, note ormai le criticità rispetto a cui prova a porvi rimedio in qualche modo l’apporto pretorio, suggeriscono un’ulteriore riflessione: tipizzare i confini entro cui l’Amministrazione Pubblica può esercitare il potere di autotutela non significa limitare la giustiziabilità delle pretese nei confronti della stessa in quanto a tale limitazione dà causa piuttosto la mancanza di una disciplina legislativa che regoli e l’esercizio del potere amministrativo e i modi, nonché i limiti, della protezione degli interessi dei privati.

Numerosi sono i contenziosi che vedono quali parti processuali i cittadini, i quali agiscono a tutela del proprio affidamento, e le Amministrazioni, le quali si vedono convenute in giudizio per l’anomalo esercizio del potere di autotutela; diversi di questi giudizi, all’esito vedono le Amministrazioni soccombere con conseguente danno erariale sofferto dalle stesse.

Le cause dell’anomalo esercizio del potere di autotutela a detrimento del legittimo affidamento del privato sono molteplici; non è questa la sede in cui passarle in rassegna, ma ciò nonostante è possibile prospettare alcuni correttivi prendendo spunto sia dagli ordinamenti degli altri Paesi europei sia dal diritto eurounitario.

In tal senso, di particolare interesse ai fini di una maggiore tutela del legittimo affidamento appare la disciplina dell’autotutela recata dall’ordinamento giuridico spagnolo che e, in specie, dalla «Ley 39/2015, de 1 de octubre, del Procedimiento Administrativo Común de las Administraciones Públicas» e dalla «Ley 40/2015, de 1 de octubre, de Régimen Jurídico del Sector Público». Le Leggi testè richiamate, ponendo alla base dell’esercizio dell’autotutela la distinzione tra provvedimento nullo e provvedimento annullabile, prevedono il coinvolgimento del Consiglio di Stato, il quale, nel caso sia oggetto dell’autotutela il provvedimento viziato di nullità, esercita una funzione consultiva e in tale veste, rilevata e accertata la nullità del provvedimento, emana un parere che è obbligatorio e vincolante per l’organo, diverso da quello che ha adottato il provvedimento di primo grado, che esercita il potere di riesame; qualora, invece, oggetto dell’autotutela sia un provvedimento annullabile, atteso che l’annullabilità è un vizio residuale e più tenue rispetto alla nullità, si prevede che l’Amministrazione che ha adottato il provvedimento originario, accertata e dichiarata la annullabilità del proprio provvedimento perché contrario all’interesse pubblico, propone domanda di annullamento al Giudice amministrativo che annulla il provvedimento viziato[209].

Venendo alle prospettive di riforma del procedimento di autotutela decisoria nel nostro ordinamento giuridico, avendo come obiettivo principale la tutela del legittimo affidamento del privato cittadino, anzitutto si dovrebbe prendere le mosse dalla distinzione tra provvedimenti favorevoli e provvedimenti sfavorevoli al privato, all’interno di queste due categorie operare l’ulteriore distinzione tra provvedimenti legittimi e provvedimenti illegittimi.

Espunta la revoca dall’autotutela decisoria[210], riconosciuta la possibilità di attivare il potere di riesame sia d’ufficio che su istanza del privato e/o del terzo, al pari di quanto accade per ogni procedimento amministrativo di primo grado ai sensi dell’art. 2, comma I, Legge n. 241/1990, definiti a pena di decadenza legale i termini temporali entro cui l’Amministrazione possa esercitare l’autotutela decisoria, determinate ex lege le ragioni di pubblico interesse poste a fondamento del potere di annullamento, si potrebbe prevedere che al termine dell’istruttoria, elaborato lo schema di provvedimento di secondo grado, quest’ultimo, limitatamente alle ipotesi in cui vengano in rilievo gli interessi pubblici sensibili codificati espressamente dal legislatore, sia inviato alla Prima Sezione consultiva del Consiglio di Stato che renderà il proprio parere obbligatorio e vincolante per l’organo che, diverso da quello che ha adottato il provvedimento di primo grado, debba adottare il provvedimento definitivo.

Ovviamente, una simile disciplina deve essere codificata ed espressamente positivizzata nella Legge n. 241/1990, soprattutto con riferimento all’attribuzione del potere di riesame ad un organo diverso da quello che ha adottato il provvedimento di primo grado, in omaggio all’art. 21-nonies secondo cui il potere di annullamento d’ufficio può essere esercitato dall’organo diverso da quello che ha adottato il provvedimento di primo grado solamente se individuato per legge; quindi, solo a fronte di una previsione di legge espressa attributiva del potere di riesame l’organo diverso può annullare il provvedimento di primo grado.

È evidente come la trattazione dell’autotutela e più in generale delle possibili prospettive di riforma, non può prescindere dall’esame di un ulteriore profilo, ossia, la struttura organizzativa dell’Amministrazione Pubblica; in proposito, al fine di non aggravare la struttura organizzativa delle Amministrazioni più piccole, il riferimento è agli Enti locali e, tra di essi, ai Comuni di piccole dimensioni, si potrebbe attribuire l’esercizio del potere di riesame al Responsabile di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) e all’ufficio di supporto di quest’ultimo, atteso che la necessità di individuare un organo di secondo grado diverso da quello che ha adottato il provvedimento di primo grado è giustificata da obiettive esigenze di imparzialità, terzietà ed assenza di conflitto di interessi[211].

Ad ogni modo, la previsione del parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato sullo schema di provvedimento di secondo grado potrebbe di per sé già arginare eventuali conflitti di interessi ed assicurare la terzietà e imparzialità della determinazione di annullamento.

Da ultimo, un ruolo decisivo nella fase istruttoria, semplificandola e imprimendole una maggiore celerità, potrebbe essere assunto dall’impiego dell’intelligenza artificiale il cui algoritmo, atteso che è programmato dall’uomo, deve vedere il coinvolgimento dei principali attori pubblici nella formulazione delle relative istruzioni.

Resta salvo che, in omaggio al principio della riserva di umanità e di non esclusività della decisione algoritmica[212], il ricorso all’intelligenza artificiale deve essere confinato alla fase istruttoria all’esito della quale è elaborato lo schema di provvedimento finale che, nella prospettiva di riforma di chi scrive, dovrà essere vagliato preliminarmente dall’organo persona fisica, la quale, dopo averlo inviato al Consiglio di Stato competente a rendere il proprio parere obbligatorio e vincolante, dovrà adottarlo; il ricorso all’intelligenza artificiale, doverosamente istruita mediante il coinvolgimento del mondo accademico, da cui promana la dottrina, e del massimo plesso della giurisprudenza amministrativa, che di quella dottrina dovrebbe in potenza farne applicazione, nonché la previsione del parere obbligatorio e vincolante della Prima Sezione consultiva del Consiglio di Stato, renderebbero il più possibile oggettiva la decisione di riesame garantendo la più ampia tutela del legittimo affidamento del privato.

D’altronde, la necessità che il provvedimento finale sia adottato dall’organo – persona fisica è conseguenza della teorica della cd. «imputazione», da cui ha origine l’accezione di «organo» che è il presupposto fondante dell’insegnamento secondo cui l’Ente pubblico agisce per mezzo di persone fisiche che sono legate allo stesso dal cd. «rapporto organico»; di talchè, l’azione amministrativa pubblicistica è considerata attività umana esercitata concretamente dall’Ente pubblico per il tramite del funzionario persona fisica che riveste la qualità di organo[213].

Conclusivamente, solo a fronte di una simile riforma che elimini ogni margine di discrezionalità della Pubblica Amministrazione e l’esposizione sine die del privato cittadino ai ripensamenti di questa, l’autotutela decisoria sarà esercitata in maniera tale da operare un giusto bilanciamento tra interesse pubblico e legittimo affidamento, provocando, altresì, una reale deflazione del contenzioso giurisdizionale rispetto alle determinazioni in via di autotutela assunte dalla P.A..

 

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[1] A parere di chi scrive fino a circa un ventennio fa quando ha fatto ingresso nell’ordinamento giuridico interno, modificando e integrando la Legge 7 agosto 1990, n. 241, la prima le legge mediante cui è stata data sostanza sul piano normativo rispettivamente alla revoca e all’annullamento d’ufficio, ossia, la Legge 11 febbraio 2005, n. 15, che ha introdotto gli arrt. 21-quinquies (rubricato: Revoca del provvedimento) e 21-nonies (rubricato: Annullamento d’ufficio).

[2] L. BENVENUTI, L’autotutela amministrativa. Una parabola del concetto, in Diritto e processo amministrativo, 2020, p. 638 ss..

[3] L’utilizzo di una espressione così forte per qualificare il «legittimo affidamento» deriva dalla circostanza per cui, premessa la matrice europeistica, di tale principio non si rinviene traccia nelle fonti del diritto eurounitario, essendo creatura originata dalla elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia U.E.; ciò nonostante, è stato recepito negli ordinamenti interni e spiega la propria efficacia con funzione limitante rispetto all’autotutela della P.A..

[4] P. OTRANTO, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, 13 maggio 2020.

[5] Il quale fondava l’obbligatorietà del potere di annullamento sulla scorta della norma fondamentale che è la sintesi di quel principio di legalità cui deve ispirarsi l’agere amministrativo.

[6] Secondo i quali bisognava volta per volta verificare se dall’annullamento avrebbero tratto giovamento gli interessi della Pubblica Amministrazione e se, come per ogni potere discrezionale, l’esercizio di tale potere fosse conforme ai requisiti richiesti.

[7] G. MANFREDI, Annullamento doveroso?, in P.A. Persone e Amministrazione, 2017, p. 383 ss..

 

[8] E. CANNADA BARTOLI, voce Annullabilità e annullamento (dir. amm.), in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, 484 ss..

[9] Cons. Stato, sez. V, 3 maggio 2012, n. 2549, in Foro Amm., 2012, pp. 2945 ss., con nota di C. NAPOLITANO, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite.

[10] Appare doveroso sul punto richiamare la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 17 ottobre 2017 a mente del quale « un pregresso quanto risalente orientamento predicava la sostanziale perennità della potestà amministrativa di annullare in autotutela gli atti invalidi. La successiva evoluzione dell’ordinamento pubblicistico si è mossa in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi dall’esplicazione del potere di autotutela e, prima ancora che la l. 15 del 2005 legificasse le principali acquisizioni in materia, la giurisprudenza amministrativa aveva già temperato il richiamato principio di perennità predicando invece la necessità che l’annullamento e la revoca intervenissero entro un termine ragionevole (sul punto – ex multis -: Cons. Stato, VI, 15 novembre 1999, n. 1812; id., V, 20 agosto 1996, n. 939). Il richiamo alla ragionevolezza del termine, tuttavia, non stava a significare che il decorso di un lasso temporale particolarmente ampio consumasse in via definitiva il potere di riesame da parte dell’amministrazione, quanto – piuttosto – che tale circostanza imponesse una valutazione via via più accorta fra l’interesse pubblico al ritiro dell’atto illegittimo e il complesso delle altre circostanze e interessi rilevanti (e, in primis, quello del destinatario del provvedimento illegittimo – in ipotesi a lui favorevole il quale maturava, per effetto del decorso del tempo, un affidamento legittimo alla permanenza dell’assetto di interessi delineato dal provvedimento medesimo). Deve quindi concludersi nel senso che, in relazione alle vicende sorte nella vigenza della l. 15 del 2005, il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice sul potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale. La locuzione ‘termine ragionevole’ richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie. Si intende con ciò rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto… ».

[11] L. CANNATA, La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per attività provvedimentale, op. cit., p. 304 ss..

[12] È doveroso a tal proposito richiamare quell’autorevole dottrina che distingueva tra le tre categorie dell’annullamento, abrogazione e revoca. In specie, mentre l’annullamento si sostanziava nel ritiro di un provvedimento illegittimo ab origine, l’abrogazione si sostanziava nel ritiro di un atto divenuto inopportuno in ragione di un successivo mutamento delle esigenze di pubblico interesse; la terza categoria della revoca, invece, era intesa come l’atto mediante il quale l’Autorità che aveva adottato il provvedimento di primo grado, avvalendosi del proprio jus poenitendi, lo ritirava, avendo mutato il proprio convincimento circa l’opportunità dello stesso. Si veda A.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè editore, 1964, pp. 384 – 405.

[13] Oggi revoca ed abrogazione sono due facce della stessa medaglia in quanto la prima ha assorbito la seconda, posto che l’Autorità amministrativa può revocare, ex art. 21-quinques, comma I, L. n. 241/1990, il provvedimento precedentemente adottato nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione dello stesso. D’altronde, lo stesso Sandulli si poneva in antitesi rispetto all’orientamento, di cui era strenuo assertore il Virga, secondo cui l’abrogazione fosse un atto di ritiro che trovasse attuazione al sopravvenire di nuove circostanze di fatto che rendessero l’atto non più rispondente all’interesse pubblico differenziandosi, dunque, dalla revoca che, invece, aveva ad oggetto la rivalutazione delle stesse circostanze originarie e sulla cui scorta il provvedimento amministrativo era stato adottato.

[14] R. CAPONIGRO, Il potere amministrativo di autotutela, in Federalismi.it, 6 dicembre 2017; S. TUCCILLO, Autotutela amministrativa, in Diritto on line, Treccani, 2019; C. NAPOLITANO, Profili organizzativi dell’autotutela, in P.A. Persone e Amministrazione, 2019, p. 239 ss..

[15] Corte cost., sent. 05 maggio 1959, n. 23; Corte cost., sent. 01 dicembre 1959, n. 58.

[16] L. CARBONE, La riforma dell’autotutela come nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e amministrazione pubblica, Relazione al Convegno “La legge generale sul procedimento amministrativo: attualità e prospettive nei rapporti tra cittadino e p.a.”, Roma, Palazzo Spada, 20 marzo 2017; C. DEODATO, Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in www.giustizia-amministrativa.it, 4 aprile 2017.

[17] Ex multis Corte cost., sent. 28 dicembre 1971, n. 210; Corte cost., sent. 13 febbraio 1985, n. 36; Corte cost., sent. 17 dicembre 1985, n. 349.

[18] Cass. civ., sez. V, sent. 10 dicembre 2002, n. 17576.

[19] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 17 ottobre 2017, n. 8.

[20] Per esaustività espositiva si riporta la formulazione dell’art. 21-nonies, in tema di annullamento d’ufficio, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6 della L. n. 124/2015: «1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.

  1. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.

2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

[21] Cons. Stato, Sez, norm., parere 24 febbraio 2016, n. 515, punto 1.1.

[22] Cons. Stato, Sez, norm., parere 30 marzo 2016, n. 839, punto 8.1.1.

[23] C. NAPOLITANO, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite, cit., p. 2950.

[24] Ad onor del vero, l’interesse pubblico perseguito con l’istituto in trattazione è quello di eliminare dalla realtà giuridica il provvedimento di primo grado; interesse pubblico, questo, che è controbilanciato tanto dall’interesse alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici, quanto dal legittimo affidamento, di cui si discorrerà nei capitoli che seguono.

[25] M. TRIMARCHI, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017, p. 189 ss..

[26] B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa (Atti del 53° convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 20 – 22 settembre 2007), Milano, Giuffrè editore, 2008, p. 12; C. NAPOLITANO, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite, cit., p. 2959.

[27] Ibid.

[28] Cons. Stato, sez. V, 29 dicembre 2023, n. 11307.

[29] A umile parere di chi scrive, non si è nelle condizioni di escludere in via assoluta l’inesauribilità del potere di autotutela poiché il legislatore sempre con riferimento all’annullamento d’ufficio ha statuito expressis verbis al comma 2-bis, art. 21-nonies, L. n. 241/1990, una deroga al termine di decadenza legale di dodici mesi allorquando il provvedimento amministrativo di primo grado sia stato conseguito sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato. Altresì, del termine temporale a pena di decadenza non v’è traccia nemmeno nell’art. 21-quinques, L. n. 241/1990, che reca disciplina della «revoca», a meno che si aderisca a quella tesi proposta da B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 12, in cui l’Autore afferma che tale istituto è stato alquanto abusivamente introdotto nell’autotutela; laddove si accolga questa tesi, condivisibile per l’assunto che ne è posto a fondamento, ciò nonostante, la formulazione dell’art. 21-nonies, L. n. 241/1990, non permette di escludere del tutto l’inesauribilità del potere di autotutela amministrativa.

[30] All’uopo, giova richiamare la nota distinzione tra «legalità formale» e «legalità sostanziale» ove, secondo la prima, l’Amministrazione deve agire nei limiti definiti dalla legge essendo libera di compiere le sue scelte, per la seconda, l’Amministrazione deve agire conformemente alla legge; il corollario del principio di legalità sono l’art. 23 Cost., a mente del quale non possono esse imposte prestazioni personali o patrimoniali se non in forza di una legge, e l’art. 97 Cost., con riferimento ai principi di imparzialità e buon andamento.

[31] F. FRANCARIO, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, p. 8.

[32] B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 8.

[33] E. GIARDINO, L’autotutela amministrativa e l’interpretazione della norma, in Giornale di diritto amministrativo, 4/2018, p. 439 ss.; F. FRANCARIO, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, 21 ottobre 2015, p. 5; B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 8.

[34] E. GIARDINO, op. cit., p. 442.

[35] B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 13.

[36] Ivi, p. 16.

[37] F. FRANCARIO, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, cit., p. 15.

[38] M. ALLENA, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, p. 137.

[39] Ivi, p. 140.

[40] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, p. 141.

[41] A. CONTIERI, Procedimenti e provvedimenti di secondo grado, in S. COGNETTI, A CONTIERI, S. LICCIARDELLO, F. MANGANARO, S. PERONGINI, F. SAITTA (a cura di), PERCORSI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO, Torino, G. Giappichelli Editore, 2014, p. 445 ss.

[42] Con la cd. «abrogazione» si identificava il ritiro dell’atto che, a causa di un fatto sopravvenuto, non risulti più rispondente all’interesse pubblico; in altre parole, trattasi dell’odierna revoca per sopravvenienza.

[43] A. CONTIERI, op. cit., p. 453.

[44] E. STICCHI, La revoca dopo la L. n. 15 del 2005, in Foro Amm., 2006, p. 1547.

[45] È orientamento prevalente in dottrina quello secondo cui l’annullamento d’ufficio sia propriamente espressione dell’autotutela decisoria, ossia, nel senso di funzione giustiziale della P.A.; diversamente, la revoca sarebbe abusivamente inserita nell’autotutela essendo, piuttosto, espressione del riesercizio della funzione di amministrazione attiva. In tal senso, si vedano B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, in G. CASSANDRO, V. CRISAFULLI, A.M. SANDULLI (a cura di), Diritto e società, Padova, Cedam, 2009; A. CONTIERI, op. cit.; F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, in G. CASSANDRO, V. CRISAFULLI, A.M. SANDULLI (a cura di), Diritto e società, Padova, Cedam, 2009; C. NAPOLITANO, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite, cit..

[46] F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, cit., p. 587.

[47] A. CONTIERI, op. cit., p. 450.

[48] M.A. SANDULLI, Autotutela, in Libro dell’anno del Diritto, Treccani, 2016.

[49] F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, cit., p. 612.

[50] Ibid..

[51] G. MASTRODONATO, Lineamenti sull’interesse pubblico tra mito e realtà, in Rivista Giuridica AmbienteDiritto.it, fascicolo n. 1/2023, p. 23.

[52] All’uopo, giova ancora una volta richiamare la Legge n. 15/2005 che ha innovato la Legge sul procedimento amministrativo elevando il grado di garanzia di trasparenza dell’azione amministrativa ad appannaggio di una maggiore parità nel rapporto tra soggetto pubblico e cittadino all’insegna dei canoni della partecipazione consapevole, correttezza e buona fede.

[53] G. MASTRODONATO, op. cit., p. 47.

[54] G. MASTRODONATO, op. cit., p. 52.

[55] G. MASTRODONATO, op. cit., p. 53.

[56] M. RAMAJOLI, L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto d’equilibrio, in Rivista giuridica urbanistica, 2016, p. 108.

[57] Il riferimento è agli interessi dei destinatari e dei controinteressati del provvedimento di secondo grado, precisando che, se l’annullamento ha ad oggetto un provvedimento di primo grado restrittivo, l’interesse del destinatario sarà in linea con l’annullamento, mentre, se oggetto di annullamento sia un provvedimento ampliativo, l’interesse del destinatario sarà contrario all’annullamento.

[58] F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, cit., p. 588.

[59] S. VALAGUZZA, La concretizzazione dell’interesse pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento d’ufficio, in Dir. proc. amm., 2004, p. 1245.

[60] M.P. CHITI, Diritto Amministrativo Europeo, Milano, Giuffrè Editore, 2011, p. 55; M. RAGAZZO, Vincoli comunitari, discrezionalità nell’esercizio dei poteri di autotutela e conferenza di servizi, in Rivista giuridica Urbanistica e Appalti, n. 6/2016, p. 695 ss.;

[61] Ivi, p. 58 – 61.

[62] In altre parole, il Giudice nazionale è elevato a Giudice europeo cui compete la disapplicazione delle norme giuridiche nazionali contrastanti con l’ordinamento europeo: cfr. C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 52.

[63] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 40.

[64] Ivi, p. 129; B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 9.

[65] Si ritiene che, essendo un prodotto della storia di ciascun Paese, il che imprime caratteri strettamente nazionali, il diritto amministrativo, e per l’appunto l’autotutela amministrativa, sia riconducibile quanto ad origine all’Europa continentale post-rivoluzionaria. Cfr. S. CASSESE, Il diritto amministrativo: storie e prospettive, Milano, Giuffrè Editore, 2010, p. 16.

[66] Ibidem.

[67] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 130.

[68] B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 11.

[69] A tal proposito, nell’ambito del diritto privato si pensi all’esclusione della revocabilità della rinuncia al legato.

[70] Nel significato letterale «definitività del provvedimento».

[71] P.L. PORTALURI, Il nuovo diritto procedimentale nella riforma della P.A.: l’autotutela (profili interni e comunitari), in www.giustizia-amministrativa.it, 7 novembre 2016; C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 4.

[72] Da intendersi quale determinazione per legge dell’agere amministrativo, così che gli amministratori siano vincolati alla legge e i cittadini garantiti da possibili arbitrii dei primi.

[73] S. CASSESE, M. SAVINO, I caratteri del diritto amministrativo europeo, in G. DELLA CANANEA (a cura di), Diritto Amministrativo Europeo. Principi e Istituti, Milano, Giuffrè Editore, 2006, p. 181.

[74] Ivi, p. 187.

[75] Ivi, p. 187 – 188.

[76] C. NAPOLITANO, Riflessioni sull’autotutela nel diritto procedimentale europeo, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario, 2016, p. 1540.

[77] B.G. MATTARELLA, Il principio di legalità e l’autotutela amministrativa, cit., p. 20.

[78] C. NAPOLITANO, Riflessioni sull’autotutela nel diritto procedimentale europeo, cit., p. 1542.

[79] P. OTRANTO, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, cit..

[80] Corte di Giustizia, sentenza 4 aprile 1968, causa C-34/67, Lück.

[81] Corte di Giustizia, sentenza 16 dicembre 1976, causa C-33/76, Rewe.

[82] C. NAPOLITANO, Riflessioni sull’autotutela nel diritto procedimentale europeo, cit., p. 1545.

[83] Corte di Giustizia, sentenza 20 marzo 1997, causa C-24/95, Alcan.

[84] Corte di Giustizia, sentenza 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Delena Wells.

[85] Tale principio implica che la scelta amministrativa, nell’ambito del giudizio di proporzionalità, sia sottoposta ad un vaglio di adeguatezza, necessità, idoneità.

[86] M. GIAVAZZI, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in Rivista Interdisciplinare sul Diritto delle Amministrazioni Pubbliche, 2020, p. 167.

[87] Corte di Giustizia, sentenza 13 gennaio 2004, in causa C-453/00, Kühne & Heitz.

[88] Corte di Giustizia, sentenza 21 dicembre 2021, in causa C-497/20, Randstad; Corte di Giustizia, sentenza 07 luglio 2022, in causa C-261/21, Hoffman-La Roche.

[89] M. GIAVAZZI, op. cit., p. 171.

[90] G. DELLA CANANEA, Il diritto amministrativo europeo e i suoi principi fondamentali, in G. DELLA CANANEA (a cura di), Diritto Amministrativo Europeo. Principi e Istituti, Milano, Giuffrè Editore, 2006, p. 2.

[91] P.L. PORTALURI, op. cit.; C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 202; G. MASSARI, Il procedimento amministrativo italiano alla luce del diritto europeo, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2017.

[92] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 209.

[93] Ivi, p. 208.

[94] Corte di Giustizia, sentenza 12 luglio 1962, causa C-14/61, Hoogovens.

[95] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 89 – 90.

[96] Ex multis Cons. Stato, sez. VI, sent. 9 febbraio 2024, n. 1321; Cons. Stato, sez. VI, sent. 5 aprile 2024, n. 3159; Cons. Stato, sez. VI, sent. 17 maggio 2024 n. 4419

[97] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 193.

[98] Ex multis Corte cost., sent. 22 marzo 2000, n. 75; Corte cost., sent. 13 luglio 2017, n. 181.

[99] M. FRATINI, Manuale sistematico di diritto amministrativo, Roma, Accademia del Diritto, 2019.

[100] N. POSTERARO, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso, in Federalismi.it, 8 marzo 2017, p. 2.

[101] F. GAFFURI, Note in merito alla doverosità dell’annullamento d’ufficio, in Giurisprudenza Italiana, 2020, p. 751.

[102] Ivi, p. 759.

[103] F.V. VIRZI’, La doverosità del potere di annullamento d’ufficio, in Federalismi.it, 4 luglio 2018, p. 16.

[104] Ivi, p. 22.

[105] Ivi, p. 36.

[106] E. CANNADA BARTOLI, voce Annullabilità e annullamento (dir. amm.), op. cit., p. 487 – 488.

[107] C. NAPOLITANO, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite, cit..

[108] A. GUALDANI, La conferma della discrezionalità dell’annullamento d’ufficio, in Federalismi.it, 17 gennaio 2018, p. 3; M. ALLENA, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, cit., p. 29.

[109] M. ALLENA, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, cit., p. 32.

[110] N. POSTERARO, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), in Federalismi.it, 25 ottobre 2017, p. 22.

[111] S. D’ANCONA, Interesse pubblico, discrezionalità amministrativa e istanza di parte nell’annullamento d’ufficio: riflessioni sui recenti sviluppi dottrinari e giurisprudenziali fra diritto interno e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, pag. 537 ss..

[112] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 17 ottobre 2017, n. 8.

[113] Ex multis Cons. Stato, sez. VI, sent. 6 aprile 2022, n. 2564; Cons. Stato, sez. IV, sent. 9 luglio 2020, n. 4405; Cons. Stato, sez. IV, sent. 4 novembre 2020, n. 6809; Cons. Stato, sez. V, sent. 4 maggio 2015, n. 2237; Cons. Stato, sez. IV, sent. 26 agosto 2014, n. 4309.

[114] M. ALLENA, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione dell’ordinamento amministrativo, in Federalismi.it, 11 aprile 2018.

[115] S. TUCCILLO, Autotutela: potere doveroso?, in Federalismi.it, 10 agosto 2016.

[116] N. POSTERARO, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso, cit., p. 9.

[117] T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 15 ottobre 2019, n. 1581, in Urbanistica e appalti, 2020, p. 705, con nota di F. GAFFURI, Osservazioni sull’obbligo di provvedere sulle istanze di autotutela; N. POSTERARO, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso, cit., p. 10; S. TUCCILLO, Autotutela: potere doveroso?, cit., p. 8

[118] N. POSTERARO, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso, cit., p. 11.

[119] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 17 ottobre 2017, n. 8.

[120] N. DURANTE, L’autotutela doverosa, Relazione svolta al corso di formazione sul tema “Il diritto amministrativo italiano tra diritto UE e CEDU”, organizzato dall’Ufficio Studi della Giustizia amministrativa, 14 marzo 2022.

[121] Ivi, p. 25.

[122] M. SINISI, La nuova azione amministrativa: il tempo dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori in caso di S.C.I.A.. Certezza del diritto, tutela del terzo e falsi miti, in Federalismi.it, 23 dicembre 2015, p. 14 – 15.

[123] Ex multis Cons. Stato, Sez. VI, sent. 27 febbraio 2024, n. 1926; Cons. Stato, Sez. IV, sent. 18 marzo 2021 n. 2329.

[124] M. SINISI, La nuova azione amministrativa: il tempo dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori in caso di S.C.I.A.. Certezza del diritto, tutela del terzo e falsi miti, op. cit., p. 17.

[125] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 17 ottobre 2017, n. 8.

[126] Il riferimento è agli atti normativi e a contenuto generale che sono espressione di discrezionalità politica e non amministrativa.

[127] F. CARINGELLA, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2008, p. 425.

[128] Il riferimento è al fenomeno del legal trasplant quale attività di elaborazione della Corte di Giustizia che, sulla scorta dell’interazione tra gli ordinamenti degli Stati membri e quello dell’Unione Europea, riconosce ai principi dei primi pari dignità rispetto ai principi del secondo, elevandoli a principi generali ed integrativi dell’ordinamento comunitario. 

[129] Corte di Giustizia, sentenza 3 maggio 1978, causa C-112/77, Töpfer c. Commissione.

[130] Ex multis Corte di Giustizia, sentenza 5 maggio 1980, causa C-112/80, Dürbeck; Corte di Giustizia, sentenza 16 maggio 1979, causa 84/79, Tomadini.

[131] Corte di Giustizia, sentenza 20 dicembre 2017, causa C-322/16, Global Starnet.

[132] Cons. Stato, Sez. III, sent. 8 luglio 2020, n. 4392.

[133] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 183.

[134] A. PROFETA, Osservazioni sui principi generali del diritto dell’Unione europea: la tutela del legittimo affidamento, op. cit., p. 2.

[135]  F. MERUSI, L’affidamento del cittadino, Milano, Giuffrè Editore, 1970.

[136] Il riferimento, in ordine alla buona fede in senso soggettivo, è agli artt. 1147 rubricato «possesso di buona fede», 1153 in relazione al «possesso vale titolo»; in relazione alla buona fede in senso oggettivo, rilevano gli artt. 1337 circa la formazione del contratto, 1366 sull’interpretazione del contratto, 1375 in materia di esecuzione del contratto.

[137] M. PERRELLI, Autotutela e affidamento, in RASSEGNA MONOTEMATICA DI GIURISPRUDENZA, Ufficio del massimario della Giustizia Amministrativa, 31 dicembre 2022, p. 5.

[138] F. CARINGELLA, Affidamento e autotutela: la strana coppia, op. cit..

[139] M. PERRELLI, Autotutela e affidamento, op. cit., p. 17.

[140] M. PERRELLI, Autotutela e affidamento, op. cit., p. 21.

[141] Cass. civ., sez. un., ord. 24 gennaio 2021, n. 2175.

[142] Ex multis Cass. civ., sez. un., sent. 15 gennaio 2021, n. 615; Cass. civ., sez. un., ord. 24 gennaio 2021, n. 2175; Cass. civ., sez. un., ord. 28 agosto 2023, n. 25324; Cass. civ., sez. un., ord. 14 maggio 2024, n. 13191.

[143] Il riferimento è: all’art. 1, comma II-bis, secondo cui i rapporti tra Amministrazione e cittadino sono regolati, tra gli altri, dai principi di correttezza e buona fede; all’art. 2-bis, comma I, circa il diritto del cittadino a vedersi risarcito il danno ingiusto sofferto e prodotto dal mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento amministrativo; all’art. 21-quinquies e all’art. 21-nonies.

[144] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 181.

[145] Invero, con la Legge n. 15/2005 è stato modificato l’art. 1, Legge n. 241/1990, prevedendo il richiamo ai principi dell’ordinamento comunitario; solo con il D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, è stato inserito il riferimento ai canoni della correttezza e buona fede che devono ispirare i rapporti tra cittadino e Amministrazione Pubblica.

[146] S. VALAGUZZA, La concretizzazione dell’interesse pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento d’ufficio, op. cit..

[147] A parere di chi scrive, intendendosi come tali i controinteressati.

[148] C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa: nuovi paradigmi e modelli europei, cit., p. 216-218.

[149] G. GUGLIELMI, Responsabilità e Pubblica Amministrazione: nuovi confini tra pubblico e privato?, in Responsabilità civile e previdenza, 2021, p. 988 ss..

[150] Ex multis Cass. civ., sez. un., sent. 28 aprile 2020, n. 8236; Cass. Civ., sez. I, sent. 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, sent. 21 novembre 2011, n. 24438; Cass. civ., sez. II, sent. 01 dicembre 2010, n. 24382; Cass. civ., sez. I, sent. 10 gennaio 2003, n. 157.

[151] Cass. civ., sez. I, sent. 12 luglio 2016, n. 14188.

[152] E. ZAMPETTI, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza Plenaria n. 7 del 2021, in Giustizia Insieme, 2021.

[153] V. ANTONELLI, Dal contatto sociale al rapporto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005, p. 601 ss..

[154] C. NAPOLITANO, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza Plenaria, in Riv. Giuridica dell’Edilizia, 2022, p. 20.

[155] L. CANNATA, La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per attività provvedimentale, in Danno e responsabilità, 2022, p. 306.

[156] Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2022, n. 10269, in Danno e responsabilità, 2023, p. 384 ss., con nota di L. LANO, Una questione (non) risolta: la natura della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, p. 387.

[157] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 23 aprile 2021, n. 7.

[158] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 29 novembre 2021, n. 20.

[159] Si veda in proposito l’art. 2, Legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E.

[160] Corte cost., sent. 26 luglio 2004, n. 204.

[161] Cass. civ., sez. un., sent. 19 gennaio 2023, n. 1567; Cass. civ., sez. un., sent. 28 aprile 2020, n. 8236; Cass. civ., sez. un., ord. 23 maggio 2011, nn. 6594, 6595, 6596.

[162] G. TULUMELLO, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in www.giustamm.it, 9 maggio 2022.

 

[163] C. NAPOLITANO, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza Plenaria, cit., p. 7.

[164] Ivi, p. 8.

[165] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 29 novembre 2021, 20.

[166] M.A. SANDULLI, Il risarcimento del danno nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in Federalismi.it, 28 marzo 2011.

[167] Corte cost., sent. 26 luglio 2004, n. 204.

[168] Corte cost., sent. 11 maggio 2006, n. 191.

[169] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 3 dicembre 2008, n. 13.

[170] Cons. Stato, Ad. Plen., sent. 23 aprile 2021, n. 7.

[171] A. AMORE, Gli elementi costitutivi della responsabilità da atto legittimo o da attività lecita della Pubblica Amministrazione: alcune considerazioni, in P.A. Persone e Amministrazione, 24 settembre 2023, p. 539.

[172] Ex multis Cons. Stato, sez. V, sent. 21 aprile 2015, n. 2013; Cons. Stato, sez. V, sent. 14 ottobre 2014, n. 5082.

[173] Ex multis T.A.R. Aosta, sez. I, sent. 25 giugno 2020, n. 20; Cons. Stato, sez. V, sent. 6 ottobre 2010 n. 7334; Cons. Stato, sez. V, sent. 14 aprile 2008, n. 1667; Cons. Stato, sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5266.

[174] F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, cit., p. 608.

[175] Ivi, p. 607.

[176] A. AMORE, Gli elementi costitutivi della responsabilità da atto legittimo o da attività lecita della Pubblica Amministrazione: alcune considerazioni, op. cit., p. 559.

[177] Cons. Stato, Ad. Comm. Spec., parere 23 giugno 2016, n. 1640.

[178] A. BERTI SUMAN, Il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, legge n. 241/90): dovere di istruttoria e potere di autotutela, in Riv. Foro Amministrativo, n. 6-2016, p. 1676.

[179] Ivi, p. 1675.

[180] Ex multis Cons. Stato, Ad. Plen., sent.21 gennaio 2020, n. 506; Cons. Stato, sez. IV, sent. 11 aprile 2014, n. 1767.

[181] Ex multis Cons. Stato, Sez. VI, sent. 14 febbraio 2022, n. 1050; C.G.A. Regione Sicilia, sent. 19 gennaio 2022, n. 89; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 21 gennaio 2020, n.506.

[182] Cons. Stato, Sez. II, sent. 07 marzo 2023, n. 2371.

[183] M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, 16 settembre 2015.

[184] Corte cost., sent. 6 febbraio 2019, n. 45.

[185] A. MATTOSCIO, L’autotutela e la SCIA edilizia, in Giornale di diritto amministrativo, 2023, pp. 779 – 787; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 14 gennaio 2021, n. 266, in Giurisprudenza Italiana, 2021, p. 1717, con nota di G. F. NICODEMO, SCIA e autotutela: la P.A. deve provvedere sull’istanza di annullamento del terzo; Cons. Stato, sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737, in Giustizia Insieme, 2022, con nota di G. SERRA, SCIA, tutela del terzo e obbligo di riesame.

[186] M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, cit., p. 12.

[187] G. F. NICODEMO, SCIA e autotutela: la P.A. deve provvedere sull’istanza di annullamento del terzo, op. cit..

[188] M. CAPPELLANO, L’affidamento in fattispecie tipiche: annullamento d’ufficio, SCIA, silenzio-assenso, revoca, Relazione al 2° incontro di studio in memoria di Nicola Maisano, “Buona fede e affidamento nel rapporto amministrativo”, tenutosi il 13 settembre 2024 presso il T.A.R. per la Sicilia, Palermo, Palazzo Benso.

[189] Cons. Stato, sez. sez. VI, sent. 3 marzo 2006, n. 1023.

[190] P. PATRITO, Il nuovo rito appalti e il parere di precontenzioso dell’Anac, in Giurisprudenza Italiana, agosto – settembre 2023.

[191] P. PATRITO, Il nuovo rito appalti e il parere di precontenzioso dell’Anac, op. cit., p. 1990.

[192] Ivi, p. 1991.

[193] Il riferimento è alle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE.

[194] M. RAMAJOLI, Il precontenzioso nei contratti pubblici tra logica preventiva e tutela oggettiva, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2018.

[195] Il riferimento è rispettivamente agli artt. 374 cod. proc. civ., 618 cod. proc. pen., 99 cod. proc. amm..

[196] M. RAMAJOLI, Il precontenzioso nei contratti pubblici tra logica preventiva e tutela oggettiva, cit., p. 14.

[197] Cons. Stato, sez. III, sent. 11 gennaio 2018, n. 136.

[198] Ex multis CGA – Sezione Giurisdizionale, sent. 21 ottobre 2019, n. 917; Cons. Stato, sez. V, sent. 19 maggio 2016, n. 2095.

[199] P. OTRANTO, Riflessioni in tema di decisione amministrativa, intelligenza artificiale e legalità, in Federalismi.it, 10 marzo 2021.

[200] V. NERI, Diritto amministrativo e intelligenza artificiale: un amore possibile, in Urbanistica e Appalti, 2021, fascicolo 5, p. 581 ss..

[201] P. OTRANTO, Riflessioni in tema di decisione amministrativa, intelligenza artificiale e legalità, cit., p. 190.

[202] Cons. Stato, sez. VI, sent. 13 dicembre 2019, n. 8472.

[203] G. GALLONE, A.G. OROFINO, L’intelligenza artificiale al servizio delle funzioni amministrative: profili problematici e spunti di riflessione, in Giurisprudenza italiana, luglio 2020, p. 1741.

[204] V. NERI, Diritto amministrativo e intelligenza artificiale: un amore possibile, op. cit..

[205] Ex multis Cons. Stato, sez. VI, sent. 13 dicembre 2019, n. 8472; Cons. Stato, sez. VI, sent. 08 aprile 2019, n. 2270.

[206] S. PUDDU, La tutela dell’affidamento del cittadino nel quadro delle trasformazioni del sistema amministrativo, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2021, p. 1767 ss..

[207] G. TULUMELLO, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, op. cit..

[208] D’altronde, l’art. 7 cod. proc. amm. nel determinare la giurisdizione del Giudice amministrativo prevede espressamente che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nella quali si faccia questione di interessi legittimo e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da Pubbliche Amministrazioni.

[209] F.E. GRISOSTOLO, L’autotutela decisoria nei diritti amministrativi europei fra convergenza e differenziazione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2023.

[210] In proposito, la revoca potrebbe essere configurata come ulteriore modulo eventuale del procedimento amministrativo, essendo piuttosto espressione della inesauribilità del potere amministrativo che non del potere di tutela giustiziale, da sottoporre a specifici termini temporali, ad un obbligo di motivazione rafforzato rispetto all’annullamento del provvedimento amministrativo per vizi di legittimità e alla previsione, nella sola ipotesi del provvedimento legittimo e favorevole, del risarcimento del danno prodotto dall’affidamento ingenerato, atteso che la revoca ha ad oggetto provvedimenti che sono affetti da vizi di legittimità.

[211] C. NAPOLITANO, Profili organizzativi dell’autotutela, cit., p. 16 – 19.

[212] G. GALLONE, A.G. OROFINO, L’intelligenza artificiale al servizio delle funzioni amministrative: profili problematici e spunti di riflessione, op. cit.; G. GALLONE, Riserva di umanità e funzioni amministrative, Milano, Wolters Kluwer, 2023.

[213] G. GALLONE, Riserva di umanità e funzioni amministrative, cit., p. 76 – 77.

 

 

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