Tratto da: Lavori Pubblici
Quando più interventi realizzati nel tempo finiscono per modificare stabilmente un’area, come si ricostruisce la reale portata dell’abuso? È possibile “scomporre” le opere per ridurre gli effetti dell’ordinanza di demolizione? E quali margini restano al privato per evitare l’acquisizione gratuita prevista dall’art. 31 del Testo Unico Edilizia?
In un Paese costellato di piccole e grandi difformità edilizie perpetuate nel corso dei decenni e alla vigilia della riforma della normativa edilizia oltre che della possibile decisione su un nuovo condono, il Consiglio di Stato, con la sentenza 27 novembre 2025, n. 9340, torna a ribadire alcuni concetti che dovrebbero ormai essere pacifici, affrontando una vicenda che ruota attorno a un piccolo chiosco, apparentemente precario, e a una serie di opere successive che, sommate, hanno finito per dare vita a un contesto del tutto diverso da quello originariamente assentito.
Entrando nel dettaglio della sentenza, tutto nasce da un chiosco autorizzato negli anni ’80. Una struttura semplice, appoggiata su piedi metallici, pensata per un uso temporaneo legato alla vendita di giornali. Nel corso degli anni, però, il chiosco non era stato mai rimosso e, anzi, attorno a esso erano stati inseriti altri manufatti: una piattaforma in cemento “adeguata” nel 2010, un armadio metallico usato come deposito, una recinzione e alcune pavimentazioni (qualcosa che, probabilmente, abbiamo visto in ogni città italiana).
Interventi che il proprietario riteneva marginali e autonomi, ciascuno con una sua logica e – almeno secondo la sua prospettazione – non sempre riconducibili alla nozione di nuova costruzione. Il Comune, invece, aveva letto l’intero insieme come una trasformazione edilizia unica, priva di titolo, e aveva ordinato la demolizione, avviando anche il procedimento di acquisizione gratuita. Il TAR aveva confermato la correttezza dell’impianto sanzionatorio e la vicenda era approdata al Consiglio di Stato.
Per comprendere la decisione è utile richiamare l’architettura normativa su cui ragiona il Consiglio di Stato.
Quando un’opera è realizzata senza titolo o in totale difformità, l’amministrazione deve ingiungere la demolizione e concedere 90 giorni per l’adempimento. Se il privato non provvede, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale si verifica automaticamente. Ed è proprio su questo automatismo che il Consiglio di Stato ha insistito: l’effetto traslativo matura di diritto allo spirare dei 90 giorni.
Ciò non significa, però, che il procedimento possa proseguire senza formalità. L’amministrazione deve comunque adottare un provvedimento di accertamento dell’inottemperanza, indispensabile per entrare nel possesso dell’area e trascrivere l’acquisizione nei registri immobiliari. Senza questo atto, di natura dichiarativa, la vicenda non può essere consolidata nei confronti dei terzi.
Accanto alla demolizione spontanea, resta ovviamente la possibilità – da sempre prevista sia dalla legge n. 47/1985 sia dal Testo Unico – di evitare l’acquisizione attraverso l’ottenimento di una sanatoria entro lo stesso termine.
Infine, un ruolo decisivo lo assume la definizione di “nuova costruzione” di cui all’art. 3, comma 1, lett. e.5) del Testo Unico Edilizia, secondo la quale anche un manufatto appoggiato o facilmente rimovibile può rientrare nella categoria quando smette di essere temporaneo e diventa funzionalmente stabile.
La decisione lavora su alcuni principi che, negli anni, la giurisprudenza ha affinato e che il Consiglio di Stato riprende in modo molto chiaro.
Intanto, come anticipato, la procedura di acquisizione al patrimonio comunale a seguito di inottemperanza alla demolizione richiede una scansione precisa. Il termine di 90 giorni è ciò che fa scattare l’effetto traslativo, ma l’amministrazione non può prescindere dall’accertamento formale dell’inottemperanza, che serve a dare certezza al procedimento, a rendere legittima l’immissione in possesso e a trascrivere l’acquisizione. È una fase spesso sottovalutata, ma indispensabile per la validità dell’intero impianto.
Altro aspetto, più volte sottolineato dalla giustizia amministrativa, riguarda la valutazione degli abusi che va effettuata nel suo insieme e non in modo “atomistico”. Nel caso oggetto della sentenza, il TAR aveva già applicato questo principio e il Consiglio di Stato lo ha confermato: una serie di opere, anche se autonomamente in parziale difformità, possono dar vita a un’unica trasformazione finale, e ciò che conta non è la “somma” delle singole opere, ma l’effetto complessivo sul territorio.
Per questo, Palazzo Spada ha confermato la decisione del TAR, ritenendo corretto considerare il chiosco, la piattaforma, l’armadio-deposito e la recinzione come parti di un unico contesto edilizio privo di titolo.
Ulteriore rilievo del Consiglio di Stato riguarda il concetto di “precarietà” che sottende alle opere prive di impatto nel territorio. Nel caso di specie, il chiosco, pur essendo nato come struttura temporanea, aveva perso ogni carattere di precarietà: era stabile, permanente, destinato a un uso continuativo e funzionale all’attività commerciale. In questa prospettiva, rientrava pienamente tra le nuove costruzioni soggette a permesso di costruire.
Ultimo interessante aspetto da rilevare, riguarda il fatto che ha riconosciuto che una parte dell’abuso contestato era in adeguamento legittimo, un’altra in ampliamento abusivo. L’amministrazione avrebbe, quindi, dovuto rideterminare l’ordine di demolizione e l’acquisizione limitandole solo alla parte ampliata.
Guardando alla vicenda con un approccio tecnico-operativo, emergono tre elementi che i professionisti incontrano spesso.
Il primo riguarda la valutazione unitaria dell’intervento. Quando gli elementi accessori – piccoli ampliamenti, edicole, recinzioni, basamenti, pannelli – sono tutti funzionalmente orientati a stabilizzare un uso e a rendere permanente un’attività, difficilmente possono essere letti come irregolarità isolate. Il loro peso va misurato rispetto al risultato finale, che qui era chiaramente quello di consolidare un vero e proprio punto vendita fisso.
Il secondo riguarda la precarietà dei manufatti: non conta l’apparenza costruttiva, ma l’effettiva destinazione. Anche un manufatto appoggiato può essere una nuova costruzione se diventa parte stabile dell’assetto territoriale. È una linea che la giurisprudenza sta ribadendo da anni e che questa decisione conferma una volta di più.
Il terzo riguarda la corretta individuazione dello stato legittimo, soprattutto nei casi in cui un’opera è stata oggetto di interventi successivi. Il caso della piattaforma lo mostra bene: non basta dire “è abusiva” o “è legittima”; occorre ricostruirne la storia, distinguere gli adeguamenti dagli ampliamenti e calibrare di conseguenza l’ordine di demolizione.
Il Consiglio di Stato ha, dunque, confermato la legittimità dell’ordine di demolizione e dell’avvio dell’acquisizione, respingendo l’appello. Tuttavia, il Comune dovrà rimodulare la portata della demolizione e dell’acquisizione limitandole alla sola parte della piattaforma che risulta effettivamente ampliata oltre il legittimo.
Da un punto di vista operativo, la sentenza ribadisce alcuni passaggi che i tecnici devono considerare con attenzione:
- negli abusi stratificati, l’approccio frammentato non è quasi mai sufficiente: è il quadro complessivo a determinare la qualificazione edilizia;
- la temporaneità delle strutture deve essere provata nei fatti, non solo nella forma costruttiva;
- l’accertamento di inottemperanza è un atto chiave dell’acquisizione, non un passaggio formale accessorio;
- lo stato legittimo va sempre ricostruito con precisione, soprattutto nei casi in cui un’opera sia stata modificata più volte nel tempo.
Concludiamo ricordando che il caso oggetto della sentenza, alla luce del nuovo art. 36-bis del Testo Unico Edilizia introdotto dal Salva Casa (D.L. n. 69/2024, convertito in Legge n. 105/2024), avrebbe potuto essere gestito mediante presentazione di istanza di sanatoria “semplificata” con doppia conformità asimmetrica e un progetto di adeguamento funzionale per riportare l’abuso all’interno della legalità urbanistica-edilizia.

