Tratto da: Lavori Pubblici  

Quali interventi possono essere sanati in area vincolata? È possibile ottenere la compatibilità paesaggistica per opere che hanno comportato un aumento di volume, anche minimo? E come si coordina la giurisprudenza del Consiglio di Stato con le novità normative introdotte dal 2024?

Per rispondere a queste domande prendiamo spunto dalla sentenza n. 7876 dell’8 ottobre 2025, mediante la quale il Consiglio di Stato è intervenuto su una controversia nata a seguito di una istanza di sanatoria edilizia (art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, c.d. Testo Unico Edilizia) e di accertamento di compatibilità paesaggistica (art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio) presentate per un edificio situato in area sottoposta a vincolo paesaggistico.

Durante un sopralluogo, i tecnici comunali avevano riscontrato una serie di modifiche rilevanti: aumento dell’altezza di colmo e di imposta, innalzamento dei corpi scala, modifica della copertura e trasformazione del sottotetto — che in progetto figurava come semplice ripostiglio — in un ambiente abitabile con camera e bagno. Sulla base di tali rilievi, l’Amministrazione comunale aveva negato con un unico provvedimento sia la sanatoria edilizia sia quella paesaggistica, ritenendo che le opere avessero determinato una modifica sostanziale della sagoma e un aumento dei volumi complessivi.

I proprietari avevano impugnato il diniego, sostenendo che le opere fossero di scarsa rilevanza e che l’aumento volumetrico non incidesse realmente sul paesaggio. Tuttavia, il primo grado il TAR ha confermato gli atti del Comune. Quindi il ricorso al Consiglio di Stato.

In secondo grado, gli appellanti hanno contestato la decisione del TAR sotto diversi profili, ritenendo che il diniego comunale fosse viziato da errori di diritto e da evidenti carenze istruttorie.

Anzitutto, hanno lamentato che il giudice di primo grado avrebbe recepito acriticamente la tesi del Comune sull’aumento di altezza e di volume, senza applicare la legge regionale più favorevole in materia di sottotetti, che esclude dal computo volumetrico gli spazi conformi a determinati limiti di altezza.

Hanno poi censurato l’applicazione troppo rigida dell’art. 167 del Codice dei beni culturali, ritenendo che l’Amministrazione avrebbe dovuto valutare concretamente l’impatto paesaggistico e non limitarsi a richiamare un generico incremento volumetrico. In questa prospettiva, gli appellanti hanno denunciato anche la mancata acquisizione del parere della Soprintendenza e la carenza di motivazione sulla reale incidenza ambientale delle opere.

Ulteriori doglianze hanno riguardato il difetto di istruttoria (per l’utilizzo di documentazione riferita ad altro edificio), la mancata comunicazione dei motivi ostativi ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, nonché l’applicazione automatica del vincolo paesaggistico del 1956 senza verificare se il contesto urbanistico fosse mutato nel tempo.

Infine, gli appellanti hanno richiamato la soglia di tolleranza del 2% prevista dall’art. 34-bis del Testo Unico Edilizia, sostenendo che le difformità riscontrate rientrassero entro limiti fisiologici e non potessero comportare un diniego di sanatoria.

Per comprendere la decisione del Consiglio di Stato è utile ripercorrere brevemente le norme che regolano la materia.

Il punto di partenza è l’art. 167, comma 4, lett. a), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che consente l’accertamento di compatibilità paesaggistica soltanto in alcuni casi. L’accertamento è ammesso solo per gli interventi che non abbiano comportato la creazione o l’aumento di superfici utili o volumi. È una norma di carattere eccezionale, che delimita in modo rigoroso le ipotesi di “regolarizzazione postuma” sotto il profilo paesaggistico.

A questo si affiancano le disposizioni del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia):

  • l’art. 31 disciplina le conseguenze degli abusi edilizi, prevedendo la demolizione per le opere realizzate in totale difformità o con variazioni essenziali;
  • l’art. 36 regola invece la sanatoria ordinaria, subordinandola alla cosiddetta doppia conformità, ossia alla rispondenza dell’intervento sia alla normativa vigente al momento della realizzazione, sia a quella in vigore al momento della richiesta di sanatoria.

Vanno, infine, ricordati gli articoli 146 e 159 del Codice dei beni culturali secondo i quali l’autorizzazione paesaggistica deve essere sempre preventiva, non potendo essere rilasciata dopo l’esecuzione dei lavori, se non nei limitati casi previsti dallo stesso art. 167.

È questo il quadro normativo che – almeno fino alle modifiche apportate al Testo Unico Edilizia dalla Legge n. 105/2024 di conversione del D.L. n. 69/2024 (Salva Casa) – non lasciava spazio ad alcuna compatibilità paesaggistica per opere che avessero modificato volumi, sagome o prospetti.

Sulla base di queste premesse, il Consiglio di Stato ha confermato la piena legittimità del diniego comunale.

Secondo i giudici, l’aumento di volume rappresenta un elemento ostativo insuperabile all’accertamento di compatibilità paesaggistica. La semplice circostanza che il sottotetto sia stato trasformato in locale abitabile — con conseguente incremento della cubatura complessiva — basta a escludere la possibilità di regolarizzare l’opera.

Non assume rilievo, dunque, la modestia dell’intervento, né la sua eventuale scarsa percepibilità dall’esterno. La valutazione di compatibilità paesaggistica non si misura sulla base dell’impatto visivo, ma sul rispetto oggettivo dei limiti volumetrici imposti dalla legge.

I giudici di Palazzo Spada hanno, inoltre, sottolineato che il diniego non presenta alcun vizio istruttorio, poiché il Comune aveva già richiesto ai proprietari la documentazione necessaria a completare l’istruttoria, senza ricevere riscontro. Il verbale di sopralluogo dei tecnici comunali — che documenta con precisione le modifiche strutturali — costituisce, ai sensi dell’art. 2700 del Codice civile, una prova piena fino a querela di falso.

In sintesi, per il Consiglio di Stato, una volta accertato l’aumento volumetrico, l’amministrazione non ha alcun margine discrezionale: deve negare la sanatoria paesaggistica, trattandosi di un provvedimento vincolato. La successiva invocazione di norme regionali, come quelle sul recupero abitativo dei sottotetti, non può incidere sull’esito del procedimento, poiché la loro applicazione resta comunque subordinata alla legittimità paesaggistica dell’intervento.

La decisione del Consiglio di Stato si inserisce in un quadro normativo anteriore alla riforma del 2024. Con l’introduzione dell’art. 36-bis del d.P.R. 380/2001, il legislatore ha infatti previsto una nuova procedura di sanatoria semplificata per le ipotesi di parziali difformità e variazioni essenziali, consentendo — in casi circoscritti — l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica anche in presenza di aumenti di volume o superficie utile.

Il comma 4 dell’art. 36-bis stabilisce che, quando gli interventi sono stati eseguiti senza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica, il dirigente comunale può richiedere all’autorità preposta al vincolo il parere vincolante per la valutazione di compatibilità, “anche in caso di lavori che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi”.

Il Ministero della Cultura, con la Circolare n. 19 del 4 aprile 2025, ha chiarito che non si tratta di una deroga sostanziale all’art. 167, ma di una specifica eccezione applicabile solo alle ipotesi previste dall’art. 36-bis, cioè agli abusi parziali (tralasciando le “variazioni essenziali”).

Il parere della Soprintendenza resta vincolante, con un termine di 90 giorni, decorso il quale si forma il silenzio-assenso.

Rimangono invece esclusi gli abusi totali e le variazioni essenziali in area vincolata, che l’art. 32, comma 3, del Testo Unico considera equiparati agli abusi totali, con applicazione delle sanzioni demolitorie previste dagli articoli 31 e 44.

Una distinzione che, come evidenziato in un nostro approfondimento, lascia ancora aperte molte questioni applicative e un evidente bisogno di coordinamento normativo.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto irrilevante il richiamo alla soglia di tolleranza del 2% prevista dall’art. 34-bis del d.P.R. 380/2001, chiarendo che nel caso concreto non si trattava di minime difformità geometriche o dimensionali, ma di modifiche sostanziali della sagoma e del volume dell’edificio.

Il Collegio ha infatti accertato, sulla base del verbale di sopralluogo, che le opere avevano comportato l’innalzamento delle altezze di imposta e di colmo, la modifica del corpo scala, la variazione della copertura e la trasformazione del sottotetto in locali abitabili.

Queste modifiche, osserva la sentenza, vanno ben oltre i limiti di tolleranza previsti dall’art. 34-bis, che riguardano solo differenze minime, misurabili entro percentuali fisiologiche, e non vere e proprie trasformazioni strutturali.

Inoltre, la pronuncia precisa che l’aumento volumetrico accertato osta in ogni caso alla compatibilità paesaggistica ex art. 167, comma 4, lett. a), del Codice dei beni culturali, rendendo superfluo qualsiasi esame sulle tolleranze costruttive.

La disciplina sulle tolleranze, infatti, attiene al profilo edilizio, ma non può incidere sulla valutazione paesaggistica, che resta rigidamente ancorata al principio del “divieto di aumento di volume” nelle aree vincolate.

In sintesi, il Consiglio di Stato ha respinto implicitamente la censura, affermando che:

  • le opere non rientrano nel concetto di “tolleranza costruttiva” ex art. 34-bis, ma configurano un vero e proprio aumento volumetrico;
  • anche se rientrassero nei limiti percentuali di legge, la presenza di vincolo paesaggistico esclude comunque la possibilità di sanatoria, poiché l’art. 167, comma 4, lett. a), non consente eccezioni quantitative.

    Un ulteriore elemento di novità riguarda il recupero dei sottotetti, ambito su cui il “Salva Casa” è intervenuto direttamente introducendo il comma 1-quater all’art. 2-bis del Testo Unico Edilizia.

    La norma consente tali interventi — nel rispetto delle leggi regionali — anche quando non sia possibile mantenere le distanze minime tra edifici o dai confini, a condizione che:

    • siano rispettate le distanze vigenti all’epoca della realizzazione dell’edificio;
    • non vengano modificate la forma e la superficie del sottotetto;
    • sia mantenuta l’altezza massima assentita dal titolo originario.

    Si tratta di una disposizione che punta a favorire l’ampliamento dell’offerta abitativa senza consumo di nuovo suolo, rendendo più agevole il recupero di spazi sottoutilizzati.

    Tuttavia, anche in presenza della nuova previsione, un aumento di volume in area vincolata continua a costituire un ostacolo alla sanatoria, in linea con il principio ribadito dal Consiglio di Stato.

    La pronuncia del Consiglio di Stato conferma un principio che resta centrale: in presenza di vincolo paesaggistico, ogni incremento di volume costituisce una violazione sostanziale che non può essere sanato.

    Alla luce di questo quadro, l’attuale disciplina distingue due percorsi principali di regolarizzazione, ciascuno con proprie condizioni e limiti:

    • la sanatoria ordinaria (art. 36 TUE):
      • si applica agli abusi totali;
      • richiede la doppia conformità urbanistica ed edilizia simmetrica;
      • in area vincolata, la mancanza di compatibilità paesaggistica rende automaticamente insanabile l’intervento e la stessa è ammessa solo alle condizioni previste dall’art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (tra le quali nessun aumento di volume o di superfici);
    • la sanatoria semplificata (art. 36-bis TUE):
      • applicabile per abusi parziali e variazioni essenziali;
      • richiede la doppia conformità urbanistica ed edilizia asimmetrica;
      • è ammesso il parere di compatibilità paesaggistica anche con aumento di volumi e di superfici (tranne che per le variazioni essenziali che automaticamente diventano abusi totali).

        Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso, confermando la legittimità del diniego di compatibilità paesaggistica e l’obbligo di demolizione delle opere abusive. Una decisione che resta pienamente coerente con il sistema tradizionale, ma che oggi si confronta con una normativa in evoluzione, nella quale il confine tra tutela e semplificazione si fa sempre più sottile.

        In sintesi:

        • per gli abusi totali e le variazioni essenziali su immobili vincolati continua ad applicarsi l’art. 36 TUE, con esclusione di qualsiasi compatibilità paesaggistica;
        • per gli abusi parziali, la nuova sanatoria semplificata ex art. 36-bis consente l’accertamento paesaggistico anche in presenza di aumenti volumetrici, purché con parere favorevole della Soprintendenza;
        • il silenzio-assenso previsto dal comma 4 dell’art. 36-bis richiede grande cautela applicativa, specie nei procedimenti che coinvolgono beni paesaggistici;
        • la tutela del paesaggio, pur nella logica di semplificazione introdotta dal “Salva Casa”, resta un principio costituzionale che continua a orientare l’azione amministrativa e giudiziaria.

        Il caso conferma che la semplificazione non può mai tradursi in un abbassamento dei livelli di tutela, ma deve restare strumento di equilibrio tra l’interesse pubblico e le esigenze del costruito esistente.

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