Tratto da: Lavori Pubblici  

È possibile sanare tramite condono edilizio un manufatto interrato se non compare nelle aerofotogrammetrie? Quali elementi probatori deve fornire il privato per dimostrare la realizzazione entro il termine ultimo previsto? E fino a che punto vale il principio di “vicinanza della prova” nel contesto delle sanatorie edilizie?

 

Il terzo condono edilizio (art. 32, D.L. n. 269/2003 convertito in Legge n. 326/2003) ha rappresentato l’ultima finestra normativa per regolarizzare opere abusive tramite il condono “straordinario”. Questa norma, tra le altre condizioni, ha fissato al 31 marzo 2003 il termine ultimo per ultimare le opere condonabili.

Su questa condizione esiste ormai una copiosa giurisprudenza che, al pari della dimostrazione dello “stato legittimo”, ha chiarito che l’onere di provare la realizzazione dell’opera entro questa data ricade esclusivamente sul privato (il principio di “vicinanza della prova”). Grava, cioè, sul privato che presenta istanza di condono l’onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell’immobile abusivo, in quanto solo l’interessato può fornire atti inconfutabili, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto.

Su questo tema è tornato il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 7644 del 1° ottobre 2025, ha fornito nuovi e interessanti spunti che riguardano un ampliamento volumetrico interrato non documentato dalle aerofotogrammetrie.

Nel caso oggetto del nuovo intervento di Palazzo Spada, il Comune aveva negato la sanatoria straordinaria sulla base di alcune aerofotogrammetrie realizzate prima della data ultima prevista dal terzo condono edilizio, dalle quali non si evinceva la realizzazione del manufatto interrato.

Il rigetto veniva impugnato al TAR che, però, lo confermava sul rilievo che non l’istante non avrebbe, comunque, fornito elementi sufficienti onde dimostrare la realizzazione dell’opera nel termine ultimo previsto (appunto il 31 marzo 2003). Quindi il ricorso al Consiglio di Stato.

Il nuovo intervento del Consiglio di Stato ha ribadito un principio che, come anticipato, attraversa ormai da anni la giurisprudenza in materia di condoni edilizi. Non basta affermare di aver realizzato l’opera entro i termini, ma è necessario dimostrarlo con elementi concreti, certi e documentati.

L’onere della prova, quindi, non è condiviso tra amministrazione e privato, ma grava interamente su quest’ultimo, in virtù del cosiddetto principio di vicinanza della prova.

Secondo i giudici, infatti, è il proprietario o l’autore dell’abuso a trovarsi nella condizione migliore per fornire atti, certificazioni, fotografie o relazioni tecniche che possano attestare la data di realizzazione delle opere. L’amministrazione può limitarsi a prendere atto di quanto presentato e, se la documentazione è assente o inidonea, non ha l’obbligo di supplire alle carenze dell’istante.

È vero, però, che qualora il privato riesca a fornire elementi dotati di un elevato grado di plausibilità, si determina un effetto di ribaltamento dell’onere della prova: in questo caso è l’amministrazione a dover dimostrare il contrario.

Per comprendere appieno la portata e le motivazioni della decisione dei giudici occorre richiamare importanti alcuni riferimenti normativi.

In primo luogo, l’art. 32 del D.L. n. 269/2003 che disciplina il “terzo condono edilizio” e fissa al 31 marzo 2003 il termine ultimo per l’esecuzione dei lavori sanabili.

A questo si affianca l’art. 64 (Disponibilità, onere e valutazione della prova), comma 1, del Codice del Processo Amministrativo, che attribuisce al ricorrente l’onere di provare i fatti che rientrano nella sua sfera di disponibilità.

L’art. 64, comma 1, del CPA, infatti, dispone: “Spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”.

Nel caso del condono edilizio, tale principio si traduce nell’obbligo per il privato di documentare la data e le modalità di realizzazione delle opere.

Va poi ricordata la Legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, e in particolare l’art. 10-bis, che prevede la comunicazione dei motivi ostativi ma non impone all’amministrazione una confutazione analitica di ogni singola osservazione, purché la motivazione complessiva del provvedimento sia coerente e ragionevole.

Il cuore della vicenda riguarda la difficoltà di dimostrare la data di realizzazione di un’opera interrata. Le aerofotogrammetrie, per loro natura, non sono strumenti idonei a rilevare la presenza di volumi sotterranei. Tuttavia, proprio questa circostanza evidenzia la necessità che sia il privato a fornire elementi di prova alternativi e più puntuali.

Il Consiglio di Stato ha osservato che non è sufficiente invocare l’inidoneità delle fotografie aeree per ottenere la sanatoria. Il legislatore, nel fissare un termine preciso, ha richiesto che fosse dimostrata la realizzazione dell’opera entro quella data, e questa dimostrazione non può che provenire da chi ha eseguito o commissionato i lavori.

Sul piano tecnico-procedurale, ciò significa che il privato avrebbe potuto presentare documentazione catastale storica, relazioni tecniche giurate, contratti di appalto, bollette relative a utenze attivate in epoca anteriore o persino testimonianze qualificate supportate da atti scritti. L’assenza di tali elementi, come nel caso in esame, porta inevitabilmente al rigetto dell’istanza.

L’analisi della sentenza mostra anche un ulteriore aspetto di rilievo: l’istruttoria amministrativa. Il Comune, infatti, non è chiamato a condurre accertamenti sostitutivi o a cercare prove per conto del richiedente. L’amministrazione deve solo verificare la documentazione prodotta e, in caso di carenze, motivare il diniego. Questa impostazione tutela l’interesse pubblico a non sanare opere che non offrano garanzie di legittimità e al tempo stesso responsabilizza il cittadino nella presentazione dell’istanza.

In prospettiva più ampia, la pronuncia conferma che il condono edilizio è stato uno strumento eccezionale e residuale, applicabile solo in presenza di condizioni rigorose. Non è un meccanismo volto a regolarizzare genericamente qualsiasi abuso, ma una procedura subordinata alla capacità del richiedente di fornire prove certe e univoche. Ed è proprio su questo punto che si collega al tema più ampio dello stato legittimo: anche qui la certezza documentale è imprescindibile e senza una base probatoria solida non è possibile avviare alcun percorso di regolarizzazione.

La decisione del Consiglio di Stato ha respinto l’appello del privato, confermando la legittimità del diniego comunale. Ciò significa che, in assenza di documenti in grado di attestare con ragionevole certezza la realizzazione dell’opera prima del 31 marzo 2003, il condono non può essere concesso.
Dal punto di vista operativo, la sentenza offre alcuni spunti utili:

  • per i tecnici incaricati, è indispensabile accompagnare ogni istanza di condono con una documentazione solida e articolata, capace di resistere al vaglio dell’amministrazione e dei giudici;
  • per i Comuni, l’istruttoria deve essere lineare: se mancano elementi probatori sufficienti, il diniego è legittimo e non richiede approfondimenti istruttori ulteriori;
  • per i privati, occorre comprendere che il condono non è un diritto acquisito, ma una possibilità subordinata alla prova della data di realizzazione.

In definitiva, sebbene sia diffusa la tesi suggestiva (ma tecnicamente errata) secondo la quale il condono edilizio avrebbe sanato indiscriminatamente qualsiasi opera priva di titolo, la realtà è ben diversa: si è trattato di un istituto eccezionale, con condizioni rigorose e circoscritte, che ha assolto alla funzione di regolarizzare solo quelle situazioni che la normativa ordinaria non era in grado di affrontare, neppure con interventi successivi come il cosiddetto “Salva Casa”.

 

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