Tratto da: Lavori Pubblici  

Il superamento del limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela di una DIA (o SCIA) è possibile qualora il richiedente abbia rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A. di conoscere fatti e circostanze rilevanti. In questo caso, il dies a quo per la decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela va individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.

Diversamente, l’esercizio del potere di annullamento in autotutela oltre i termini ragionevoli non è consentito, se la decisione arriva tardivamente solo per inerzia della PA, perfettamente a conoscenza dello stato delle cose.

 

Sulla base di questi presupposti, il Consiglio di Stato, con la sentenza del 23 luglio 2024, n. 6636, ha accolto il ricorso in appello di un’impresa che si era vista ingiungere la demolizione di alcune villette a schiera, costruite a seguito di un intervento di demolizione di un’autofficina ed eseguibile a condizione di cedere una parte dell’area al Comune per destinarla a parcheggio pubblico.

Secondo l’Amministrazione, l’intervento eseguito sarebbe stato difforme a quanto dichiarato e per altro non assentibile con semplice DIA, ma rientrante tra gli interventi di nuova costruzione.

Di diverso avviso l’appellante, che per altro aveva impugnato il provvedimento di annullamento in autotutela, perché emesso oltre i termini ragionevolmente consentiti.

Tesi che Palazzo Spada ha condiviso. Sul punto, il Consiglio ha ricordato che l’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, nel testo vigente ratione temporis, stabiliva, al comma 1, che «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».

A tale disposizione rinviava il testo dell’art. 19, comma 3, della l. n. 241 del 1990 vigente al tempo della presentazione della DIA, il quale stabiliva – per quanto qui di interesse – che «L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti, nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 2, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni. È fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies».

Inoltre il d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia), sempre nel testo vigente al momento della presentazione della DIA:

  • all’art. 22 ammetteva la realizzabilità «mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all’elenco di cui all’articolo 10 e all’articolo 6»;
  • all’art. 23, comma 6, che «Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento, e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio di attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia».

L’evoluzione della disciplina – che ha visto, tra l’altro, la DIA trasformarsi in SCIA – ha previsto che «all’immediata intrapresa dell’attività oggetto di segnalazione si accompagnino successivi poteri di controllo dell’amministrazione, più volte rimodulati, da ultimo dall’art. 6 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»).

Nel caso in esame, l’Amministrazione ha ritenuto di «annullare» gli effetti della DIA trascorsi più di sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività: tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla primigenia disciplina dell’autotutela contenuta nella l. n. 241 del 1990 e rispetto alla posizione del soggetto societario destinatario dell’atto di ritiro.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 8 del 2017), con riferimento alla questione dell’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria (le cui conclusioni valgono, in linea di principio, anche per l’esercizio dei poteri di autotutela a seguito di DIA o SCIA), ha chiarito che:

  • il relativo provvedimento «deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole»;
  • ai fini dell’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e, in ogni caso, il termine “ragionevole” per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
  •  l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati;
  • la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte»;
  • «nella vigenza dell’art. 21-nonies l. 241 del 1990 – per come introdotto dalla l. n. 15 del 2005 – l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
    • i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro;
    • ii) che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi);
    •  iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte».

Nel caso in esame, manca sia l’esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio. Si tratta peraltro di una situazione nella quale l’affidamento era, peraltro, particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della d.i.a. annullata, risultando decorsi oltre sei anni dal suo consolidamento, in presenza di obblighi (cessione dell’area destinata a parcheggio) a carico dell’appellante di non chiara evidenza.

Inoltre va aggiunto che il d.l. n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014, aveva posto uno sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, rappresentato da diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.

Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti.

In particolare, è nel principio di buon andamento espresso nell’art. 97 Cost. che «si radica il vincolo per il legislatore di tenere conto, nella disciplina dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti dall’amministrazione»  con la conseguenza che, proprio nei casi in cui è mancato ab origine un provvedimento ampliativo in senso stretto, l’adozione dell’atto di autotutela avrebbe dovuto avvenire, comunque, in un tempo accettabile – per l’appunto «ragionevole» – idoneo a non determinare la violazione di tale principio di rilevanza costituzionale e comunque tale da non ledere il legittimo affidamento che giocoforza si è determinato in capo al privato in mancanza di tempestivi provvedimenti.

Né, nel caso di specie, può parlarsi di carenza di effetti ab origine della DIA poiché essa conteneva la documentazione minima necessaria; quanto alle difformità di ordine sostanziale – peraltro non del tutto nitide – evidenziate in sede di autotutela, la relativa rilevanza ai fini degli effetti dell’efficacia della DIA era esclusa dalla previsione del potere di cui all’art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001 e dal termine perentorio ivi contemplato, non rispettato dall’Amministrazione.

È stato condivisibilmente evidenziato che l’articolo 21-nonies, in definitiva, contempla, oggi due categorie di provvedimenti – differenziabili in ragione dell’uso della disgiuntiva “o” – che consentono all’Amministrazione di esercitare il potere di annullamento d’ufficio oltre il termine di diciotto mesi dalla loro adozione, a seconda che siano, appunto, conseguenti a false rappresentazioni dei fatti o a dichiarazioni sostitutive false.

La ratio dell’illustrato comma 2-bis, infatti, risiede nell’esigenza che il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela debba essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 17 ottobre 2017, riferita peraltro al concetto di termine “ragionevole”, in quanto involgente una fattispecie concreta venuta in essere prima della riforma).

La “scoperta” sopravvenuta all’adozione del provvedimento di primo grado deve tradursi in una impossibilità di conoscere fatti e circostanze rilevanti imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo edilizio, non potendo la negligenza dell’Amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa, che potrebbe continuamente differire il termine di decorrenza dell’esercizio del potere.

In sostanza, il differimento del termine iniziale per l’esercizio dell’autotutela deve essere determinato dall’impossibilità per l’Amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado.

In una situazione come quella in esame, nella quale il Comune era perfettamente nelle condizioni di conoscere dello stato dei luoghi e della conformità o meno dell’integrale corredo documentale versato agli atti del procedimento dall’appellante, l’inerzia della civica Amministrazione nell’esaminare gli atti, frutto di un atto privato quale era la DIA, si rivelava del tutto ingiustificata.

In tal senso, il provvedimento di ritiro si mostra chiaramente lesivo del principio di affidamento del privato nella «sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» il quale non può essere leso da una decisione che trasmodi in un nuovo regolamento di una situazione sostanziale consolidata.

Il ricorso è stato quindi accolto, ritenendo illegittimo il provvedimento di annullamento in autotutela della DIA e dei successivi atti a essa collegati come l’ordine di demolizione.

 

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