Tratto da: Lavori Pubblici
Può un rudere essere demolito, ricostruito e inquadrato come ristrutturazione edilizia? È sufficiente la presenza di resti murari per qualificare l’intervento come ripristino di un edificio preesistente, oppure occorre dimostrare con precisione la consistenza originaria del manufatto?
Il Consiglio di Stato (sentenza n. 7081/2025) ribadisce che il ripristino di edifici crollati o demoliti può rientrare nella ristrutturazione edilizia solo se è accertabile la preesistente consistenza del manufatto.
Nell’attesa che una opportuna riforma del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) possa opportunamente suddividere (bene) gli interventi di nuova costruzione da quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente, bisogna fare i conti con l’attuale normativa edilizia, spesso carente proprio nei concetti basilari. Tra queste carenze, l’art. 3, comma 1, lettera d) (definizione di ristrutturazione edilizia) è stato ripetutamente modificato nel corso degli anni soprattutto per quel che riguarda gli interventi di demolizione e ricostruzione ovvero quelli probabilmente più delicati di “sostituzione edilizia”.
A chiarire alcuni lati oscuri di questa definizione ci ha pensato la giustizia amministrativa con un fiume di sentenze che hanno messo dei punti fermi (o quasi). Tra queste la recentissima sentenza n. 7081 del 19 agosto 2025 mediante la quale il Consiglio di Stato si è soffermato sulla demolizione e ricostruzione di immobili crollati o demoliti, sui quali è ormai pacifico debba essere accertata la preesistente consistenza.
Nel caso di specie, la controversia prende le mosse da un’istanza di permesso di costruire presentata per un intervento edilizio di ristrutturazione e ricostruzione di un antico edificio diruto. Istanza respinta dal Comune sull’assunto che le strutture residue non potessero qualificarsi come un rudere, bensì come semplici mura di recinzione realizzate per proteggere gli agrumeti dal vento. In questa prospettiva, non vi sarebbe stato un edificio da ripristinare, ma soltanto opere accessorie prive di autonoma consistenza edilizia.
Di parere contrario il Tribunale Amministrativo Regionale di primo grado, che ha dato ragione al ricorrente ritenendo vi fossero i presupposti per un intervento di demolizione e ricostruzione. Secondo i giudici di primo grado, infatti, le mura del manufatto esistente raggiungevano i 7 metri di altezza e la presenza dei contrafforti interni portava alla conclusione che “può e deve ragionevolmente presumersi di essere in presenza di mura perimetrali di un antico edificio”.
Da qui l’appello al Consiglio di Stato da parte del Comune che ha contestato la ricostruzione del TAR e valorizzato la tesi secondo la quale:
- la realizzazione di mura di recinzione è prassi nel Salento, per difendere gli agrumeti dal vento;
- la realizzazione di “contrafforti” interni costituisce una diffusa tecnica costruttiva qualora l’altezza del muro superi i due metri.
Decisivo, in questa fase, è stato il lavoro del verificatore nominato in giudizio, incaricato di stabilire se i manufatti avessero natura edilizia o fossero invece pertinenze agricole. La relazione tecnica del verificatore ha fornito al Collegio elementi essenziali per dirimere la controversia.
Il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per ribadire con forza che la demolizione e ricostruzione non può automaticamente qualificarsi come ristrutturazione edilizia. L’elemento decisivo è la possibilità di accertare in modo certo la preesistente consistenza dell’edificio: solo se vi è prova che il manufatto, pur ridotto a rudere, corrispondeva a un organismo edilizio dotato di autonomia, l’intervento di ripristino può rientrare nella nozione di ristrutturazione.
In questo contesto si inserisce il lavoro del verificatore tecnico, che ha svolto un ruolo fondamentale nel ricostruire la natura del manufatto. La sua perizia ha chiarito che le strutture rimaste in piedi erano destinate alla protezione degli agrumeti e non avevano le caratteristiche di un edificio. È proprio grazie a tale accertamento che il giudice ha potuto escludere la possibilità di qualificare l’intervento come ristrutturazione edilizia, confermando la tesi dell’Amministrazione.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, seguendo un orientamento ormai consolidato, non è sufficiente rinvenire murature o resti materiali per parlare di rudere e, quindi, di ristrutturazione. Occorre dimostrare – anche attraverso verificazioni tecniche e documentazione storica – che quei ruderi appartenevano a un fabbricato legittimamente esistente, con caratteristiche planivolumetriche identificabili. In assenza di tali elementi, il ricorso all’art. 3, comma 1, lett. d), non è possibile e l’intervento deve essere trattato come nuova costruzione.
Il punto centrale è l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001. La norma qualifica come ristrutturazione edilizia, oltre agli interventi che trasformano un organismo edilizio esistente, anche quelli che mirano al ripristino di edifici crollati o demoliti, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
A sostegno, interviene l’art. 9-bis, comma 1-bis, che disciplina lo stato legittimo degli immobili. Per gli edifici costruiti in epoca in cui non era necessario il titolo edilizio, lo stato legittimo può essere ricostruito attraverso fonti documentali alternative: mappe catastali di primo impianto, estratti cartografici, fotografie storiche, documenti d’archivio. La disposizione amplia il ventaglio degli strumenti probatori, ma non elimina l’onere di documentare in modo certo la consistenza dell’edificio originario.
A ciò si aggiunge la disciplina dei vincoli paesaggistici contenuta nel d.lgs. 42/2004, che nei casi come quello esaminato richiede il mantenimento di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche tipologiche. Tuttavia, questo profilo ha rilievo solo successivo: se manca la prova della natura edilizia del manufatto, la ricostruzione resta nuova costruzione e non può godere del regime della ristrutturazione.
La decisione offre alcune coordinate operative per distinguere il rudere da opere di mera pertinenza agricola (recinzioni, muri frangivento) e per dare contenuto al requisito della preesistente consistenza:
- criteri edilizi di riconoscimento: occorre poter ricostruire l’impianto planimetrico e il sedime, rinvenire indizi di orizzontamenti (tracce di solai, appoggi, cordoli), aperture coerenti con un uso abitativo o produttivo edilizio (porte/finestre), spessori murari compatibili con un organismo edilizio e, quando disponibili, elementi di copertura o loro impronte. La sola altezza dei paramenti e la presenza di contrafforti non bastano: possono essere funzionali anche a muri di protezione agricoli, come evidenziato nel caso;
- autonomia funzionale: un edificio, anche diruto, si qualifica per una vocazione d’uso autonoma, riconoscibile nella distribuzione degli spazi e nella loro accessibilità. Al contrario, le opere pertinenziali agricole assolvono a una funzione di servizio (recinzione, frangivento, terrazzamento) e non presentano un organismo unitario;
- dossier probatorio ex art. 9-bis: la preesistenza va sostenuta con documentazione convergente: catasto di primo impianto, estratti cartografici storici, aerofotogrammetrie/ortofoto storiche, rilievi e fotografie d’epoca, atti d’archivio e, quando possibile, rilievi metrici e fotopiani georiferiti che consentano la sovrapposizione con lo stato dei luoghi;
- verificazione tecnica: la perizia del verificatore ha un valore dirimente quando i segni materiali sono ambigui. Un accertamento tecnico con metodo (rilievo, stratigrafia muraria, lettura dei dissesti e dei giunti, analisi dei materiali) consente di sciogliere il dubbio tra opera edilizia e manufatto agricolo;
- inquadramento del titolo: solo ove la preesistente consistenza sia provata e identificabile nelle sue caratteristiche essenziali, la ricostruzione potrà essere ricondotta alla ristrutturazione edilizia (art. 3, comma 1, lett. d); altrimenti l’intervento ricade nella nuova costruzione con relativo regime abilitativo.
In definitiva, l’appello del Comune è stato accolto, la sentenza del TAR riformata e il diniego originario confermato: i manufatti residui non avevano natura edilizia, ma erano semplici opere agricole di protezione degli agrumeti.
Il Consiglio di Stato lo ribadisce con chiarezza, la demolizione e ricostruzione di un rudere può essere considerata ristrutturazione edilizia solo se la consistenza originaria dell’edificio è dimostrata in modo puntuale. Non è sufficiente che restino in piedi dei muri, occorre provare che quei resti appartenevano davvero a un fabbricato, con caratteristiche riconoscibili e documentabili.
E qui entra in gioco il lavoro del tecnico. Spetta al professionista raccogliere e ordinare con cura tutte le prove disponibili: mappe catastali di primo impianto, fotografie storiche, aerofotogrammetrie, documenti d’archivio, fino ad arrivare a rilievi metrici e a una relazione asseverata sulla natura edilizia del manufatto.
Per farlo in maniera convincente occorre:
- ricostruire sedime, sagoma, impianto planimetrico e, se possibile, altezze e volumetria;
- mettere in evidenza i segni edilizi autentici (tracce di solai, imbotti, appoggi), distinguendoli da quelli tipici dei muri agricoli.
Quando i dati sono incerti o ambigui, il rischio di contenzioso è altissimo. In questi casi una verificazione indipendente diventa una scelta quasi obbligata: meglio un accertamento tecnico in più che un permesso di costruire contestato e annullato.
Ecco perché il ruolo del professionista non si esaurisce nel presentare pratiche: significa accompagnare il committente nelle scelte giuste, evitandogli perdite di tempo e denaro. In fondo, questo è il vero valore aggiunto del tecnico: trasformare regole complesse in certezze operative.