Per far fronte ad esigenze temporanee[1], con i severi limiti di spesa in materia del personale[2], l’Amministrazione può ricorrere al “lavoro flessibile”[3] all’interno del quadro specifico dei rapporti di coloro che collaborano con le Pubbliche Amministrazioni in virtù di contratti diversi da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato, risultando una modalità derogatoria della normale “provvista” del personale, da seguire con cautele e motivandone le ragioni.
La ratio
In effetti, i limiti “quantitativi” alla spesa del personale, si inseriscono in un più generale disegno volto ad arginare l’utilizzo indiscriminato di contratti di tipo flessibile in chiave antielusiva[4] rispetto ai vincoli progressivamente introdotti per le spese di personale a tempo indeterminato, evitando, al contempo, l’insorgenza di nuovo precariato, in grado di vanificare le politiche di stabilizzazione[5]: l’art. 36, del d.lgs. n. 165/2001, introduce un evidente favor per i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, da utilizzare per dare risposta ai fabbisogni ordinari ed alle esigenze di carattere duraturo, nel rispetto delle norme contrattuali e della disciplina di settore, e al contempo, relega le forme contrattuali flessibili all’esclusivo soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo o eccezionale[6].
In effetti, il disposto del cit. art. 36, comma 2, non può che essere inteso come regola di limitazione delle assunzioni a tempo determinato a quei casi in cui ricorrano appunto condizioni di temporaneità ed eccezionalità che sono radicalmente escluse quando i rapporti di lavoro temporaneo hanno il fine, inevitabilmente proprio delle esigenze a carattere duraturo, di continuare a mantenere un adeguato standard quantitativo e qualitativo dei servizi, fornire continuità e stabilità all’attività, al fine di evitare gravi disservizi nell’erogazione della prestazione.
Il mancato rispetto delle limitazioni predette costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale[7].
Nuovo orientamento
Con una serie di “sentenze gemelle” (nn. 248, 247, 246, 245 e 244 del 9 dicembre 2024) la prima sez. centrale di Appello, della Corte dei conti, interviene accogliendo l’appello di un dirigente pubblico avverso una serie di condanne per l’utilizzo improprio di contratti a termine (ossia, il risarcimento pagato dall’Amministrazione titolare del rapporto in sede civile, parametro preso dalla Procura erariale per quantificare il danno indiretto), chiarendo i confini della responsabilità erariale, responsabilità che non può essere slegata dalle condizioni fattuali in cui si opera, dove non vi è un meccanismo che correla necessariamente il danno subito dalla PA con la condotta del funzionario pubblico, nei casi in cui il panorama giuridico risulta instabile e la diligenza osservata/provata.
Invero, la configurabilità della responsabilità amministrativa del pubblico dipendente alla sussistenza quanto meno della colpa grave è stata il frutto della scelta discrezionale del legislatore, che risponde «alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente… per essere correttamente esercitata, deve determinare e graduare i tipi e i limiti della responsabilità, caso per caso, in riferimento alle diverse categorie di dipendenti pubblici ovvero alle particolari situazioni, stabilendo, per ciascuna di esse, le forme più idonee a garantire i principi del buon andamento e del controllo contabile. Ne conseguirebbe la non conformità ai principi dell’art. 3 della Costituzione di un esercizio di detta discrezionalità intesa ad introdurre una previsione limitativa in forma generalizzata ovvero con riferimento indiscriminato a tutti i pubblici dipendenti»[8], caratterizzando, quindi, in modo peculiare la condotta imputabile idonea a suffragare un giudizio di responsabilità erariale.
Nel focus descrittivo per colpa grave si deve intendere l’evidente e marcata trasgressione di obblighi di servizio o regole di condotta con peculiari caratteristiche, quale l’inosservanza del minimo di diligenza richiesto nel caso concreto o in una marchiana imperizia o in un’irrazionale imprudenza in assenza di oggettive ed eccezionali difficoltà nello svolgimento dello specifico compito d’ufficio: la c.d. antigiuridicità.
In questo senso, non tutti i comportamenti censurabili integrano gli estremi della colpa grave, ma soltanto quelli contraddistinti da precisi elementi qualificanti che vanno accertati – volta per volta – in relazione alle modalità del fatto, all’atteggiamento soggettivo dell’autore, nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l’evento dannoso[9].
Il nuovo orientamento, affermato dalle cit. “sentenze gemelle”, riallinea l’identificazione della colpa grave da segnalare ove vi sia la presenza in una sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa estensiva attraverso un comportamento improntato a massima negligenza o imprudenza, ovvero ad una particolare non curanza degli interessi pubblici, mancando (il caso trattato) quando il dirigente, in presenza di difficoltà interpretative della disciplina applicabile[10], ha dimostrato – nell’esercizio effettivo delle proprie funzioni – doti di diligenza, prudenza e perizia: il giudizio, statuito nelle sentenze, ha avuto modo di constatare la condotta effettiva mantenuta dal dirigente nel fronteggiare i bisogni (interessi) della PA, con un atteggiamento consono in relazione agli obblighi di servizio, ed alle regole di comportamento, relativi allo svolgimento degli specifici compiti di ufficio affidati alla sua responsabilità: il reperimento del personale per esigenze di interesse pubblico, su espressa richiesta degli organi elettivi.
Il primo grado
Nello specifico, in primo grado, si condannava il dirigente del danno (in misura ridotta nell’esercizio del potere riduttivo) arrecato all’Amministrazione di appartenenza derivante da una serie di proroghe di rapporti di lavoro a tempo determinato nei confronti di alcuni dipendenti; dipendenti che al termine del contratto adivano al Giudice del lavoro (per il risarcimento del danno quantificabile come perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore), con soccombenza dell’Amministrazione (senza ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato)[11].
La norma vigente al momento dei fatti (prima della modifica operata dal comma 1, dell’art. 12, Modifiche all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di disciplina della responsabilità risarcitoria per l’abuso di utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato – Procedura d’infrazione n. 2014/4231, del DL n. 131/2024)[12] prevedeva che «Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave»[13].
L’Appello
La sez. Centrale di Appello analizza:
- il quadro del danno indiretto, derivante dalla sentenza della Corte di Appello che definitivamente condannava l’Amministrazione al risarcimento del danno in favore dei lavoratori per l’illecita reiterazione (oltre cinque anni) di contratti a tempo determinato, sottoscritti dal dirigente (in numero plurimo per persona);
- un recente mutamento di indirizzo giurisprudenziale operato dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti su recenti giudizi integralmente sovrapponibili per oggetti e soggetti coinvolti a quello esame[14].
In dipendenza di ciò, vengono integralmente fatte proprie – nel merito – le decisioni della sez. territoriale[15], ritenendo ormai pacifico l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui:
- i profili di illegittimità degli atti costituiscono solo un sintomo della dannosità per l’erario delle condotte che all’adozione di quegli atti abbiano concorso;
- non può ammettersi alcun automatismo tra l’illegittimità degli atti e i riflessi erariali delle condotte serbate dalle persone fisiche che hanno concorso alla loro adozione[16];
- la taratura dei suddetti principi porta a ritenere che, la pur innegabile connotazione abusiva dei reiterati conferimenti dei contratti a termine, in grado di dar luogo, a beneficio del lavoratore “precarizzato”, alla tutela risarcitoria del c.d. danno comunitario, non possa generare, di per sé solo, e sotto forma di danno indiretto, la responsabilità amministrativa della dirigente che quei contratti aveva sottoscritto.
Analisi concreta