14/03/2023 – Considerazioni sull’annosa querelle della species della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione: tra bilanciamento di interessi, efficienza paretiana, allocazione del rischio giuridico-economico dell’inerzia della funzione ammini

Abstract

L’obiettivo del saggio è fornire una panoramica delle diverse ricostruzioni ermeneutiche in punto di natura giuridica della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, in una prospettiva di efficienza paretiana ed analisi economica del diritto. Particolare attenzione sarà riservata al rischio elettivo, alla paura della firma e alla politica del diritto, in un’ottica di buon andamento, efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.  

SommarioIntroduzione sulla natura “eclettica” della responsabilità civile: tra pena privata e inducement – 1. Brevi note ricostruttive sul rapporto organico quale criterio di imputazione della responsabilità diretta e sul nesso di occasionalità necessaria quale criterio di imputazione della responsabilità indiretta – 2. La responsabilità extracontrattuale della p.a.: l’occasionalità necessaria e il “rischio elettivo” come esimente – 3. Brevi conclusioni: la paura della firma in una prospettiva di analisi economica della responsabilità civile.

 

 

Introduzione sulla natura “eclettica” della responsabilità civile: tra pena privata e inducement

 

Si è evidenziato, in dottrina e in giurisprudenza, come il progressivo spostamento da una visione lato sensu sanzionatoria della responsabilità civile a una meramente risarcitoria non sia stato un procedimento solo recente, bensì il frutto di una meditata maturazione secolare della scienza giuridica che, sin dal diritto romano, è giunto alla modernità giuridica, attraverso la mediazione del medioevo canonistico e del giusnaturalismo. Quest’ultimo è volto a valorizzare la volontà umana, rispetto all’evento naturale. La progressiva scoperta e consolidazione della distinzione tra illecito civile[1] e illecito penale ha contribuito a distanziare, in una prospettiva dogmatica, lo spazio proprio dell’autonomia privata[2] e quello del pubblico, quale esercizio del potere in via imperativa. In tale ottica, si sono delineate la società civile e lo Stato, quali due distinti contraltari: il primo è la dimensione in cui si valorizza il dogma della volontà del consociato, entro limiti inderogabili di matrice pubblicistica; il secondo è il luogo proprio del munus pubblico, teso ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive del privato. A tale noto contrasto corrispondono due diverse concezioni della “giustizia”: nelle relazioni intersoggettive tra privati, viene valorizzata una prospettiva meramente commutativa; in quelle che mettono in rapporto il singolo con la collettività, rappresentata dagli organi dello Stato per i fini pubblici che ne sono costitutivi, la prospettiva adottata è invece quella social-distributiva (o addirittura retributiva, sia pure con il correttivo, proprio della giustizia “riparativa”, finalizzato alla rieducazione del reo e a reinserire il medesimo nella società. La pena è, dunque, una extrema ratio. Un filone ermeneutico, proprio della dottrina e della nostra giurisprudenza, ha fatto propria la concezione punitiva fondata sulla centralità dell’imputazione soggettiva per colpa, secondo la tesi jheringhiana per cui “senza colpa, non vi è responsabilità”.

Tale inquadramento dogmatico è solo, in parte, rinvenibile nella Relazione al Codice; nella stessa è rinvenibile, al contrario, una concezione eminentemente riparatoria imperniata – in una prospettiva di analisi economica del diritto, sull’allocazione redistributiva del costo del danno, nella consapevolezza per cui questo — nel suo valore di perdita, originariamente o derivativamente, economica — una volta verificatosi, non può più essere eliminato.

Tale assunto è stato enfatizzato da una lettura “costituzionalmente orientata” del diritto privato; ciò è manifestato dal principio della solidarietà sociale[3] (art. 2 cost.); la predetta clausola generale ha il pregio di ridisegnare la causa del risarcimento del danno, al contempo spostando lo spazio di applicazione dell’art. 2043 c.c. oltre i limiti dei diritti soggettivi assoluti. Si valorizza, in altri termini, una concezione meramente oggettivistica. La prospettiva dell’analisi economica del diritto ha consentito di definire nella regola di responsabilità[4] un meccanismo di coercizione indiretta (cd. disinducement)[5] o deterrente rispetto alla realizzazione del danno, individuando il soggetto in grado di evitarlo (o, se del caso, amministrarne il costo) nel modo più efficiente possibile. La finalità di tale prospettiva è quella di raggiungere l’ottimale allocazione delle risorse in senso paretiano (c.d. ottimo paretiano). L’ottimo paretiano o efficienza paretiana è un concetto introdotto dallo studioso italiano Vilfredo Pareto, applicato in economia, teoria dei giochi, ingegneria e scienze sociali. Si realizza quando l’allocazione delle risorse è tale che non è possibile apportare miglioramenti paretiani al sistema, cioè non si può migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro.

Tanto premesso, occorre comunque ricordare che nel periodo monarchico si riteneva che il cittadino fosse in posizione di quasi completa soggezione nei confronti dell’organizzazione statale: tra Stato e Re non vi era distinzione, ma confusione. Il potere (politico, ma anche giudiziario) era concentrato nelle mani del Re ed era assoluto, nel senso che era il Re medesimo ad essere la fonte del diritto, pertanto non ne era in alcun modo vincolato o responsabile. Queste essendo le premesse, era inconcepibile poter mettere in discussione, addirittura tacciando di illiceità, gli atti o i comportamenti riferibili al Re od anche ai funzionari amministrativi ed esecutivi, considerato che l’organizzazione statale non aveva una propria autonomia, ma era vista come braccio meramente esecutivo del sovrano. Dal principio di sovranità, in altri termini, conseguiva il corollario della irresponsabilità dello Stato nei confronti dei suoi sudditi e, quindi, la irrisarcibilità[6] dei danni provocati – alla collettività come al singolo – dall’organizzazione politico-amministrativa.    L’idea che lo Stato, nel suo agire, dovesse rispettare la legge poté affermarsi solo in seguito, correlativamente e conseguentemente all’ascesa dello Stato di diritto, che recava con sé il principio per cui gli uomini dovessero essere governati dalla legge, certa, e non dall’arbitrio di altri uomini. Grazie al pensiero liberale, quindi, il principio di sovranità, e con esso il corollario dell’irresponsabilità del sovrano , venne messo in discussione poiché avvertito come un arbitrario privilegio, non piú conciliabile con gli ideali rivoluzionari, in particolare con il principio di legalità, secondo cui la legittimità dell’esercizio del potere politico doveva passare attraverso una norma giuridica preventivamente approvata . Lo Stato, si affermava, era sovrano in quanto e nella misura in cui fosse stato legittimato dal popolo sí che, essendo diretta espressione di quest’ultimo, era deputato a garantire la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, con la conseguenza che il concetto di autorità[7] diveniva strumentale alla salvaguardia di tali principi sia nei rapporti tra i consociati, sia nei rapporti tra questi e l’amministrazione statale. Da tali premesse consegue che gli atti e i comportamenti illeciti o illegittimi non potevano piú essere esentati dalle comuni regole a tutela del cittadino e della sua sfera individuale. Questo, quantomeno, nelle ipotesi in cui lo Stato agiva come un privato cittadino. Invero, si cominciava a valutare e a dare rilevanza alla qualificazione giuridica delle scelte operate dalla pubblica amministrazione: se, cioè, queste erano espressione della sua sovranità oppure meno, nel qual caso lo Stato doveva essere considerato in posizione paritaria rispetto ai cittadini. Si profilò, quindi, una distinzione tra le attività di diritto pubblico e quelle di diritto privato: due forme di manifestazione degli interventi amministrativi nella vita economica e sociale della comunità, distinti in ragione della natura degli strumenti attuativi utilizzati. E cosí, gli atti compiuti iure privatorum si riteneva dovessero rientrare nell’area del diritto dei privati, dello ius commune, mentre quelli compiuti mediante lo ius imperium (legislazione, amministrazione della res publica, magistratura) erano collocati nell’ambito del diritto pubblico.

La patologica paralisi amministrativa in funzione “difensiva” delle Pubbliche Amministrazioni ha spesso rappresentato la manifestazione di una mortificazione dell’attività positiva e attiva del pubblico dipendente. Proprio quando erano tangibili segni di ripresa dal lungo periodo di crisi economico-finanziaria  che ha colpito – in via sistemica –  l’Unione Europea a cominciare dal 2008 , l’emergenza da Covid-19[8] ha fatto ripiombare l’intero territorio euro-unitario e la finanza globale in una profonda crisi istituzionale, sociale ed economica i cui effetti attuali, verosimilmente, cagioneranno ulteriori esternalità negative nel prossimo futuro.

Ad oggi, è ancora più palese la necessità di migliorare un sistema che certamente già negli anni passati – e in situazione di ordinarietà – aveva manifestato gravi criticità nella pubblica amministrazione[9], tali da compromettere i tanto invocati e positivizzati, quanto imprescindibili, principi di efficacia ed efficienza. Le iniziative legate al PNRR, finalizzate allo sviluppo economico e sociale hanno trovato spesso difficoltà di attuazione nell’incapacità strutturale e funzionale delle pubbliche amministrazioni locali, con conseguente fallimento degli obiettivi di sviluppo e crescita sostenibile.  Si è indagato, in dottrina e in giurisprudenza, sulla sussistenza di ragioni che giustifichino l’inapplicabilità –in via derogatoria – del modello generale dogmatico della responsabilità civile in casi siffatti. Molti hanno ravvisato in tale peculiare sistema di responsabilità un ingiusto privilegio in capo alla P.A. a danno del legittimo affidamento dei cittadini. I teorici dell’analisi economica del diritto, in via subitanea, hanno rilevato che tale tessuto disciplinare osta, in concreto all’efficienza allocativa delle risorse pubblico-private. Una squilibrata allocazione dei rischi legati all’attività amministrativi ha l’effetto di disincentivare un’attività amministrativa trasparente, proporzionale e adeguata[10].

L’impiego del criterio di imputazione privatistico ha ampliato i confini della responsabilità della pubblica amministrazione ed ha superato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’agire del dipendente per finalità esclusivamente personali ed egoistiche recide il rapporto organico ed esclude la responsabilità dell’ente, facendo residuare la sola responsabilità del dipendente per fatto proprio. Un tale superamento incide negativamente sulle esigenze di tutela delle finanze pubbliche, ricorrentemente invocate come valore costituzionalmente protetto da bilanciare con il diritto al risarcimento del danno.

Altro esempio, più recente, di impegno comunitario per lo sviluppo economico che non ha sortito gli effetti sperati, è stato il Trattato di Lisbona del 2010 primo comma dell’art. 174 (ex art. 178 del TCE).

Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale». Un’azione, quella descritta, che mirava a ridurre il divario tra diverse regioni del territorio europeo sostenendo maggiormente le zone più in difficoltà come quelle rurali, di montagna o transfrontaliere. Ad oggi, tale divario non si può dire certo colmato . Rivolgendo lo sguardo al futuro, è di particolare importanza ed attualità la c.d. Strategia Europa 2020 (elaborata dopo la Strategia di Lisbona) che si pone l’obiettivo di conseguire «una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva come mezzo per superare le carenze strutturali dell’economia europea, migliorarne la competitività – in chiave sostenibile – e la produttività e favorire l’affermarsi di un’economia di mercato sociale.

La libertà di agire accordata a ciascuno Stato membro per il raggiungimento dei risultati prefissati –in un’ottica di sussidiarietà – fa comprendere l’importanza del sistema amministrativo interno che, se non adeguatamente organizzato e in grado di garantire una buona amministrazione, può vanificare qualsiasi sforzo profuso dalla legislazione nazionale e sovranazionale con ripercussioni pregiudizievoli per i singoli cittadini. Di qui la necessità che a livello statale si recuperi la buona organizzazione e il buon andamento, per un corretto ed efficiente agire pubblico, evitando così “inefficienze paralizzanti” o “inadempimenti efficienti”, in cui il dipendente pubblico beneficia di una allocazione del rischio di “inadempimento”, qualora eserciti un contegno omissivo, piuttosto che proattivo.

La responsabilità della pubblica amministrazione costituisce uno dei grandi temi del diritto amministrativo, da sempre oggetto di interesse degli studiosi. il principio della responsabilità[11] della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti si è affermato solo gradualmente nel nostro come in altri ordinamenti giuridici. Sin dai primi arresti giurisprudenziali favorevoli al riconoscimento della responsabilità della Pubblica Amministrazione si pose il problema dell’imputazione di una tale responsabilità, vale a dire se dei danni causati ai terzi doveva rispondere la pubblica amministrazione o il dipendente che aveva agito.

I due sistemi sono attualmente coesistenti in tema di imputazione della responsabilità dell’ente pubblico per l’illecito commesso dal proprio dipendente, l’uno fondato sul criterio del rapporto organico, l’altro fondato sul criterio del c.d. nesso di occasionalità necessaria, e la collocazione degli illeciti dei funzionari commessi in occasione dell’esercizio del potere in una tale dicotomia[12].

Recentemente, un orientamento giurisprudenziale[13] ha risolto il contrasto giurisprudenziale relativo alla sussistenza o meno della responsabilità civile della pubblica amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente che, approfittando delle sue attribuzioni, abbia agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche, estranee all’amministrazione di appartenenza, hanno affermato il seguente principio di diritto: « Lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa — e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi — non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo ».[14]

Recentemente, le Sezioni Unite hanno sancito la coesistenza di due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta, fondata sul solo rapporto organico, e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui, fondata, al contrario, sul mero c.d. nesso di occasionalità necessaria. Ciascuno di essi viene in considerazione a seconda del tipo di attività della p.a. posta in essere: quella di tipo autoritativo, estrinsecazione del potere pubblicistico, o quella meramente materiale, equiparata all’attività di qualsiasi altro privato. Nel primo caso sussiste il rapporto organico ed è perciò integrato il presupposto della responsabilità diretta ex art. 28 Cost. Nel secondo caso può sussistere il nesso di occasionalità necessaria e l’ente risponde, se del caso, ex art. 2049 cod. civ.[15] Le Sezioni Unite hanno così superato la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra il criterio di imputazione pubblicistico o diretto e quello di imputazione privatistico o indiretto. Tale assunto prende le mosse dal disposto di cui all’art. 28 Cost. Esso non preclude l’applicazione della normativa del codice civile, piuttosto essendo finalizzato ad escludere l’immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico e ad affermare la concorrente responsabilità della p.a. e del suo dipendente. La responsabilità della p.a., secondo una prima ricostruzione, è stata ammessa in forza del criterio di imputazione privatistico basato sull’ « esercizio delle incombenze a cui i c.d. preposti sono adibiti ». A ciò corrisponde il modello teorico fondato sulla piena parificazione tra soggetto pubblico e privato. Una tesi ermeneutica dottrinale ha tentato di verificare  la tenuta di una tale soluzione rispetto alle situazioni in cui il funzionario commette il fatto in occasione dell’esercizio del potere. Si è indagato sulla sussistenza di ragioni che giustifichino l’inapplicabilità del modello generale della responsabilità civile in casi siffatti.

L’impiego del criterio di imputazione privatistico ha ampliato i confini della responsabilità della pubblica amministrazione ed ha superato l’orientamento giurisprudenziale 8 secondo cui l’agire del dipendente per finalità esclusivamente personali ed egoistiche recide il rap porto organico ed esclude la responsabilità dell’ente, facendo residuare la sola responsabilità del dipendente per fatto proprio. Un tale superamento incide negativamente sulle esigenze di tutela delle finanze pubbliche, ricorrentemente invocate come valore costituzionalmente protetto da bilanciare con il diritto al risarcimento del danno[16].

 

  1. Brevi cenni sul rapporto organico quale criterio di imputazione della responsabilità diretta e sul nesso di occasionalità necessaria quale criterio di imputazione della responsabilità indiretta

Di « rete di protezione che non carichi la pubblica amministrazione di oneri economici eccessivi » parla spesso la dottrina al fine di giustificare una lettura restrittiva dell’istituto della responsabilità civile della p.a. Secondo un filone dottrinale, tuttavia, le ragioni per le quali i vincoli di bilancio e lo stato delle finanze pubbliche non giustificano una siffatta lettura restrittiva della responsabilità della p.a. Il criterio di imputazione pubblicistico fondato sull’art. 28 Cost[17] in combinato disposto con l’art. 2043 cod. civ., delinea una responsabilità diretta dell’ente pubblico per fatto proprio, che trova il suo presupposto nel rapporto organico. La tesi che rinviene nell’art. 28 Cost. una responsabilità principale del dipendente ed una responsabilità sussidiaria dell’ente pubblico, aggredibile solo a seguito di infruttuosa escussione del dipendente, è stata da lungo tempo superata dalla dottrina maggioritaria, ormai concorde nel leggere nella norma una pari responsabilità solidale della persona giuridica e di quella fisica[18], la c.d. teoria della doppia responsabilità concorrente.  La tesi superata valorizzava la lettera della legge (c.d. interpretazione restrittiva), che parla di « estensione» della responsabilità allo Stato e agli enti pubblici, mentre l’argomento da cui muove la tesi attualmente più accreditata è fondato sul rapporto organico tra la persona fisica e quella giuridica: la struttura organizzativa dell’ente pubblico presuppone, necessariamente, l’agire per il tramite di una persona fisica, pertanto l’azione di quest’ultima deve essere ad esso direttamente imputata e l’atto del funzionario è considerato in tutto e per tutto atto della p.a.[19] La teoria dell’organo fu elaborata dalla dottrina tedesca nella seconda metà del XIX secolo quale modello alternativo a quello della rappresentanza, ritenuta inadatta a realizzare l’imputazione allo Stato e, in generale, alle persone giuridiche pubbliche dell’attività dei loro funzionari: mentre in virtù del rapporto organico tanto l’atto quanto gli effetti sono imputati direttamente all’ente pubblico, in base alla rappresentanza, l’atto è imputato al rappresentante, i suoi effetti al rappresentato. I modelli della rappresentanza necessaria e del rapporto organico hanno consentito all’ente pubblico di divenire operatore giuridico capace di compiere atti giuridici, apprestandogli qualità fisiche e psichiche che altrimenti non possiederebbe.  Il modello di imputazione giuridica dell’organo è stato nel tempo esteso a tutte le persone giuridiche, pubbliche e private, e persino agli enti di fatto, sì da interessare in definitiva tutte le figure soggettive diverse dalle persone fisiche. Al riguardo Santi Romano affermava che il rapporto organico « riguarda l’esplicazione della funzione, vale a dire, la realizzazione dell’interesse pubblico per il quale l’organizzazione è prevista ed è riconosciuto il relativo potere, la potestà cioè di agire per la realizzazione di questo interesse » 20. Tale modello viene difatti in rilievo con riguardo alla responsabilità legata all’esercizio del potere. Più in particolare, secondo autorevole dottrina[20] gli organi sono centri di imputazione di norme giuridiche; la tecnica organizzativa del rapporto organico implica che il comportamento viene « staccato » dal l’entità fisica che lo produce per essere attribuito in modo diretto, immediato ed esclusivo al centro, così che risulta pienamente operante il principio generale secondo cui l’effetto giuridico segue il comporta- mento. La rappresentanza legale, per contro, utilizza la dinamicità di un centro giuridico che già la possiede, il rappresentante, che imputa i soli effetti, non anche il comportamento, al centro privo di originaria dinamicità. Si deroga così al principio generale secondo cui gli effetti seguono il comportamento. Si è dibattuto per lungo tempo se il fatto illecito del dipendente compiuto nell’ambito dell’attività autoritativa fosse o meno imputabile all’ente secondo il modello del rapporto organico[21] dell’art. 28 Cost. fornita dalla giurisprudenza e dalla dottrina attualmente dominanti dovrebbe accogliersi la soluzione favorevole, che ammette l’imputazione all’ente del fatto illecito del dipendente. Tuttavia, con riguardo alla corretta identificazione del fattore interruttivo del rapporto organico, appaiono ancora attuali le parole di Santi Romano, secondo cui « la storia del concetto di organo, delle sue deviazioni e, diciamolo pure, delle sue aberrazioni, può servire a dimostrare con quanta fatica e con quanta lentezza una categoria giuridica perviene talvolta alla sua limpida ed esatta definizione ».

Dal momento che « dell’organo non si può dire che agisce per conto o in nome della persona giuridica; egli è la persona  giuridica  che agisce », l’ente pubblico risponde direttamente per fatto proprio del- l’illecito compiuto dal proprio dipendente. Solo qualora il dipendente agisca per perseguire un «fine privato ed egoistico, che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione», il nesso organico si interrompe e ciò impedisce di imputare la condotta dell’agente all’amministrazione di appartenenza 26. In tal modo, secondo la dottrina, l’art. 28 Cost. assicura il rispetto del principio di legalità che permea l’azione amministrativa, in quanto tale principio postula la conformità dell’agire amministrativo rispetto alla legge, implicando un controllo anche giurisdizionale ed una reazione avverso condotte antigiuridiche[22].

La dottrina sottolinea come la nozione di «organo » sia tutt’oggi controversa e discussa. Taluno ha recentemente criticato la tradizionale associazione della teoria dell’organo alla fictio dell’immedesima- zione organica. Si denuncia in particolare l’incostituzionalità di un modello di imputazione giuridica che dissolve e rende invisibile la persona fisica titolare dell’organo, in spregio al primato che la persona umana riveste nella nostra Costituzione. Si prospetta perciò una nuova lettura della teoria dell’organo, modello di imputazione giuridica da non abbandonare, ipotizzando una « teoria dell’organo senza immedesimazione organica » che sia coerente con la doppia imputazione, contestualmente in capo al funzionario e in capo all’ente, sottesa all’art. 28 Cost.: gli atti compiuti dall’organo dovrebbero considerarsi « oggetto di una doppia  imputazione contestuale sia alla persona umana titolare dell’organo, sia all’ente pubblico per cui l’organo agisce, mentre gli effetti di tali atti verrebbero imputati all’ente pubblico »[23].

Secondo una distinta ricostruzione ermeneutica, tuttavia, non vi è traccia del concetto di immedesimazione organica. Il rapporto organico è solamente una « tecnica » o   un « modulo » di organizzazione che realizza la più ampia imputazione dei comportamenti. La qualità di organo si collega ai rapporti tra più ordinamenti: l’organo è un ordinamento minore creato dall’ordinamento maggiore al quale quest’ultimo attribuisce la qualità di centro di imputazione non personificato. Tale qualità è sempre una creazione del diritto, ma ciò che contraddistingue gli organi dagli altri centri di imputazione è il riferimento diretto dei suoi comportamenti all’ordinamento maggiore. In ragione del c.d. « principio del riferimento » « ogni effetto giuridico deve, direttamente o indirettamente, far capo ad un soggetto giuridico; gli effetti giuridici riferiti ai centri non personificati, di conseguenza, devono riferirsi sempre e necessariamente anche ad una persona c.d. giuridica ». A fornire la dinamicità alle persone giuridiche è tuttavia sempre l’uomo, inteso come persona fisica: « anche se è immaginabile (…) che organo di una persona giuridica sia un’altra persona giuridica, alla fine, talvolta dopo molti passaggi, deve sempre esservi, quale elemento dinamizzante, un uomo ». Infatti, senza le persone fisiche l’organizzazione non può funzionare.

La fictio dell’«immedesimazione organica», a lungo mitizzata, merita pertanto di essere abbandonata. Al contrario, risulta ancora attuale la teoria dell’organo, da leggere quale mera tecnica di imputazione giuridica che non dissolve la persona fisica, ma che piuttosto esige che siano disciplinati i rapporti tra la persona giuridica e i titolari dell’organo. La dottrina civilistica si è da tempo occupata del tema concernente la responsabilità ex art. 2049 cod. civ. del padrone e del committente per i danni arrecati dal fatto illecito dei suoi domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Gli approdi cui essa è giunta con riferimento al preponente privato, in quanto espressioni del principio generale della responsabilità civile, possono dirsi pienamente valevoli per il preponente pubblico allorquando il dipendente sia autore di attività materiale, assimilabile in tutto e per tutto a quella posta in essere dal dipendente privato[24].

La responsabilità fondata sull’art. 2049 cod. civ. è una responsabilità oggettiva e indiretta per fatto altrui, che rinviene il suo presupposto nel c.d. nesso di occasionalità necessaria. Il criterio di imputazione di tale responsabilità non si ravvisa nella culpa in vigilando o nella culpa in eligendo del committente per avere scelto negligentemente il soggetto di cui avvalersi o non aver correttamente vigilato sul suo operato. La mancata previsione di alcuna prova liberatoria esclude infatti che la norma possa configurare una responsabilità soggettiva per fatto proprio. Al contrario, l’illecito viene imputato in capo al preponente per la mera ricorrenza del c.d. nesso di occasionalità necessaria, in quanto il fondamento di tale responsabilità si ravvisa nel criterio di allocazione del rischio del danno in capo al preponente. Esso risponde alle esigenze generali dell’ordinamento giuridico, che impongono di prevedere regole atte ad assicurare la convivenza pacifica tra i consociati, e al principio cuius commoda eius et incommoda, in base al quale chiunque si avvale dell’operato altrui per il perseguimento dei propri fini risponde delle conseguenze dannose che da esso derivino in capo a terzi, indipendentemente se ciò sia la conseguenza di una scelta personale, come avviene per le persone fisiche, o di una necessità, come avviene per gli enti sovra-individuali. Non solo il danneggiato non ha l’onere, come sarebbe di regola, di provare l’elemento soggettivo del preponente, ma neppure quest’ultimo può sottrarsi a responsabilità provando che alcuna negligenza, imprudenza o imperizia può essergli imputata 38. In tal modo si assicura al terzo danneggiato una garanzia patrimoniale ulteriore, quella del preponente, che si presume essere più capiente di quella del preposto. Sarebbe altrimenti incoerente consentire al preponente di beneficiare degli effetti favorevoli derivanti dall’attività di preposizione e di rifiutare quelli sfavorevoli, in violazione del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.

Il « nesso di occasionalità necessaria » consiste in una peculiare relazione di causalità in virtù della quale, alla stregua del giudizio meramente controfattuale oggettivizzato ex ante proprio della causalità adeguata, la verificazione del danno — conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri, conferimento che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente del danno. Al fine di rinvenire o escludere la ricorrenza del suindicato nesso causale l’impossibilità della verificazione del danno[25] deve essere valutata in base alla regolarità causale atta a determinare l’evento, vale a dire in base alla sua normalità statistica, secondo l’id quod plerumque accidit, in quanto sviluppo non anomalo di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri. In tale ottica, notevole rilevanza assume la prevedibilità del danno conseguenza, quale costo della responsabilità, in termini di analisi economica del diritto. Ne consegue che il preponente pubblico risponde indirettamente del fatto illecito commesso dal proprio funzionario o dipendente, ogni qual volta esso non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni, delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici, quand’anche la condotta sia destinata a fini diversi da quelli istituzionali o  persino contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti. Al fine di ravvisare la responsabilità della p.a. ex art. 2049 cod. civ., in definitiva, le incombenze devono essere causa efficiente dell’illecito e della conseguente causazione del danno.

Il preponente può andare esente da responsabilità solo fornendo la prova dell’interruzione del nesso di occasionalità necessaria che lega le mansioni all’illecito (c.d. rischio elettivo). La condotta abnorme del dipendente pubblico fa sì che il medesimo si accolli il rischio della causazione dell’evento. Diversamente, il dipendente pubblico si comporterebbe da free rider, abusando della propria posizione, con pregiudizio alla finanza pubblica. Una siffatta allocazione dei rischi e delle responsabilità non sarebbe ottimale (c.d. ottimo paretiano), con conseguente disomogenea allocazione delle risorse pubbliche. Quando le mansioni assegnate al preposto non abbiano in alcun modo agevolato la commissione dell’illecito, né era possibile per il preponente prevedere la condotta del preposto quale possibile sviluppo dei compiti affidati e prevenire la medesima mediante un’adeguata organizzazione dei propri rischi, il primo non ha beneficiato in alcun modo del comportamento del dipendente e non vi è più ragione di allocare in capo al medesimo soggetto ogni tipo di rischio abnorme ed eccezionale connesso alla altrui condotta. Pur non essendo sempre necessario ravvisare la colpa a fondamento della responsabilità civile, in ragione della funzione prettamente compensativa, piuttosto che sanzionatoria, che essa generalmente riveste, il criterio di allocazione del rischio deve rispondere a criteri di coerenza, prevedibilità e ragionevolezza, al fine di scongiurare il rischio che chiunque possa essere chiamato a rispondere dei fatti altrui per mere casualità o scelte arbitrarie del legislatore. Il nesso di occasionalità necessaria si interrompe, pertanto, per l’assoluta imprevedibilità e abnormità della condotta[26] del preposto, quando il rapporto di preposizione cessa di essere « occasione necessaria » e diviene mera « occasione » dell’illecito. A tal fine non basta tuttavia il mero perseguimento di finalità egoistiche o la commissione di un reato oggettivamente prevedibili per il preponente. La dicotomia tra la responsabilità diretta dell’amministrazione per fatto proprio e la responsabilità indiretta per fatto del funzionario era già stata prefigurata da un’autorevole dottrina agli inizi del secolo scorso, secondo cui tale responsabilità « quando si dice contratta dall’amministrazione pel fatto proprio s’intende per fatto dei suoi funzionari diretti compiuto negli stretti limiti prescritti alle loro funzioni, nella rappresentanza e a nome della amministrazione stessa, a differenza della indiretta, che è quella che contrae l’amministrazione per un fatto del funzionario che esce dallo scopo preciso e dagli effetti rigorosi della rappresentanza pubblica e riveste un carattere anormale e colposo ». L’autore aveva già rilevato che le regole proprie del diritto pubblico non possono trovare applicazione quando si discute di rapporti attinenti ai diritti dei soggetti, trovando la responsabilità per danni prodotti a terzi disciplina nelle regole di diritto comune. Tuttavia, le Sezioni Unite con riguardo al problema inerente all’interruzione del nesso di occasionalità necessaria hanno sposato un orientamento che si allontana dalla precedente impostazione dottrinale: una prima tesi distingueva, in particolare, il perseguimento di interessi personali mediante l’usurpazione di facoltà di cui il dipendente fosse del tutto privo dal perseguimento dell’interesse dell’amministrazione mediante il mero abuso delle funzioni di cui il medesimo dipendente fosse titolare. Nel primo caso, si descrivevano i casi in cui l’atto era « incompetente »; conseguentemente, l’autore escludeva la responsabilità indiretta della pubblica amministrazione e riteneva responsabile il solo funzionario, nel secondo caso, quando l’atto era detto « eccessivo », l’autore ravvisava una siffatta responsabilità in concorso con la responsabilità diretta del funzionario. Quella che oggi la giurisprudenza definisce « occasionalità necessaria » , in quanto, al fine di riconoscere la responsabilità dell’amministrazione, l’atto del dipendente doveva riferirsi alle funzioni pubbliche attribuitegli e al loro scopo, non bastando una semplice occasionalità di tempo o di luogo. Da ciò emerge la differenza di fondo tra i due concetti considerati, il primo inerente al rapporto di causalità che lega l’attribuzione delle mansioni all’agevolazione dell’illecito, rilevante sul piano dell’elemento oggettivo e concernente l’attività materiale, il secondo inerente allo scopo pubblico perseguito dal dipendente, rilevante sul piano dell’elemento soggettivo e concernente l’attività istituzionale. Secondo le Sezioni Unite, invece, ciò che conta al fine di ammettere o escludere la responsabilità[27] indiretta dell’amministrazione, che si colloca nel solo ambito dell’attività materiale, non è l’interesse soggettivo perseguito dal dipendente (c.d. teoria soggettiva), ma il nesso oggettivo (c.d. teoria oggettiva o obiettiva) che lega le funzioni attribuite alla condotta illecita che è causa dell’evento dannoso: la distinzione tra responsabilità diretta e indiretta della p.a. corrisponde sostanzialmente alla distinzione, rispettivamente, tra illecito aquiliano[28] compiuto dal dipendente nell’esercizio dell’attività istituzionale e illecito aquiliano compiuto dal medesimo dipendente nell’esercizio dell’attività materiale. La responsabilità diretta dell’amministrazione deriva, pertanto, solamente dai contratti stipulati in suo nome dai funzionari pubblici, unico caso in cui essa si obbliga per fatto proprio per il tramite dei suoi dipendenti che agiscano nei limiti del loro mandato e per lo scopo proprio della loro funzione. I loro fatti colposi determinano la responsabilità dell’amministrazione da inadempimento contrattuale, che non solo è diretta, ma finanche esclusiva dell’amministrazione. La responsabilità dell’amministrazione è invece indiretta quando questa si obbliga per il fatto dei suoi agenti, autori di illeciti civili che eccedono lo scopo della funzione, ma che sono realizzati nell’esercizio dell’incarico institorio affidato dall’amministrazione. In codesto caso la responsabilità è secondo l’autore propria anche dell’ente, in quanto essa è mossa dal suo scopo e dal suo interesse, e concorre con la responsabilità diretta del funzionario colpevole verso il terzo. Infine, una ricostruzione dottrinale esclude del tutto la responsabilità dell’amministrazione nel caso in cui il dipendente si renda autore di un delitto doloso, in quanto questo « non può avere menomamente rapporto allo scopo per cui l’ente ebbe dalla legge la sua giuridica esistenza ». È evidente che tale tesi non poteva avere ancora contezza della teoria del rapporto organico, che consente di qualificare come diretta anche la responsabilità dell’amministrazione derivante dall’illecito del dipendente che agisca come suo organo nell’esercizio delle funzioni pubbliche e non solo quella derivante da contratto, la quale vincola certamente il solo ente medesimo.

 

  1. La responsabilità extracontrattuale della p.a.: l’occasionalità necessaria e il “rischio elettivo” come esimente

La principale peculiarità dell’illecito civile, e, in particolare, di quello extracontrattuale, qualora l’autore del danno sia una pubblica amministrazione è data, rispetto alla generale evenienza di una condotta illecita posta in essere da comuni soggetti privati, dal meccanismo della c.d. solidarietà passiva delineata dall’art.28 cost., e dagli art.22 seg., d.P.R. n.3 del 1957: se a produrre un danno a terzi è un pubblico dipendente nell’esercizio di compiti istituzionali, del danno risponde anche l’ente di appartenenza. La previsione, statuente una corresponsabilità tra datore di lavoro e lavoratore, trova nell’impiego privato un corrispondente nell’art. 2049 c.c., rispondente tuttavia ad una diversa finalità.

La ratio del coinvolgimento “pecuniario” della pubblica amministrazione[29] in caso di danni arrecati a terzi da propri dipendenti va ricercata nella evidente circostanza che lo Stato e gli altri enti pubblici non possono agire che a mezzo dei propri organi, il cui operato non è di soggetti distinti,  ma degli enti stessi in cui essi s’immedesimano: ed è in virtù di tale rapporto organico che la responsabilità derivante dalla loro attività risale appunto alle persone giuridiche pubbliche delle quali sono espressione15. La normativa de qua sancisce una corresponsabilità anche del lavoratore: ma la scelta del costituente fu dettata, come è noto, dall’esigenza di pungolare il pubblico dipendente ad una più puntuale e diligente osservanza dei propri doveri, coinvolgendolo economicamente in prima persona in casi di danni arrecati a terzi nell’espletamento di compiti istituzionali. Sta di fatto, come la ricca casistica giurisprudenziale ha da sempre evidenziato, che ben raramente venga evocato in giudizio risarcitorio personalmente il dipendente pubblico (civile o militare), preferendo il terzo danneggiato convenire il più solvibile datore di lavoro pubblico[30], che poi, all’esito di un pluriennale contenzioso, ha il dovere di rivalersi nei confronti del proprio dipendente segnalando la notitia damni (intervenuta condanna risarcitoria definitiva della p.a. in sede civile o amministrativa) alla Procura della Corte dei conti o attivando un’azione civile di danni innanzi all’a.g.o.[31] La giurisprudenza ha poi chiarito che la responsabilità della p.a. sussiste anche quando non sia possibile identificare il pubblico dipendente responsabile del danno. Tale disciplina è volta a tutelare la pretesa creditoria del privato; essa è indice del principio di favor creditoris, immanente nel nostro ordinamento, salve ipotesi eccezionali.

La responsabilità solidale della p.a. datrice di lavoro per condotte dannose verso terzi di propri dipendenti incontra un connaturato limite: la pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere di tali danni arrecati a terzi solo qualora il proprio dipendente li abbia arrecati      nell’esercizio di compiti istituzionali o di compiti legati da “occasionalità necessaria” con compiti di istituto.

La miglior dottrina [32]ha chiarito che tale “occasionalità necessaria” con compiti istituzionali viene meno qualora la condotta dannosa del dipendente sia frutto di comportamenti dolosi o egoistici e, in particolare, qualora questi si traducano in un illecito penale doloso, comportante, come tale, una cesura del rapporto organico con la p.a. che non può essere ritenuta corresponsabile di reati dolosi o di scelte (illecite, stravaganti, egoistiche) esclusivamente personali del lavoratore,  in quanto il delinquere, almeno per la pubblica amministrazione, non è un compito istituzionale-pubblicistico, ispirandosi le scelte pubbliche a principi costituzionali di liceità, ancor prima che di legalità e buon andamento della p.a. Si rileva, in ottica comparatistica, che, anche in altri ordinamenti, quale quello francese, la pubblica amministrazione non può essere chiamata a rispondere di faute personelle dei propri dipendenti, ma di soli faute de service[33].

Alcuni recenti studi[34] hanno tuttavia evidenziato come un orientamento giurisprudenziale, pur condividendo in via di principio tale approdo dottrinale, che ha contribuito essa stessa a creare e consolidare[35], così da farlo assurgere a “principio generale del diritto”, spesso, nelle concrete applicazioni, si discosta vistosamente dalla regola posta in via astratta, effettuando strappi applicativi nell’individuare la sussistenza della cennata occasionalità necessaria[36].

 

  1. Conclusioni: tra politica del diritto e analisi economica del “costo” del fenomeno della responsabilità della P.A.

Il criterio di imputazione privatistico basato sul nesso di occasionalità necessaria deve dirsi valevole per  tutti i comportamenti materiali tenuti dai funzionari pubblici, compresi quelli commessi in occasione dell’esercizio del potere. L’impossibilità di ricondurre siffatti comportamenti alla categoria dei comportamenti amministrativi collegati almeno mediatamente all’esercizio del potere esclude infatti di poter ravvisare in tale esercizio del potere una ragione sufficiente a giustificare la disapplicazione delle regole comuni della responsabilità civile della pubblica amministrazione, aventi portata generale. In nome di un generale principio di equiparazione tra datore di lavoro pubblico e datore di lavoro privato la piena applicazione della responsabilità civile di diritto comune in capo al primo comporta pertanto la possibilità per il medesimo ente di rispondere dell’illecito ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Una tale parificazione non ha infatti ragione di essere esclusa in casi siffatti, dal momento che gli interessi pubblici o privati perseguiti nello svolgimento dell’attività istituzionale, rispettiva- mente dell’ente pubblico e di quello privato, non giustificano un diverso trattamento dell’attività non rientrante nel perseguimento di alcuno di quegli interessi, in quanto estranea alle funzioni proprie dell’ente. Di certo, un diverso trattamento non potrebbe essere giustificato da ragioni ascritte alla tutela delle finanze pubbliche, dal momento che un argomento di tal genere è suscettibile di condurre sempre all’immunità della p.a. dalla responsabilità civile, con indebito sacrificio dei valori sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione EDU. L’art. 81 Cost. impone, infatti, agli amministratori di assumere responsabilmente gli impegni finanziari assicurando l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico[37], ma non legittima il sacrificio della tutela giurisdizionale dei diritti dei consociati. Sono occorsi oltre cent’anni, ma finalmente le parole di Lorenzo Meucci hanno trovato un formale riconoscimento nella nostra giurisprudenza di legittimità: nessuno jus singulare nella responsabilità civile della pubblica amministrazione, per la quale, quanto meno in relazione all’attività materiale della p.a., opera interamente la disciplina di diritto comune. La soluzione adottata dalla sentenza delle Sezioni Unite qui considerata ha avuto come scopo quello di estendere i confini della responsabilità dell’ente pubblico per l’illecito commesso dal proprio dipendente, aderendo formalmente all’orientamento che esclude il rapporto organico ove il dipendente persegua esclusivamente fini personali, ma rinvenendo in tale circostanza il nesso di occasionalità necessaria. Ciò si giustifica sul piano teorico in ragione della circostanza secondo cui i comportamenti commessi in occasione dell’esercizio del potere non richiedono al giudice di esaminare in concreto la legittimità o l’illegittimità del potere esercitato, che rimane fuori dal thema decidendum del giudizio risarcitorio, ma impongono di verificare se la commissione dell’illecito sia stata causalmente agevolata dalle attribuzioni conferite dal preponente pubblico.

Occorre rilevare come sia immanente una ratio di protezione – quale “safe harbor” – della condotta attiva del dipendente pubblico, per non mortificare l’attività del medesimo. A ciò fa da contraltare un restringimento del perimetro delle fattispecie di responsabilità del dipendente pubblico. Tale moderna intelaiatura del sistema di responsabilità, tuttavia, necessariamente, dovrà essere coordinata con i principi penalistici di matrice euro-unitaria, tra cui ex multis quello di tipicità, prevedibilità e contraddittorio. 

Alla luce di una analisi economica del diritto, sembra, tuttavia, che tale orientamento della politica legislativa consenta una ottimale allocazione del costo della responsabilità (c.d. ottimo paretiano)[38] del dipendente pubblico “attivo”, anche in ragione della generale categoria della colpa grave e del peculiare sistema di rivalsa da parte dell’Amministrazione.

Esso costituisce un inducement[39]ossia un meccanismo di coercizione indiretta[40], nei confronti del dipendente pubblico che ponga in essere una condotta attiva non gravemente colposa, quale corollario dei principi di buon andamento, efficacia, economicità ed efficienza dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), nonchè degli equilibri di finanza pubblica (art. 81 Cost.).   

 

 

 

 

 

 

 

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[1] F. Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette: premesse generali, in Contratto impr., 1987, 532;

[2] Cfr. S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare Napoli, 1978; Id., L’esecuzione forzata, Tratt. Rescigno, v. 20. Tutela dei diritti, t. II, 2a ed,Torino 1998; Id., Dell’esecuzione forzata, Art. 2910-2933, Comm. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2020; A. Lamorgese, Luci e ombre nella sentenza delle Sezioni Unite sui danni punitivi, in Riv. dir. civ., 2018, 325-326; L. E. Perriello, Polifunzionalità della responsabilità civile e atipicità dei danni punitivi, in Contr. impr. Eur., 2018, 451.

[3]  Sul punto cfr. Nivarra, La Cassazione e il punitive damage cit., 11-15, il quale giudica ultroneo rispetto all’obiettivo della pronuncia, rappresentato dalla mera delibabilità della sentenza straniera, il tentativo delle Sezioni unite di rintracciare la funzione sanzionatoria della responsabilità civile. Per altro verso, l’a. stigmatizza l’argomentazione dei giudici tesa a dimostrare la compatibilità dei punitive damages con la responsabilità civile tramite la confutazione del «rango di valore costituzionale essenziale e imprescindibile» che della funzione compensativa della responsabilità civile. Si tratta di un’argomentazione indicativa «della tendenza, ormai radicata e diffusa tra i giudici, a saltare a piè pari il momento strettamente ermeneutico per misurarsi subito con quello di una costruzione nella quale la materia prima non sono più i dogmi (o, se si preferisce, la dogmatica) ma, direttamente, i principi. Con la conseguenza che, appunto, l’unico limite alla malleabilità di un istituto è rappresentato dal rango costituzionale della sua funzione. In realtà, i principi sono d’ausilio nella interpretazione di un enunciato legislativo (ad es., ci si può avvalere di un principio come quello di cui all’art. 24 cost. per estendere l’ambito di operatività delle norme in materia di esecuzione in forma specifica ai diritti di credito); i principi possono essere invocati per colmare una lacuna (ad es., una nullità a tutela dell’impresa debole di cui non sia compiutamente definito il regime della legittimazione attiva può assimilarsi a quella “speciale” prevista per il consumatore, piuttosto che a quella “comune”, ponendo alla base del ragionamento il principio di eguaglianza formale); i principi, infine, possono presiedere alla generalizzazione di regole già presenti nelle pieghe dell’ordinamento ma, sino ad allora, destinate ad applicazioni puntuali (si pensi al diritto alla riservatezza “rinvenuto” dalla S.C. nel 1975 sulla scorta dell’art. 2 cost.). I principi in senso assiologico, però, non possono essere mobilitati contro i principi assiomatici: in altri termini, si può ampliare la tutela risarcitoria oltre gli angusti confini carneluttiani del diritto soggettivo, ma non si può (per una insuperabile impossibilità logica) trasformare il rimedio risarcitorio in un rimedio (anche) afflittivo, perché tanto il danno quanto il suo risarcimento sono costrutti normativi sottratti alla disponibilità dell’interprete, non perché unti da un qualche crisma costituzionale ma, semplicemente, perché le condizioni d’uso dell’uno e dell’altro termine, fissate dal legislatore, sono rigide e, in linea di massima, immodificabili»

[4] Cfr. Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale, in Eur e Dir. Priv., 2008, 334; Id., Conclusioni. Look what they’ve done to my Song, I mobili confini del diritto privato. Atti del Seminario in onore di Salvatore Mazzamuto Palermo, 9 giugno 2017, a cura di L. Nivarra e A. Plaia, Torino 2018, 82; Id., Responsabilità civile cit., 30, 899 s. Nello stesso senso v. anche C. Salvi, Risarcimento del danno, Enc. dir., XL, Milano, 1989,, 1087; L. Nivarra, La Cassazione e il punitive damage: un mondo piccolo per grandi danni, I mobili confini del diritto privato cit., 14-15. Sul principio causalistico che informa il risarcimento cfr. anche M. Barcellona, Inattuazione dello scambio e sviluppo capitalistico. Formazione storica e funzione della disciplina del danno contrattuale, Milano, 1980, 131 s., 151 s., 202 s.; nonché, con riferimento ai punitive damages, Id., Funzione compensativa della responsabilità (e «private enforcement» della disciplina antitrust), Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, a cura di M. Maugeri e A. Zoppini, Bologna, 2010, 68-73, 81. Critico sulla configurazione del risarcimento punitivo è, inoltre, P. Sirena, Il risarcimento dei c.d. danni punitivi e la restituzione dell’arricchimento senza causa, Riv. dir. civ., 2006, 531-537, il quale suggerisce una maggiore valorizzazione dei rimedi restitutori. La funzione compensativa del risarcimento viene segnalata anche da G. Guizzi, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, 180, e, con particolare riferimento all’impossibilità di trasporre in maniera automatica i punitive damages del diritto antitrust statunitense, da A. Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust,Milano, 1996, 179 s. Escludono la funzione punitiva del risarcimento anche P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 9; G. Spoto, Risarcimento e sanzione, in Eur e Dir. Priv., 2018, 495. Nonché A. di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 167-176, 272-275. Il medesimo a. mostra, tuttavia, una maggiore apertura ai punitive damages nei suoi scritti più recenti: Id., La responsabilità civile nella prospettiva dei rimedi: la funzione deterrente, in Eur. e Dir. Priv, 2008, 306-311, in cui il risarcimento punitivo viene posto «fuori» dalla fattispecie risarcitoria, ma non viene escluso che la prospettiva rimediale potrebbe offrire un contributo per la «modernizzazione dell’istituto»; Id., Rileggendo Augusto Thon, in merito ai c.d. danni punitivi dei nostri giorni, ivi, 2018, 1314 s. e passim, che valorizza il carattere polifunzionale della responsabilità civile e da esso inferisce la possibilità di modulare il risarcimento finanche in chiave punitiva del danneggiante, rompendo quindi il nesso risarcimento-danno. Cfr. invece, sin d’ora, Cass. (ord.) 16-5-2016, n. 9978, Dir. civ. cont., 2016, con note di M. Grondona, L’auspicabile ‘via libera’ ai danni punitivi, il dubbio limite dell’ordine pubblico e la politica del diritto di matrice giurisprudenziale (a proposito del dialogo tra ordinamenti e giurisdizioni); ivi, 2017, di L. Nivarra, Brevi considerazioni a margine dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite sui «danni punitivi», di A. Montanari, La resistibile ascesa del risarcimento punitivo nell’ordinamento italiano (a proposito dell’ordinanza n. 9978/2016 della Corte di Cassazione); in Danno resp., 2016, con commenti di P.G. Monateri, La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle Sezioni Unite; e di G. Ponzanelli, Possibile intervento delle Sezioni Unite sui danni punitivi; in Corriere giur., 2016, 909 ss. con nota di C. Scognamiglio, I danni punitivi e le funzioni della responsabilità civile; Cass. s.u. 5-7-2017, n. 16601, inDanno resp., 2017, 419 ss., con note di M. La Torre, Un punto fermo sul problema dei “danni punitivi”; di G. Corsi, Le Sezioni Unite: via libera al riconoscimento di sentenze comminatorie di punitive damages; G. Ponzanelli, Polifunzionalità tra diritto internazionale privato e diritto privato; P.G. Monateri, Le Sezioni Unite e le funzioni della responsabilità civile; in Dir. comm. int., 2017, 709 ss., con nota di M. Lopez De Gonzalo, La Corte di Cassazione cambia orientamento sui punitive damages); e, in dottrina, A. Riccio, I danni punitivi non sono, dunque, in contrasto con l’ordine pubblico interno, ivi, 2009, spec. 880-881 e passim; Grondona, L’auspicabile ‘via libera’ ai danni punitivi cit.; Id., La responsabilità civile tra libertà individuale e responsabilità sociale. Contributo al dibattito sui «risarcimenti punitivi»,(Napoli, 2017, 105 s., spec. 124 s.; G. Zarra, L’ordine pubblico attraverso la lente del giudice di legittimità: in margine a Sezioni unite 16601/17, in Dir. comm. int., 2017, 722 s.; M. Astone, Responsabilità civile e pluralità di funzioni nella prospettiva dei rimedi. Dall’astreinte al danno punitivo, in Contr. impr., 2018, 282 s.

[5] Il punto viene segnalato anche da parte della dottrina più incline all’introduzione dei punitive damages: cfr. G. Ponzanelli, Novità per i danni esemplari?, in Contr. impr., 2015, 1195; Id., Possibile intervento delle Sezioni Unite cit., 838, secondo cui risulta poco credibile che nell’ordinamento italiano «una misura non riparatoria possa essere fissata dal giudice secondo il suo esclusivo e incondizionato apprezzamento equitativo: essa necessita di una intermediazione legislativa». Sottolineano la necessità dell’intermediazione legislativa anche A. Ciatti Càimi, I danni punitivi e quello che non vorremmo sentirci dire dalle corti di common law, in Contr. impr./Europa, 2017, 9 s.; Spoto, Risarcimento e sanzione cit., 497-498. Contra di Majo, Rileggendo Augusto Thon, cit., 1313 s.; Lamorgese, Luci e ombre cit., 325 s.

[6] Osserva al riguardo G. AVANZINI, Responsabilità civile e procedimento amministrativo, Padova, 2007, p. 69 – 70 che «anche per la dottrina piú critica vi è la consapevolezza che tale distinzione contenga un nucleo di verità. Vi è la percezione di una diversità di relazioni tra cittadino e amministrazione in base alla quale, se per gli atti di gestione è possibile trasporre pienamente le regole civilistiche della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, altrettanto non può dirsi per gli atti d’imperio. Rispetto ad essi è necessario tenere conto che la peculiarità dell’azione amministrativa può giustificare l’applicazione di regole diverse, che possono talvolta portare ad escludere la responsabilità laddove per il diritto privato sussisterebbe».

[7] Di fronte agli atti o comportamenti di natura pubblicistica, quale ius imperium, l’Autorità giudiziaria riconobbe la propria competenza, in considerazione del fatto che a fronte dell’atto autoritativo non potesse configurarsi alcun diritto. Detta interpretazione, peraltro, oltre a non essere l’unica possibile, non fu di fatto neppure praticata nei primissimi anni successivi all’entrata in vigore della Legge abolitrice. Ed infatti, almeno fino al 1876 costituiva ius receptum che «chiunque da un provvedimento generale regolamentare dell’autorità amministrativa riceva danno può domandarne il risarcimento dinanzi l’autorità giudiziaria. L’autorità giudiziaria investita della domanda, riconosciuta l’irregolarità di un provvedimento non deve revocarlo, ma soltanto dichiarare la responsabilità dell’autorità amministrativa, di fronte alla prova del danno» (Cass. Roma del 13 marzo 1876, riportata dall’Avvocato dello Stato Caramazza, op. cit., e consultabile in Foro it. 1876, I, 842). A detto orientamento, assai liberale, succedette tuttavia un orientamento di segno opposto, restrittivo. Si sostenne, in buona sostanza, muovendo dalla distinzione fra atti di imperio e atti di gestione e della tesi della sindacabilità incidenter tantum dell’atto di imperio solo in via di eccezione e solo quando lo stesso atto aggiungesse al rapporto “politico” un “rapporto accidentale e contingente di natura civile”, che il riconoscimento al giudice ordinario del potere di conoscere della responsabilità civile dell’amministrazione derivante dall’esercizio scorretto di atti d’imperio avrebbe comportato – sotto le mentite spoglie della cognizione di una pretesa risarcitoria – un inammissibile sindacato dell’esercizio del potere. La limitazione della cognizione del Giudice ordinario scaturí da una concezione autoritaria dei rapporti tra amministrazione e amministrati, che nondimeno non apparteneva al legislatore del 1865, quanto all’interpretazione della giurisprudenza in merito all’insindacabilità giurisdizionale degli atti d’imperio, e rese evidente l’esigenza di apprestare uno strumento di tutela a quelle situazioni di interesse che a seguito dell’abolizione del sistema del contenzioso erano rimaste orfane di ogni forma di protezione, cosa che avvenne attraverso le riforme crispine, come innanzi si vedrà. La dottrina maggioritaria dell’epoca riteneva, dunque, che mentre gli atti di gestione sono soggetti al diritto comune e di conseguenza alla disciplina sulla responsabilità, per gli atti d’imperio fossero necessarie restrizioni e modificazioni in relazione alle speciali esigenza della pubblica amministrazione. In tal senso, si cfr. F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo (ristampa a cura di G. MIELE), Padova, 1960, p. 623 ss. e, per la giurisprudenza, Cass. Roma 9 luglio 1897, in Foro it. 1898, I, 80 ss. La distinzione in parola cominciò, tuttavia a scalfirsi, anche a fronte della difficoltà applicativa cui conduceva. In particolare, L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Vol. I, Milano, 1910, p.196 ss., anche attraverso la disamina delle pronunce giurisprudenziali, spesso incerte e contraddittorie, mette in luce come l’insindacabilità degli atti d’imperio in sede giurisdizionale e la conseguente irresponsabilità non abbia alcun addentellato normativo, ma ansi contrasti col diritto positivo. Osserva, sulla stessa linea, la giurisprudenza che «viene a riproporsi la questione della responsabilità dello Stato pel fatto dei suoi funzionari, sulla quale si è molto disputato nel campo della dottrina e della giurisprudenza, in cerca di una teoria da applicarsi ai casi specifici: teoria già accampata colla distinzione atti d’imperio e di gestione, che si è riconosciuta erronea perché troppo astratta e non sempre corrispondente all’applicazione pratica (…) ed ormai ripudiata da questa Corte», cosí Cass. Roma, SS. UU., 22 giugno 1909, Giur. It, 1909, I, 913, sostanzialmente conforme a Cass. Napoli, 23 agosto 1904, in Foro it., 1905, I, 15 ss. Tuttavia, sebbene si teorizzasse l’astratta responsabilità per gli atti d’imperio, alla distinzione tra atti d’imperio e atti di gestione si venne sostituendo la distinzione tra attività vincolata e attività discrezionale, con una conseguente interpretazione restrittiva delle regole processuali, che portò inizialmente ad escludere il sindacato del giudice ordinario sui profili discrezionali dell’atto.

[8] Anche la semplificazione amministrativa, quale ratio sottesa al d.l. n. 76/2020, non può raggiungersi semplicemente con una manovra di deresponsabilizzazione temporanea, essendo necessari cambiamenti più radicati e strutturali, da sempre tradizionalmente invocati, ma che non possono certo essere attuati con una rapida “riforma estiva”. Al riguardo, oltre a quanto già affermato in tema di tipizzazione delle ipotesi di colpa grave e di errore scusabile, con un intervento più penetrante, sistemico e innovativo si potrebbe cominciare un processo di riassetto della codificazione, ben sapendo che la semplificazione normativa costituisce solo il primo passo verso la semplificazione amministrativa: è noto, infatti, come la “legge oscura” rompa la linea di demarcazione tra legittimità e illegittimità nelle decisioni, crei incertezza e sia causa di condotte egoistiche adottate nella consapevolezza di pregiudicare la realizzazione del pubblico interesse. In tal senso, è auspicabile – con riferimento alla materia dei contratti pubblici – che si positivizzi una normativa facente riferimento soltanto alle norme del diritto europeo, al netto ovviamente di quelle interne strettamente necessarie come le norme antimafia. Inoltre, nelle ipotesi in cui l’Unione Europea lasci liberi gli Stati membri di legiferare, la soluzione migliore potrebbe essere quella meno afflittiva per le stazioni appaltanti, anche in tal caso fermi restando alcuni correttivi parametrati alla realtà nazionale, come quelli in materia di anticorruzione. Tale proposta sembra più che percorribile, essendo già attuata in altri Paesi unionali come la Germania e la Polonia e nella non più europea Gran Bretagna. Peraltro, la stessa legge n. 120/2020, presenta delle aperture in tal senso, prevedendo – all’art. 2, comma IV – che in numerosi settori speciali le stazioni appaltanti operino in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto di quelle antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nonché dei vincoli europei, tra cui quelli derivanti dalle direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE, dei principi di cui agli artt. 30, 34 e 42 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 5076 (cd. Codice dei contratti pubblici) e delle disposizioni in materia di

subappalto.

[9] M.R. SPASIANO, Riflessioni in tema di nuova (ir)responsabilità erariale e la strada della tipizzazione della colpa grave nella responsabilità erariale dei pubblici funzionari, cit., 292 ss., che rileva come l’abolizione della colpa grave sia stata l’unica strada trovata dal legislatore per cercare di recuperare la speditezza nelle decisioni, ma la novella introduce il concetto “pericoloso” del «purchè si agisca, si agisca anche male, tanto non c’è responsabilità!» ed elogia l’esercizio di un’azione, qualunque essa sia, senza l’obbligo di una adeguata avvedutezza dell’operare. Si veda, altresì, C. PAGLIARIN, L’elemento soggettivo dell’illecito erariale nel “decreto semplificazioni”: ovvero la “diga mobile” della responsabilità, cit., 213, secondo la quale l’intervento normativo in esame rappresenta il culmine di scelte normative che hanno sempre scomposto e frammentato l’illecito erariale e non risponde realmente ad una ratio di semplificazione amministrativa. La riforma – continua l’Autrice – con il suo carico di indeterminatezza ed imprevedibilità, non dà affatto certezze ai dipendenti pubblici su come operare in un momento di estrema difficoltà per le pubbliche amministrazioni. A porsi in netto contrasto con la scelta del legislatore del 2020 è stata anche la stessa Corte dei Conti che, a sezioni riunite in sede di controllo, nell’Audizione sul d.d.l. 1883, con parere del 28 luglio 2020, hanno rilevato come l’incapacità provvedimentale della P.A. dipenda non solo da una paura di incorrere in responsabilità ma anche da altri importanti fattori come la confusione legislativa, l’inadeguata preparazione professionale e l’insufficienza degli organici. Inoltre, la non punibilità per colpa grave non si concilia con la realtà processuale secondo cui la maggior parte delle citazioni in giudizio sono collegate proprio a condotte gravemente colpose. Nelle conclusioni, la Corte non ha mancato di rilevare come l’eliminazione della colpa grave non produce alcun effetto accelerativo sull’azione amministrativa.

[10] Passando alla pars costruens dell’indagine, va preliminarmente rilevato che per recuperare il buon andamento della pubblica amministrazione, e dare così concreta attuazione all’art. 97 Cost., è necessario un cambiamento strutturale e permanente dell’istituto della responsabilità erariale, non già a tempo come quello attuato dalla novella in esame69

. In tal senso, una riforma che operi “a pieno regime” quale valida soluzione per debellare – o quantomeno contenere – l’amministrazione difensiva potrebbe essere la tipizzazione della colpa grave. Del resto, già adesso sono in

vigore norme che scolpiscono ipotesi di colpa grave: si pensi all’art. 5, co. III, del d.lgs. n. 472/1995 che, in materia di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, stabilisce espressamente che «la colpa è grave quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari. Non si considera determinato da colpa grave l’inadempimento occasionale ad obblighi di versamento del tributo».

[11] M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 1117, secondo il quale “non sono riferibili all’Amministrazione …le azioni che non provengono da soggetti i quali possano essere considerati agenti di essa, …. gli atti personali degli agenti (lettere e negozi privati), ….gli atti viziati da incompetenza assoluta (straripamento di potere) e i comportamenti posti in essere volutamente (dolosamente) in violazione di norme proibitive (diversamente dall’opinione corrente nella dottrina francesi, si ritiene che il fatto che costituisca reato doloso istituzionalmente non può essere ascritto all’Amministrazione)”. Sul punto v. anche E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, 575; E. GRECO, La responsabilità civile dell’amministrazione e dei suoi agenti, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2003, 1741; M.  CLARICH, La responsabilità civile della pubblica amministrazione nel diritto italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 1989, 1085.

[12] Per un esame funditus dell’argomento v., ex multis, S. ROMANO, Organi, in ID., Fram- menti di un dizionario giuridico, Milano, 1947; A. ROMANO, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili sono diritti soggettivi, in Dir amm. 1998; ID., Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del convegno celebrativo del 150° anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Torino, 1981, 1983, pp. 95 ss.; ID., Sono risarcibili: ma perché devono essere interessi legittimi?, nota a Cass. civ., sez.. un., n. 500/1999, in Foro it., 1999, III, c. 3222 ss.; ID., Risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi ed opere pubbliche, in Risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi, Atti del XLIII Convegno di Scienza dell’Amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 18-20 settembre 1997, Milano, 1998; ID., La risarcibilità degli interessi legittimi: il parere di un rappresentante dell’accademia, in Temi romana, 2000 fasc. 3, pt. 1, pp. 1074-1083; E. CASETTA, Responsabilità della Pubblica Amministrazione, in Dig. disc. pubbl., XIII, Torino, 1997, pp. 219 ss.; ID., L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953; E. SCOTTI, Liceità, legittimità e responsabilità dell’amministrazione, Napoli, 2012; ID., Appunti per una lettura della responsabilità dell’amministrazione tra realtà e uguaglianza, in Dir. amm., 3, 2009, pp. 521 ss.; F. SATTA, Responsabilità della pubblica amministrazione, in Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1998, p. 1085; G.M. RACCA, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000; ID., Giurisdizione esclu- siva e affermazione della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, in Urbanistica e appalti, n. 2, 2002, pp. 199 e ss.; ID., Principio di correttezza e responsabilità della pubblica amministrazione, in Servizi Pubblici e Appalti, 1, 2003, pp. 122 ss.; ID., Contratti e Responsabilità delle Pubbliche amministrazioni nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, Torino, 2008. R. GAROFOLI, G.M. RACCA, M. DE PALMA, La responsabilità della pubblica amministrazione e il risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003; F. MERUSI, La responsabilità dei pubblici dipendenti secondo la Costituzione: l’art. 28 rivisitato, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986, pp. 41 ss.; E. FOLLIERI (a cura di), La responsabilità civile della pubblica amministrazione, Milano, 2004; A. ROMANO TASSONE, La responsabilità della p.a. tra provvedimento e comportamento, in Dir. amm., 2, 2004, pp. 209 ss.; M. SANTILLI, Il diritto civile dello Stato. Momenti di un itinerario tra pubblico e privato, Milano, 1985, pp. 145 ss.; M. C. CAVALLARO, Potere amministrativo e responsabilità civile, Torino, 2004.

[13] Cfr. Corte di cassazione; SS. UU,, n. 13246 del 2019

[14] Un primo orientamento, fondato sui criteri pubblicistici di imputazione dell’illecito, riteneva che la responsabilità dello Stato o degli enti pubblici per il fatto illecito dei loro dipendenti o funzionari fosse diretta e sussistesse esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali. In virtù del rapporto organico, quella attività doveva essere imputata direttamente all’ente ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 cod. civ. e 28 Cost. L’agire del dipendente per finalità esclusivamente personali ed egoistiche recideva il rapporto organico ed escludeva pertanto la responsabilità dell’ente, facendo residuare la sola responsabilità del dipendente per fatto proprio. Contraddittoriamente si invocava al contempo il c.d. nesso di occasionalità necessaria, anch’esso ricondotto al combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 2043 cod. civ.; ai fini della sua sussistenza si riteneva sufficiente che le funzioni svolte per l’amministrazione avessero determinato, o anche soltanto agevolato, la realizzazione del fatto lesivo. Codesto nesso veniva considerato sussistente tutte le volte in cui il pubblico dipendente non avesse agito come semplice privato per fini esclusivamente personali e del tutto estranei all’amministrazione, ma avesse tenuto una condotta anche solo indirettamente ricollegabile alle attribuzioni assegnate all’agente dalla p.a. di appartenenza, finanche quando il dipendente, svolgendo un’attività diretta al perseguimento di finalità proprie della stessa p.a., perseguisse contestualmente e in maniera non esclusiva interessi personali o commettesse abusi. Tuttavia, si diceva che « solo quando il dipendente agisca come un semplice privato, per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli assolutamente estraneo all’Amministrazione, o contrario ai fini che questa persegue, ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, (…) cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A. », cfr. Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2014, n. 21408; Id., 29 dicembre 2011, n. 29727. Si considerava dunque il rapporto organico e il nesso di occasionalità necessaria alla stregua di due presupposti della responsabilità della p.a. per l’illecito commesso dal proprio dipendente sostanzialmente coincidenti e interrotti alle medesime condizioni. Ciò presupponeva la necessità di ravvisare in capo alla p.a. di appartenenza una culpa in vigilando in eligendo rispetto al dipendente autore dell’illecito ex art. 2043 cod. civ. Un secondo orientamento riteneva sussistente la responsabilità indiretta dello Stato o dell’ente pubblico in presenza di un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta illecita del dipendente e le funzioni attribuitegli. A suo sostegno si richiamavano i criteri di imputazione privatistici sanciti dall’art. 2049 cod. civ.: la responsabilità del preponente pubblico, al pari di quello privato, era considerata una responsabilità oggettiva per fatto altrui concorrente con quella del preposto, che rispondeva per fatto proprio nei limiti del dolo o della colpa grave. L’agire per finalità esclusivamente personali ed egoistiche del dipendente non era considerato motivo di recisione del nesso di occasionalità necessaria. Pertanto, l’ente rispondeva dell’illecito ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Così Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2008, n. 6632; Id., sez. I, 20 marzo 1999, n. 2574. Si finiva per attrarre nell’ambito della responsabilità del datore di lavoro qualsiasi fatto illecito ascrivibile ai lavoratori comunque connesso al contesto lavorativo, mentre il preponente non veniva gravato delle conseguenze di un fatto posto in essere dal preposto al di fuori dell’espletamento delle incombenze demandategli e per un fine del tutto estraneo all’adempimento di queste ultime. Così Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2001, n. 14096.

[15] R. ALESSI, L’illecito e la responsabilità civile degli enti pubblici, Milano, 1972; E. CANNADA BARTOLI, Introduzione alla responsabilità della Amministrazione pubblica, in (a cura di) E. CANNADA BARTOLI, La responsabilità della Amministrazione pubblica, Torino, 1976; A. TORRENTE, La responsabilità indiretta della Amministrazione pubblica, in Riv. dir. civ., 1958, I, pp. 278 ss., che ravvisavano una responsabilità indiretta dell’ente pubblico solo nel caso di attività materiale dei dipendenti pubblici

[16] D. SORACE, Il risarcimento dei danni da provvedimenti amministrativi lesivi di interessi legittimi, comparando, in (a cura di) G. FALCON, Il diritto amministrativo dei paesi europei tra omogeneizzazione e diversità culturali, Padova, 2005, pp. 240, 247. Già F. SATTA, Responsabilità della PA, voce dell’Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 1381, asseriva che il riconoscimento della responsabilità civile della PA avrebbe comportato un flusso di danni e quindi di costi non addebitabili alle casse dello Stato, oltre che un controllo di natura sociale, tradotto in termini giudiziari, dell’azione amministrativa che avrebbe travolto la ripartizione tradizionale dei poteri pubblici.

[17] Sull’art. 28 Cost. in dottrina v., ex multis, S. ROMANO, Organi, cit.; R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione nell’evoluzione legislativa più recente, in Rass. dir. pubb., I, 1949; ID., Responsabilità del pubblico funzionario e responsabilità dello Stato in base all’art. 28 della Costituzione, in Riv. trim. dir. pubb., 1951; C. ESPOSITO, La responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici secondo la Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951; M.S. GIANNINI, Impiego pubblico (teoria e storia), in Enc. Dir., XX, Milano, 1970; F. MERUSI, La responsabilità dei pubblici dipendenti secondo la Costituzione, cit.; E. CASETTA, L’illecito degli enti pubblici, cit.; M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978; M.C. CAVALLARO, Potere amministrativo e responsabilità civile, cit., pp. 17 ss.; M. BENVENUTI, Art. 28, in Com- mentario alla Costituzione, 2006. Per una dottrina più antica si veda L. MEUCCI, Della responsabilità indiretta delle amministrazioni pubbliche, in Arch. giur., 1878, XXI, pp. 352 ss.; C.F. GABBA, Della responsabilità dello Stato per danno dato ingiustamente ai privati da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro attribuzioni, in Foro it., 1881, I, pp. 951 ss.; A. BONASI, La responsabilità dello Stato per gli atti dei suoi funzionari, in Riv. it. scienze giur., 1886, p. 8; G. VACCHELLI, La responsabilità civile della pubblica amministrazione ed il diritto comune, Milano, 1892, pp. 107 ss.; V.E. ORLANDO, Saggio di una nuova teoria sul fondamento giuridico della responsabilità civile a proposito della responsabilità diretta dello Stato, in Arch. dir. pubbl., 1893, pp. 247 ss.; O. RANNELLETTI, Sulla responsabilità degli enti pubblici per atti illeciti dei loro commessi, in Foro it., 1898, I, p. 83; F. CAMMEO, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, 1901, pp. 232 ss.; L. PRESUTTI, La responsabilità della pubblica ammi- nistrazione in relazione alle giurisdizioni amministrative, in La legge, 1901, II, pp. 141 ss.; S. ROMANO, Principii di diritto amministrativo italiano, 2ª ed., Milano, 1906, pp. 59 ss.

[18] M.S. GIANNINI, Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964; F. MERUSI, La responsabilità dei pubblici dipendenti secondo la Costituzione, cit., pp. 41 ss.; P. RESCIGNO, Le obbligazioni della pubblica amministrazione (note minime di diritto privato), in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, p. 131

[19] V. per tutte Cass. civ., 5 gennaio 1979, n. 31. Sul rapporto di immedesimazione organica v. M.S. GIANNINI, Impiego pubblico (teoria e storia), cit., nonché M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978, spec. pp. 119 ss. Da ultimo, S. BATTINI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Padova, 2000; P. VIRGA, Diritto amministrativo, Milano, 1999, I, p. 27. L’art. 28 Cost., accompagnato dalla previsione generale secondo cui i dipendenti pubblici rispondono dei danni solo se commessi con dolo o colpa grave (artt. 22 e 23 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3), rappresenta il punto di equilibrio tra la tesi accolta in Gran Bretagna e quella accolta in Germania: mentre nella prima si riconosce la responsabilità personale del dipendente pubblico, solo a certe condizioni estendibile dalla legge agli apparati al servizio dei quali egli opera, nella seconda vige di regola la responsabilità oggettiva indiretta dell’apparato. Il nostro ordinamento, che prevede una responsabilità solidale e  diretta  tanto  dell’ente pubblico, quanto del dipendente limitatamente al dolo e alla  colpa  grave,  consente  di bilanciare contrapposte esigenze: quella di assicurare un risarcimento integrale dei danni subiti dalla vittima e di scoraggiare il compimento di illeciti da parte dei dipendenti in vista della possibile rivalsa che l’ente pubblico può esperire nei loro confronti e quella di evitare il rischio di un eccesso di deterrenza, che faccia sorgere in capo ai dipendenti la c.d. « paura della firma », compromettendo l’efficacia dell’azione amministrativa. Al riguardo v. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, II ed., 2013, p. 286. Sulla c.d. « amministrazione difensiva » v. F. FOLLIERI, Politica, burocrazia e buon andamento, in PA Persona e Amministra- zione, 1, 2021, pp. 89 ss.

[20] G. GUARINO, L’organizzazione pubblica, Varese, 1977, pp. 91, 94, 108 ss., 187 ss. e 322; v. al riguardo anche E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo¸ XXI ed., Milano, 2019, pp. 142 ss.

[21] Dibattuta era l’imputabilità in capo alla persona giuridica dei fatti posti in essere dall’organo, primi tra tutti degli illeciti. Taluno ammetteva l’imputazione giuridica di tutti i comportamenti giuridicamente rilevanti che siano fatti umani, altri consideravano l’imputa- zione riguardante i soli atti. Nel primo senso A. FALZEA, voce Capacità (teoria generale), cit., pp. 293-294; G. GRECO, La responsabilità civile dell’Amministrazione e dei suoi agenti, in (a cura di)

  1. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA, Diritto amministrativo, cit., pp. 1680 ss., secondo cui sia l’attività provvedimentale, sia l’attività materiale dei dipendenti pubblici risulta normalmente imputabile direttamente all’ente di appartenenza. Tuttavia, non è certo se l’imputazione dell’attività materiale debba essere spiegata sulla base del rapporto organico o di altri istituti, quali il rapporto d’ufficio, e nel caso dell’illecito l’A. prospetta l’eventualità di dover utilizzare i criteri autonomi scaturenti dalle norme che disciplinano l’illecito. In presenza di una responsabilità del dipendente per dolo e colpa grave, secondo l’A. il rapporto organico risulterebbe infatti spezzato e l’ente pubblico risponderebbe dell’illecito del dipendente non già ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., ma dell’art. 28 Cost., letto secondo tale prospettiva in termini di responsabilità indiretta e oggettiva che si aggiunge e concorre solidalmente con quella propria del dipendente. A sostegno della tesi in esame v. anche G. GRECO, Argomenti di diritto amministrativo. Parte generale: i lineamenti essenziali del sistema, Milano, 2010, pp. 34 ss.; G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Lezioni di diritto amministrativo per il corso di base, 3° ed., Napoli, 2012, pp. 158 ss.; V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del diritto amministrativo, cit., pp. 94-95; M. CARRÀ – W. GASPARRI, Elementi di diritto amministrativo, Torino, 2017, pp. 76 ss.; M. C. CAVALLARO, Immedesimazione organica e criteri di imputazione della responsabilità, cit., spec. pp. 41 ss. Alla seconda tesi aderivano, in particolare, M. S. GIANNINI, Organi (teoria generale), cit., pp. 47-48; F.G. SCOCA, Le amministrazioni come operatori giuridici, cit., pp. 483-484, il quale richiama ai fini dell’imputabilità dell’illecito la disciplina codicistica di cui agli artt. 2046 e 2049 cod. civ., oltre che le regole speciali stabilite per gli enti pubblici dagli artt. 28 Cost. e 25 T.U. degli impiegati civili dello Stato.

 

[22] Così L. PRINCIPATO, L’art. 28 Cost. e la responsabilità civile dell’amministrazione sanitaria, cit., pp. 1606 ss

[23] In questi termini M. MONTEDURO, Il funzionario persona e l’organo:  nodi  di  un problema, in PA Persona e Amministrazione, 1, 2021, pp. 49 ss., spec. pp. 85 ss., che trae spunto dalla dottrina minoritaria di G. MIELE, Principî di diritto amministrativo, Vol. I (2° ristampa della 2° edizione), Padova, 1966, pp. 75-80 e dalle parole di G. MARONGIU, Funzionari e ufficio nell’organizzazione amministrativa dello Stato, in Studi in memoria di V. Bachelet, Milano, 1987, secondo cui « le persone fisiche » sono « i veri e soli attori del diritto », pp. 418 e a p. 416. Dubbi sulla « tenuta del principio di immedesimazione organica, come criterio di imputazione della responsabilità » e sulla « persona fisica come protagonista dell’organizzazione » sono espressi rispettivamente da M. C. CAVALLARO, Immedesimazione organica e criteri di imputa- zione della responsabilità, in PA Persona e Amministrazione, 1, 2019, pp. 44 e 50 e da M. BELLAVISTA, La posizione organizzativa del responsabile del provvedimento e di quella del responsabile del procedimento, in PA Persona e Amministrazione, 1, 2019, p. 385, dal primo Autore citato richiamati. Secondo B. GILIBERTI, Contributo alla riflessione sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2020, pp. 26 ss. l’unità fondamentale dell’orga- nizzazione pubblica dovrebbe essere la persona fisica. Contra v. G. TROPEA, Amministrazione per fini pubblici e giurisdizione, in PA Persona e Amministrazione, 1, 2021, pp. 319 ss., secondo cui si rischia di consolidare « una persistente antica anima oggettiva della procedura e del giudizio amministrativo », spec. pp. 323 e 354.

[24] L’assenza, nel testo dell’art. 2049 cod. civ., di ogni riferimento alla colpa ha consentito alla dottrina di configurare una responsabilità oggettiva per le attività di impresa, fondate sul rapporto di lavoro subordinato che lega il dipendente all’imprenditore. V. in materia C. CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, p. 329. In senso contrario v. R. SCOGNAMIGLIO, Responsabilità per colpa e responsabilità oggettiva, in Scritti giuridici, 1. Scritti di diritto civile, Padova, 1996, p. 407 e ID., Responsabilità per fatto altrui, in Scritti giuridici, cit., p. 457.

 

[25] A tal riguardo Meucci affermava: « Qui non è più soltanto la colpa presunta per la coabitazione, per la sorveglianza e la direzione immediata, per la solidarietà domestica o famigliare, e quasi per la materiale continenza di luogo: ma è qualche cosa di più largo, cioè la estensione della nostra garanzia e responsabilità a ciò che si fa anche fuori di casa nostra, bensì a nostro nome, nel nostro interesse e con nostro prestigio […] e ciò per un principio di equità e di diritto generale, razionale e positivo, esser giusto e naturale che ognuno risenta gl’incomodi di là onde ritrae i vantaggi, e che non sia impunemente per nostra causa e negligenza danneggiato chi trattò con noi o colle persone scelte da noi, collocate sotto la nostra autorità e agenti a nome e nell’interesse nostro », cfr. L. MEUCCI, Instituzioni di diritto amministrativo, Roma, ed. I, 1879, pp. 306-307 e 310

[26] Il criterio elaborato a tal fine dalla giurisprudenza invoca perciò un giudizio oggetti- vizzato di normalità statistica, riferita alle ipotesi in astratto definibili come « più probabili che non ». Ciò in ossequio al criterio di accertamento della causalità materiale da utilizzare in sede civile secondo l’insegnamento della sentenza n. 576 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

[27] V. in tal senso M. D’ALBERTI, Attività amministrativa e diritto comune, in (a cura di) U. AL- LEGRETTI, A. ORSI BATTAGLINI, D. SORACE, Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, Rimini, 1987; ID., La partizione pubblico privato esiste ancora?, in (a cura di) F. SPANTIGATI, Sulle trasformazioni dei concetti giuridici per effetto del pluralismo, Napoli, 1998; ID., Intervento al Seminario: “Il grande abisso fra diritto pubblico e diritto privato. La comparazione giuridica e la contrazione dello Stato”, in Nomos, 2000, n. 1, pp. 72 ss.; ID., Il diritto amministrativo fra ordinamento comunitario e diritto comune metaeuropeo, in (a cura di) N. GRECO, P. BIONDINI, Diritto e amministrazione pubblica nell’età contemporanea, Roma, Scuola superiore della pubblica amministrazione, 2001, pp. 2-37; ID., Diritto amministrativo e diritto privato: nuove emersioni di una questione antica, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2012, pp. 1019 ss.; da ultimo v. G.P. CIRILLO, Sistema istituzionale di diritto comune, Milano, 2018.

[28] Vero è che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 235 del 2014, ha statuito che il principio di integrale riparazione del danno non gode di una garanzia costituzionale, tanto che il legislatore ordinario può talvolta ridurre l’entità del risarcimento riconosciuto al danneggiato senza con ciò trasformarlo in un ristoro solamente simbolico. Ciò è tuttavia condizionato dalla presenza di interessi pubblici da preservare, che nel caso sottoposto all’esame della Consulta sono stati ravvisati nell’interesse a mantenere basso il livello dei premi assicurativi. La Corte mostra in tale occasione di tenere in debita considerazione gli effetti sistemici che l’eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 139 del Codice delle assicurazioni private,

  1. lgs. n. 209 del 2005, produrrebbe: tale norma prevede un tetto massimo per il risarcimento del danno non patrimoniale da responsabilità civile automobilistica riferita alle lesioni di lieve entità, sospettata di illegittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza rispetto al danno risarcibile in conseguenza di una differente fonte illecita. La Corte ha affermato che la natura obbligatoria del sistema assicurativo da r.c. auto rende indispensabile

 una limitazione del risarcimento, dal momento che, secondo la logica della socializzazione del rischio, il risarcimento assicurato alle vittime della strada viene riversato sui consociati chiamati al pagamento dei premi assicurativi. Un risarcimento pieno comporterebbe un innalzamento del livello dei premi assicurativi che rischierebbe di rendere l’assicurazione obbligatoria in questione inaccessibile per i consociati in condizione di indigenza economica. Un interesse pubblico di tal genere, che consente di limitare il risarcimento del singolo in ragione dell’interesse generale alla luce degli effetti sistemici che l’eliminazione della norma incriminata produrrebbe sulla generalità dei consociati, non sembra ravvisabile nell’eventuale disapplicazione dell’art. 2049 cod. civ. nei confronti dei preponenti pubblici. Una tale disapplicazione non può infatti essere invocata in ragione della mera natura pubblica del soggetto chiamato a rispondere dell’illecito commesso dal dipendente, tanto alla luce della totale mancanza di interessi pubblici da preservare nello svolgimento dell’attività materiale della p.a., quanto alla luce della inidoneità delle ragioni di finanza pubblica a sorreggere una soluzione di segno opposto. Altrimenti sarebbe pregiudicata la generalità dei consociati, sempre chiamata a sopportare il rischio dei danni derivanti da qualsiasi attività della p.a., senza che ciò risponda a canoni di prevedibilità o di razionale allocazione del rischio rispondente al tipo di attività intrapresa da ciascun consociato. Più che una considerazione in chiave sistemica dell’interesse generale, si avrebbe in tale eventualità un’esaltazione dell’interesse puntuale dell’amministrazione, con un ritorno alla logica dei privilegi della p.a.

[29] M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 1117, secondo il quale “non sono riferibili all’Amministrazione …le azioni che non provengono da soggetti i quali possano essere considerati agenti di essa, …. gli atti personali degli agenti (lettere e negozi privati), ….gli atti viziati da incompetenza assoluta (straripamento di potere) e i comportamenti posti in essere volutamente (dolosamente) in violazione di norme proibitive (diversamente dall’opinione corrente nella dottrina francesi, si ritiene che il fatto che costituisca reato doloso istituzionalmente non può essere ascritto all’Amministrazione)”. Sul punto v. anche E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, 575; E. GRECO, La responsabilità civile dell’amministrazione e dei suoi agenti, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2003, 1741; M. CLARICH, La responsabilità civile della pubblica amministrazione nel diritto italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 1989, 1085.

[30] La giurisprudenza ha però chiarito che il danneggiato che intenda proporre azione risarcitoria contro lo Stato per atti compiuti da funzionari o dipendenti nell’esercizio delle loro funzioni (art. 28 cost.) deve, pur essendosi determinato a promuovere la domanda nei confronti del solo Stato, esporre, nell’atto introduttivo del giudizio, tutti i fatti dannosi addebitabili al funzionario o dipendente in assenza di che (ed in conseguente assenza di qualsivoglia “causa petendi“) la domanda non può dirsi legittimamente proposta: Cass., sez. I, 7 marzo 2002, n. 3283, in Giust. civ., 2002, I,1544.

[31] La rivalsa dell’amministrazione innanzi alla Corte dei conti in caso di condanna tuttavia non sortisce quasi mai un reale recupero, con conseguente accollo in capo alla collettività dei danni risarciti dall’amministrazione e solo in minima parte refusi dal lavoratore: difatti in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari della Corte dei Conti, i vari Procuratori generali hanno chiarito che delle condanne pronunciate dalla Corte si recupera concretamente meno del 10%, a causa della scarsa solvibilità del pubblico dipendente, notoriamente incapiente e tutelato da una legislazione di favor che impedisce aggressioni della retribuzione, della pensione e della buonuscita oltre il quinto. Ne consegue che il costo dei danni arrecati a terzi da pubblici dipendenti a terzi, dopo la condanna della p.a., non viene recuperato e resta a carico della collettività..

[32] M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 1117, secondo il quale “non sono riferibili all’Amministrazione …le azioni che non provengono da soggetti i quali possano essere considerati agenti di essa, …. gli atti personali degli agenti (lettere e negozi privati), ….gli atti viziati da incompetenza assoluta (straripamento di potere) e i comportamenti posti in essere volutamente (dolosamente) in violazione di norme proibitive (diversamente dall’opinione corrente nella dottrina francesi, si ritiene che il fatto che costituisca reato doloso istituzionalmente non può essere ascritto all’Amministrazione)”. Sul punto v. anche E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, 575; M. CLARICH, La responsabilità civile della pubblica amministrazione nel diritto italiano, in Riv.trim.dir.pubbl., 1989, 1085.

[33] Sulla distinzione tra faute personelle faute de service v. CUOCCI, Tutela dei singoli e responsabilità civile della p.a. nell’esperienza francese, in F. FOLLIERI (a cura di), La responsabilità civile della pubblica amministrazione, Milano, 2004, 528 ss.

[34] V.  TENORE, Responsabilità solidale della p.a. per danni arrecati a terzi da propri dipendenti: auspicabile il recupero di una nozione rigorosa di occasionalità necessaria con i fini istituzionali, in Rass.Avv.Stato, 2005, 1368 ss., a cui si rinvia per una puntuale ricognizione della dottrina e soprattutto della giurisprudenza che ha fatto (spesso distorta) applicazione del principio di occasionalità necessaria.

[35] V. TENORE, Responsabilità solidale della p.a., cit, e, in particolare, Cass., sez. VI, 15 dicembre 2000, n. 1269, in Rass. Avv. Stato, 2000, I, 344 con nota di A. PLUCHINO cit. e id. Cass., sez. III, 12 agosto 2000, n. 10803, in Foro it., 2001, I, 3289 con nota di M. P. GIRACCA, secondo cui “….a tale riguardo, l’attività può essere riferita all’Ente se sia e si manifesti come esplicazione dell’attività di quest’ultimo, cioè tenda (pur con abuso di potere) al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui esso dipendente è addetto; e questo riferimento all’ente può venire meno solo quando il dipendente agisca come un semplice privato, per un fine strettamente personale ed egoistico, che si rilevi assolutamente estraneo all’amministrazione – o addirittura contrario ai fini che essa persegue – ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente (così, sostanzialmente, Cass., 17 settembre 1997, n. 9260; Cass., 6 dicembre 1996 n. 10896; Cass., 13 dicembre 1995 n. 12786, Cass., 7 ottobre 1993 n. 9935, Cass., 3 dicembre 1991 n. 12960)”.

[36] Va comunque ribadito che il criterio della “occasionalità necessaria” va escluso in quattro ipotesi-tipo:  qualora l’autore materiale non sia qualificabile come pubblico dipendente;  qualora il pubblico dipendente produca un danno con comportamenti o provvedimenti che siano espressivi di straripamento di potere (incompetenza assoluta); qualora il dipendente produca un danno con comportamenti o provvedimenti che attengano alla sua vita privata e/o che non abbiano alcun riferimento alla sua qualifica di pubblico dipendente (es. fuori dall’orario di servizio); qualora il dipendente, pur nell’esercizio di proprie funzioni (es. durante l’orario di servizio), agisca per finalità e motivazioni assolutamente incompatibili con le finalità istituzionali dell’ente di appartenenza.

[37] Così G. RIVOSECCHI, La Corte dei Conti ai tempi del “Ricovery Plan”: quale ruolo tra responsabilità amministrativa-contabile, semplificazioni e investimenti, 11 agosto 2021, in www.federalismi.it, 16 ss, il quale, tuttavia, esprime perplessità sulla seconda parte del primo comma dell’art. 22 in esame, laddove collega l’eventuale accertamento di irregolarità gestionali o di ritardi nell’erogazioni di contributi alla responsabilità dirigenziale ai sensi dell’art. 21, co. I, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Per l’Autore, è opportuno e necessario un coinvolgimento della Corte dei Conti nelle ipotesi in cui i controlli concomitanti riguardino la realizzazione dei programmi e l’impiego delle risorse e siano esercitati tenendo presente il parametro delle norme sull’equilibrio di bilancio e sull’efficiente impiego delle risorse del Ricovery plan; viceversa non convince il coinvolgimento della Corte dei Conti nei procedimenti vòlti ad accertare la responsabilità dirigenziale

[38] In un ottimo di Pareto non è possibile migliorare il benessere (c.d. utilità) di un soggetto, senza peggiorare il benessere degli altri soggetti (c.d. economia del benessere). L’ottimo paretiano è un concetto economico di valutazione dell’efficienza. Proprio tale valutazione in termini soggettivi pone il problema annoso del free riding e dei “giudizi di valore”. In una scatola di Edgeworth l’efficienza massima allocativa si verifica in un punto di contratto, ossia nel punto di tangenza tra le due famiglie di curve di indifferenza dei consumatori. In tale ottica, è peculiare la rilevanza della clausola generale di buona fede – quale regola di interpretazione del contratto e regola di condotta, con funzione eminentemente integrativa-precettiva, in combinato disposto con il principio di solidarietà sociale (art 1375 c.c. e 2 Cost).

[39] P. TRIMARCHI, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Giuffrè, 2021; P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Giuffrè, 1961; G. CALABRESI, Il futuro dell’analisi economica del diritto, 32-39, 1999; A. NICITA e V. SCOPPA, Economia dei Contratti, Cacucci Editore, 2005; A. NICITA e M. VATIERO, Towards a broader notion of transaction?, in Studi e note di economia 7-22, 2007.

[40] L’agire del dipendente per finalità esclusivamente personali ed egoistiche recideva il rapporto organico ed escludeva pertanto la responsabilità dell’ente, facendo residuare la sola responsabilità del dipendente per fatto proprio. Contraddittoriamente si invocava al contempo il c.d. nesso di occasionalità necessaria, anch’esso ricondotto al combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 2043 cod. civ.; ai fini della sua sussistenza si riteneva sufficiente che le funzioni svolte per l’ammi nistrazione avessero determinato, o anche soltanto agevolato, la realizzazione del fatto lesivo. Codesto nesso veniva considerato sussistente tutte le volte in cui il pubblico dipendente non avesse agito come semplice privato per fini esclusivamente personali e del tutto estranei all’amministrazione, ma avesse tenuto

una condotta anche solo indirettamente ricollegabile alle attribuzioni assegnate all’agente dalla p.a. di appartenenza, finanche quando il dipendente, svolgendo un’attività diretta al perseguimento di finalità proprie della stessa p.a., perseguisse contestualmente e in maniera non esclusiva interessi personali o commettesse abusi. Tuttavia, si diceva che « solo quando il dipendente agisca come un semplice privato, per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli assolutamente estraneo all’Amministrazione, o contrario ai fini che questa persegue, ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, (…) cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A. », cfr. Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2014, n. 21408; Id., 29 dicembre 2011, n. 29727. Si considerava dunque il rapporto organico e il nesso di occasionalità necessaria alla stregua di due presupposti della responsabilità della p.a. per l’illecito commesso dal proprio dipendente sostanzialmente coincidenti e interrotti alle medesime condizioni. Ciò presupponeva la necessità di ravvisare in capo alla p.a. di appartenenza una culpa in vigilando o in eligendo rispetto al dipendente autore dell’illecito ex art. 2043 cod. civ. Un secondo orientamento riteneva sussistente la responsabilità indiretta dello Stato o dell’ente pubblico in presenza di un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta illecita del dipendente e le funzioni attribuitegli. A suo sostegno si richiamavano i criteri di imputazione privatistici sanciti dall’art. 2049 cod. civ.: la responsabilità del preponente pubblico, al pari di quello privato, era considerata una responsabilità oggettiva per fatto altrui concorrente con quella del preposto, che rispondeva per fatto proprio nei limiti del dolo o della colpa grave. L’agire per finalità esclusivamente personali ed egoistiche del dipendente non era considerato motivo di

recisione del nesso di occasionalità necessaria. Pertanto, l’ente rispondeva dell’illecito ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Così Cass. civ., sez. III, 12 marzo 2008, n. 6632; Id., sez. I, 20 marzo 1999, n. 2574. Si finiva per attrarre nell’ambito della responsabilità del datore di lavoro qualsiasi fatto illecito ascrivibile ai lavoratori comunque connesso al contesto lavorativo, mentre il preponente non veniva gravato delle conseguenze di un fatto posto in essere dal preposto al di fuori dell’espletamento delle incombenze demandategli e per un fine del tutto estraneo all’adempimento di queste ultime. Così Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2001, n. 14096. Sul rapporto di immedesimazione organica v. M.S. GIANNINI, Impiego pubblico (teoria e storia), cit., nonché M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978, spec. pp. 119 ss. Da ultimo, S. BATTINI,

Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Padova, 2000; P. VIRGA, Diritto amministrativo, Milano, 1999, I, p. 27. L’art. 28 Cost., accompagnato dalla previsione generale secondo cui i dipendenti pubblici rispondono dei danni solo se commessi con dolo o colpa grave (artt. 22 e 23 del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3), rappresenta il punto di equilibrio tra la tesi accolta in Gran Bretagna e quella accolta in Germania: mentre nella prima si riconosce la responsabilità personale del dipendente pubblico, solo a certe condizioni estendibile dalla legge agli apparati al servizio dei quali egli opera, nella seconda vige di regola la responsabilità oggettiva indiretta dell’apparato. Il nostro ordinamento, che prevede una responsabilità solidale e diretta tanto dell’ente pubblico, quanto del dipendente limitatamente al dolo e alla colpa grave, consente di bilanciare contrapposte esigenze: quella di assicurare un risarcimento integrale dei danni subiti dalla vittima e di scoraggiare il compimento di illeciti da parte dei dipendenti in vista della possibile rivalsa che l’ente pubblico può esperire nei loro confronti e quella di evitare il rischio di un eccesso di deterrenza, che faccia sorgere in capo ai dipendenti la c.d. « paura della firma », compromettendo l’efficacia dell’azione amministrativa. Al riguardo v. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, II ed., 2013, p. 286. Sulla c.d. « amministrazione difensiva » v. F. FOLLIERI, Politica, burocrazia e buon andamento, in PA Persona e Amministra zione, 1, 2021, pp. 89 ss.

 

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