17/01/2023 – Gli effetti dell’incompatibilità con il diritto dell’Unione sui provvedimenti amministrativi.

Abstract:

Il saggio indaga il tema dell’incompatibilità del provvedimento amministrativo nazionale con il diritto dell’Unione europea, non potendo  prescindere dal considerare l’obbligo di disapplicazione automatica della normativa interna contrastante con il diritto sovranazionale, l’efficacia della sentenza pregiudiziale della Corte di giustizia dell’Unione europea sul provvedimento amministrativo, la tipologia di invalidità che presenta latto amministrativo incompatibile e il conseguente potere di autotutela della Pubblica amministrazione, considerato un intervento di natura discrezionale dalla giurisprudenza più recente.

Sommario: 1. Gli atti amministrativi nazionali incompatibili con il diritto Ue. – 2. La tipologia di invalidità del provvedimento amministrativo anticomunitario. 3. Un caso di autotutela amministrativa discrezionale. – 4. La responsabilità della Pubblica amministrazione per violazione del diritto Ue. – 5. Un altro profilo: il giudicato amministrativo in contrasto con il diritto dell’Unione europea.

 

  1. Gli atti amministrativi nazionali incompatibili con il diritto Ue

L’incompatibilità con il diritto Ue per essere dichiarata non abbisogna di un procedimento giurisdizionale presso una corte deputata a riconoscere il contrasto in modo equivalente a quello che si svolge di fronte alla Corte costituzionale nel caso in cui sia sollevata una questione di legittimità costituzionale. Nell’ipotesi di contrasto della normativa interna con il diritto dell’Unione vale infatti il rimedio della disapplicazione automatica da parte dei giudici nazionali delle disposizioni interne “qualora emerga un contrasto con una norma Ue dotata di effetto diretto, laddove per effetto diretto si intende l’idoneità della norma comunitaria a creare diritti ed obblighi direttamente ed utilmente in capo ai singoli”[1]. Tale previsione ha comportato negli anni vari contrasti tra giudici nazionali e giudici comunitari, in più fasi, che hanno dato vita a un dialogo non sempre facile e accomodante.  Sul punto basta ricordare che dalla sentenza Granital del 1984[2] le posizioni delle due Corti si sono fatte più vicine: affermando non più l’obbligo della caducazione della norma interna incompatibile da parte del giudice, ma la più celere disapplicazione della stessa nel momento della definizione della controversia dinanzi al giudice nazionale. In questo modo si crea l’effetto “non già di caducare la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo”[3], nulla rilevando che essa sia anteriore o posteriore alla norma eurounitaria. Tale fenomeno sarebbe conseguenza del fatto, sottolineato già da tempo in dottrina, che “tra le norme dei due ordinamenti non può porsi un conflitto perché la normativa comunitaria viene ad operare in settori o spazi lasciati liberi alla produzione normativa dell’autonomo ordinamento della Comunità e rispetto ai quali non opera o si ritrae la legge nazionale”[4].

Alla fine, approdata anche la Corte costituzionale a questo orientamento da sempre espresso dalla Corte di giustizia, la dottrina è giunta a parlare di “tutela giudiziaria diffusa, una sorta di sindacato diffuso di legittimità o, come anche si è detto, un controllo di comunitaria convenzionalità delle leggi con giudici comuni nella veste di giudici europei”[5].

Inoltre, è doveroso sottolineare come l’obbligo della disapplicazione della legge anticomunitaria grava non solo sul giudice nazionale, ma anche sulla Pubblica amministrazione dal momento che la sussistenza di un dovere di non applicazione da parte della P.A. rappresenta un approdo ormai consolidato nell’ambito della giurisprudenza sia europea sia nazionale[6].

Secondo un percorso logico proposto in dottrina (CARINGELLA) tre questioni attengono alla discussione circa l’atto amministrativo anticomunitario: il regime di invalidità, l’autotutela e la responsabilità dello Stato per violazione del diritto Ue. Nella trattazione che segue si cercherà di approfondire ogni aspetto.

 

  1. La tipologia di invalidità del provvedimento amministrativo anticomunitario

Se in passato la tesi dualista (secondo la quale esisteva una separazione netta tra ordinamento nazionale ed eurounitario) prevedeva la radicale nullità per carenza di potere o per difetto assoluto di attribuzione dell’atto amministrativo anticomunitario (v. art. 21-septies della legge 241/1990),  oggi la dottrina e la giurisprudenza prevalenti affermano che “il vizio che inficia l’atto amministrativo anticomunitario è quello tipico della illegittimità-annullabilità, da dedurre in giudizio entro l’ordinario termine decadenziale di sessanta giorni”[7] e ciò sarebbe applicabile sia nel caso di atto anticomunitario per contrasto diretto con una fonte Ue (cd. violazione immediata), sia nel caso di atto amministrativo compatibile con una norma nazionale, la quale sia a sua volta in contrasto con il diritto Ue (cd. violazione mediata). Il fatto, dunque, che l’illegittimità sia da far valere entro un termine decadenziale tutto sommato breve non è incompatibile poi con il diritto dell’Unione né tantomeno con il principio del primato. Sul punto occorre citare dapprima la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, che si è espressa nella celebre sentenza Santex S.p.A.[8], dove i motivi addotti dal ricorrente erano basati sull’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario chiedendo di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non era più possibile invocare una tale incompatibilità. In tale occasione la CGUE ha constatato che «sebbene spetti all’ordinamento nazionale di ogni Stato membro definire le modalità relative al termine di ricorso destinate ad assicurare la salvaguardia dei diritti conferiti dal diritto comunitario ai candidati e agli offerenti lesi da decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici, tali modalità non devono mettere in pericolo l’effetto utile della direttivala quale è intesa a garantire che le decisioni illegittime di tali amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e quanto più rapido possibile». Sullo stesso punto si è più recentemente espresso anche il Consiglio di Stato, riconoscendo come “in via generale, il rispetto dei princìpi di parità di trattamento ed effettività non osta a che lo Stato membro assoggetti la tutela di una posizione giuridica di diritto comunitario derivato ad un termine di decadenza, a condizione che la fissazione di tale termine sia equivalente a quella prevista per posizioni giuridiche di diritto interno, e che il termine non sia di esiguità tale da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio effettivo della tutela delle posizioni giuridiche di matrice comunitaria”[9].

Se, come si è già ampiamente dimostrato, il vizio generato dall’incompatibilità del provvedimento amministrativo nazionale con le norme Ue è riconducibile alla categoria dell’illegittimità per violazione di legge di cui all’articolo 21-octies della legge n. 241/1990, nel caso in cui si voglia impugnare tale provvedimento e far valere l’asserita illegittimità occorrerà presentare un ricorso dinanzi al giudice amministrativo entro il breve termine di decadenza pena l’inoppugnabilità del provvedimento[10].

La scelta dell’annullabilità come invalidità realizza una soluzione nazionale all’interno di quello spazio che la Corte di giustizia ha lasciato all’autonomia degli Stati membri.

È stato efficacemente sottolineato in dottrina come “in questa logica l’atto amministrativo emanato sulla base di una norma statale vive e continua a vivere nell’ordinamento giuridico di vita propria rispetto al momento normativo; l’atto una volta generato si distacca dalla norma per entrare nel sistema dei rimedi di giustiziabilità, nella logica della annullabilità-inoppugnabilità. Una volta entrato nel sistema, a questo sottostà, con il solo limite che il sistema, come ha affermato la Corte di giustizia, rispetti alcuni principi (di effettività e di equivalenza), la cui violazione rende l’inoppugnabilità dell’atto lesiva del diritto comunitario”[11].

Considerata l’invalidità dell’atto amministrativo anticomunitario, profili di maggior complessità attengono alle altre due questioni in oggetto: l’obbligatorietà o meno dell’autotutela e l’eventuale responsabilità civile dello Stato per violazione del diritto sovranazionale.

Affermato dunque che il genere di invalidità che colpisce il provvedimento amministrativo incompatibile con il diritto Ue è l’illegittimità-annullabilità, occorre dar conto di come tale atto invalido venga espunto dall’ordinamento (e ciò, si anticipa già da ora, potrà avvenire attraverso l’esercizio di poteri di autotutela amministrativa ovvero attraverso un ricorso giurisdizionale). Infatti, fino a quando il provvedimento non sarà annullato, esso continuerà a produrre i suoi effetti.

 

  1. Un caso di autotutela amministrativa discrezionale

Anticipando quanto si dirà nel prosieguo della trattazione dando conto del recente tema giurisprudenziale originato dall’incompatibilità comunitaria della proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime italiane e del conseguente carattere dell’intervento in autotutela cui è chiamata la Pubblica amministrazione, si indaga in questo paragrafo la questione dell’autotutela come è stata tradizionalmente considerata da dottrina e giurisprudenza.

Se, come si è appena avuto modo di ricordare, la scelta dell’annullabilità come invalidità che sanziona i provvedimenti amministrativi in contrasto con il diritto Ue comporta un breve termine per far valere l’invalidità mediante ricorso di fronte al giudice amministrativo, pena l’inoppugnabilità del provvedimento; l’intervenuta inoppugnabilità non esclude che l’amministrazione possa rimettere in discussione il rapporto giuridico esercitando il potere di autotutela (annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21-nonies legge 241/1990 o la revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies)[12].

Tale potere di autotutela era in passato considerato un obbligo per la Pubblica amministrazione, che imponeva di procedere autonomamente alla rimozione dell’atto contrastante con le norme comunitarie, con evidente rischio di ledere eventuali interessi pubblici o privati[13].  In questo modo si veniva a realizzare un ulteriore caso di autotutela obbligatoria (o autotutela doverosa), dove dunque non trovavano applicazione i presupposti espressi all’art. 21-nonies, consentendo all’amministrazione di procedere all’annullamento anche a distanza di tempo e senza dover bilanciare l’interesse pubblico con gli ulteriori interessi in gioco nel frattempo sorti[14]. In realtà oggi questa affermazione va necessariamente riconsiderata perché la dottrina e la giurisprudenza sono prevalentemente orientati ad “escludere ogni automatismo nell’esercizio del potere di autotutela, sì che l’annullamento d’ufficio di un atto amministrativo illegittimo anche se è derivante da contrarietà a norme dell’Unione, mantiene carattere discrezionale richiedendo l’esistenza di un interesse pubblico attuale e concreto diverso dal mero ripristino della legalità violata”[15]. In questo modo sulla base dei principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento si consente di contemperare tutta quella serie di interessi che sarebbero coinvolti da un eventuale annullamento del provvedimento. Tale ultimo approdo a cui si è giunti, si poteva già evincere da una lettura più approfondita della pronuncia Kühne & Heitz NV – astraendo l’analisi dal caso di specie – dal momento che al punto 24 della motivazione, la pronuncia affermava chiaramente come “il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo”. 

È allora la stessa Corte di Lussemburgo ad indicare, in conclusione della pronuncia appena citata, quali sono i casi residuali in cui opera l’obbligo per la Pubblica amministrazione di procedere all’annullamento in autotutela per incompatibilità del provvedimento nazionale con il diritto dell’Unione e tali sono quando: «l’organo amministrativo disponga secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale e l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza»[16].

Dunque, in base ai caratteri appena considerati, non si può più ritenere che la regola generale in caso di incompatibilità ‘comunitaria’ sia l’annullamento doveroso. Il singolo consociato che veda lesa una sua situazione soggettiva da un provvedimento nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione potrà rivolgersi al giudice amministrativo per far valere l’azione di annullamento nei termini prescritti dal codice del processo amministrativo, mentre non potrà attendersi un annullamento doveroso da parte dell’amministrazione, né una modifica obbligatoria; giacché l’amministrazione per procedere in autotutela dovrà ora tenere in debita considerazione le ragioni di interesse pubblico e i vari interessi dei soggetti coinvolti, nonché il termine ragionevole entro cui l’annullamento d’ufficio viene fatto valere (limite quest’ultimo che si dovrebbe adesso considerare applicabile vista anche la recente modifica legislativa intervenuta). In questo modo si può affermare che “l’annullamento d’ufficio degli atti della P.A. concorre con la funzione giurisdizionale, come strumento alternativo, a garantire l’effet utile[17]. Aderendo a questa posizione si perviene a considerare l’annullamento d’ufficio – qualora venga esercitato come si è appena indicato – come una “garanzia dell’uniforme applicazione delle norme comunitarie”. 

Posizione questa ribadita ancora più recentemente dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che è giunta ad escludere la sussistenza di un generalizzato obbligo di autotutela o di riesame nel caso dell’incompatibilità della legge di proroga delle concessioni demaniali marittime con il diritto dell’Unione[18].

 

  1. La responsabilità della Pubblica amministrazione per violazione del diritto Ue

Occorre ulteriormente affrontare per succinti capi la terza questione che si è delineata in occasione dell’incompatibilità del provvedimento nazionale con il diritto Ue e nello specifico quell’aspetto che concerne il tema della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario.

Non è scontato domandarsi se lo Stato membro oggi sia tenuto a risarcire i singoli consociati che vedono lesa una propria situazione giuridica tutelata dal diritto dell’Unione. L’Unione può difatti sanzionare il comportamento non compatibile dello Stato membro ovvero l’inerzia nell’adottare una direttiva non self-executing, attraverso quella specifica procedura di infrazione disciplinata all’art. 258 e successivi del TFUE. Eppure, tale procedura prescinde dal realizzare un effettivo ristoro in capo al cittadino Ue leso. È per questo che negli anni la Corte di giustizia prima e la giurisprudenza nazionale in seguito, hanno affermato la responsabilità dello Stato membro per danni cagionati ai singoli da violazioni del diritto Ue[19], danni che come viene espressamente precisato dalle pronunce della Corte possono essere cagionati da qualunque organo dello Stato membro.

Per pertinenza logica con l’oggetto della trattazione, occorre tralasciare il tema della responsabilità dello Stato-legislatore e dello Stato-giurisdizione per violazione del diritto Ue e rivolgere l’attenzione ai profili che concernono prettamente la responsabilità dello Stato-amministrazione.  Il tema, dunque, è ancora una volta quello dell’adozione di un atto amministrativo incompatibile con il diritto sovranazionale ed i possibili epiloghi risarcitori che ne conseguono. Come si è già avuto modo di considerare quando si è trattato delle conseguenze giuridiche del provvedimento viziato per contrasto con il diritto Ue, il caso che rileva potrà essere quello del provvedimento amministrativo direttamente incompatibile con il diritto Ue (cd. violazione immediata) oppure il caso di atto amministrativo compatibile con una norma nazionale la quale sia a sua volta in contrasto con il diritto Ue (cd. violazione mediata) che abbiano causato una serie di lesioni a situazioni soggettive tutelate dall’ordinamento.

Si è preferito parlare di situazioni soggettive lese e non di diritti soggettivi perché, come è comunemente noto, già da anni è stata affrontata in giurisprudenza e dottrina la questione della risarcibilità dell’interesse legittimo. Se in un tempo risalente si escludeva il diritto al risarcimento del danno per tutti quei casi in cui la Pubblica amministrazione avesse agito come autorità, adottando cioè provvedimenti ovvero comportamenti espressivi di un potere, giacché l’interesse legittimo avrebbe ottenuto tutela attraverso il ricorso per annullamento; sul finire del secolo scorso, con l’ordinanza 500 del 1999, la Corte di cassazione è giunta ad ammettere la risarcibilità anche dell’interesse legittimo, sulla base del rilievo che il diritto comunitario non conosce la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, essendo allora sufficiente per essere risarcibile la “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento”[20]. Da questa celeberrima pronuncia, si è originata nel tempo, sul piano dottrinale e giurisprudenziale, un’ampia discussione sulla risarcibilità dell’interesse legittimo oppositivo e dell’interesse legittimo pretensivo, dovendo per quest’ultimo il giudice compiere un giudizio prognostico, valutando se al privato spetti il provvedimento favorevole sulla base della disciplina normativa vigente e secondo un criterio che la giurisprudenza ha definito di ‘normalità’[21].

Tornando al tema principale della responsabilità dello Stato-amministrazione per violazione del diritto Ue e della correlata risarcibilità del danno nei confronti dei singoli consociati che si vedano lesi da tale violazione, occorre riferire come la giurisprudenza abbia negli anni ritenuto risarcibile solo quelle “ipotesi per le quali era la stessa normativa positiva di recepimento del diritto comunitario ad attribuire la tutela risarcitoria all’interesse legittimo”[22].

Dunque, attualmente, in assenza di precisi appigli normativi, non è ancora possibile definire completamente un caso di responsabilità dello Stato-amministrazione per le figure di “illecito comunitario” o “provvedimento antieuropeo”, dovendosi comunque prospettare in futuro un’ampia attenzione circa la risarcibilità di tutte quelle situazioni soggettive dei consociati attraverso l’estensione dei mezzi di tutela nazionali e sovranazionali già presenti[23]. Già da oggi, comunque, si considera risarcibile la violazione del diritto dell’Unione da parte dello Stato membro “qualunque sia l’organo e che si presenta manifesta e grave”[24] e dunque si può ben ipotizzare anche nei casi in cui l’amministrazione “continui dopo che una sentenza della Corte abbia accertato che il contestato comportamento costituisce inadempimento di obblighi comunitari o comunque se venga palesemente ignorata una giurisprudenza della Corte dalla quale risulti l’illegittimità di detto comportamento”[25]. Potendo così, una volta accertata tale violazione, adire il giudice nazionale per ottenere soddisfazione. Occorre sottolineare come affermazioni in questo senso siano state espresse più volte dalla Corte di giustizia, specie in materia di “giudicato anticomunitario”, come si avrà modo di approfondire nell’apposito paragrafo.

 

 

  1. Un altro profilo: il giudicato amministrativo in contrasto con il diritto dell’Unione europea

Sempre in tema di primato del diritto dell’Unione e di effetti che si producono tra gli ordinamenti in caso di incompatibilità della norma nazionale con il diritto sovranazionale, occorre analizzare la questione del giudicato amministrativo ‘anticomunitario’. Il caso è quello di una pronuncia nazionale emessa dal giudice amministrativo che decide sulla base di una normativa nazionale che successivamente viene considerata ‘indirettamente’ incompatibile dalla Corte di giustizia dell’Ue o dalle altre istituzioni europee nell’esercizio delle funzioni riconosciute dai Trattati (si pensi per esempio al caso di apertura di una procedura di infrazione che, come si è visto, è competenza della Commissione europea).

La questione si presenta prima facie spinosa perché vede contrapporsi una serie di principi, ugualmente meritevoli di tutela per l’ordinamento, che vanno necessariamente bilanciati: se è vero che il principio del primato informa tutto l’ordinamento Ue e impone la disapplicazione della norma interna contrastante[26], sono allo stesso modo principi tutelati dall’ordinamento eurounitario la certezza del diritto e il legittimo affidamento degli amministrati. Inoltre, non si può dimenticare, come da tempo la giurisprudenza sovranazionale abbia riconosciuto il principio di autonomia processuale degli Stati membri, che viene a costituire un terzo elemento da considerare in questo non facile bilanciamento tra principi. Il tema concerne quella che i costituzionalisti da tempo hanno definito protezione multilivello dei diritti e che negli ultimi anni ha registrato una “tendenza nella giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo favorevole a un’interpretazione estensiva delle proprie attribuzioni, che incide anche in ambiti più strettamente legati alla competenza dei legislatori nazionali”[27].

Il nodo gordiano della questione consiste nel fatto che la pronuncia del giudice amministrativo, qualora sia passata in giudicato ai sensi dell’articolo 324 del codice di procedura civile (intendendosi con questo riferimento normativo dare conto della particolare situazione in cui la sentenza non è più impugnabile attraverso i mezzi di impugnazione ordinari, e di conseguenza si è formato il giudicato formale) ovvero nei casi in cui sia sceso il giudicato sostanziale e quindi l’accertamento, contenuto nella sentenza, faccia stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (v. articolo 2909 del codice civile), non potrebbe essere soggetta a ulteriore gravame, salvi i casi possibili e tassativi delle impugnazioni straordinarie.

Così enunciato il dissidio che si viene a creare sembra non componibile. In realtà già da anni la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, conscia del difficile sforzo per giungere a una soluzione, si è espressa in più occasioni. La dottrina più recente ha svolto un’attenta indagine di tali pronunce, delineando infine un percorso giurisprudenziale di durata quasi decennale (cfr. CONTESSA – LALLI).

Principiando dal caso Köbler, occorre riportare come la Corte di giustizia si era espressa in senso sfavorevole rispetto all’obbligo per lo Stato membro di travolgere gli effetti di una precedente pronuncia nazionale, passata in giudicato, e che successivamente si ponesse in contrasto con il diritto comunitario; ma allo stesso tempo riconosceva «il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a risarcire i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili, anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese»[28]. Dunque, la violazione sarebbe stata causa di un possibile risarcimento del danno, ma non avrebbe imposto di travolgere il giudicato nazionale nel frattempo intervenuto.

Con la sentenza Kühne & Heitz NV, che si è già avuto modo di considerare in precedenza, il giudice nazionale (olandese) aveva deciso di sospendere la decisione della causa e di porre alla CGUE come domanda pregiudiziale «se il diritto comunitario, nel quale in particolare si deve prendere in considerazione il principio dell’affidamento comporti che un organo amministrativo sia tenuto a rivedere una decisione che è divenuta definitiva, al fine di assicurare la completa efficacia del diritto comunitario, così come quest’ultimo dev’essere interpretato in base a quanto risulta dalla soluzione data ad una successiva domanda di pronuncia pregiudiziale» nella stessa motivazione la Corte di giustizia è giunta però ad affermare come «il giudice [nazionale] può, a richiesta di parte, pronunciarsi in sede di riesame di una sentenza divenuta definitiva, tenendo conto di fatti o circostanze che:  a)  si sono verificati prima della sentenza; b)  non erano noti al ricorrente, e non potevano ragionevolmente esserlo, prima della pronunzia della sentenza, e c) avrebbero potuto, se il giudice ne fosse stato a conoscenza, indurlo a pronunciare una sentenza diversa»[29]. Dunque, alla luce di tale pronuncia, la CGUE ha affermato la possibilità per il giudice nazionale di ritornare, alle condizioni enunciate, su una decisione anche se passata in giudicato.

Continuando la rassegna di pronunce della Corte di Lussemburgo, anche con la sentenza Traghetti del Mediterraneo[30] la Corte di giustizia ha riconosciuto il diritto al risarcimento al singolo consociato che sia stato leso in un proprio diritto (rectius in una propria situazione giuridica soggettiva) da parte di una pronuncia del giudice nazionale in contrasto con il diritto Ue. Nello stesso anno anche la sentenza Kapferer affrontava la medesima questione, condividendo con la precedente il complesso tema del diritto Ue della concorrenza[31].

È con la sentenza Lucchini che la CGUE ha affermato la sua posizione più netta, nell’ambito di una controversia sugli aiuti di stato alle imprese, da sempre foriero di discussioni e di contenzioso giudiziale.  In tale occasione, la Grande sezione della Corte di giustizia, rivolgendosi direttamente alla Repubblica italiana, ha disposto che «il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva»[32].

Posizione che sembra tanto rigorosa da venire quasi subito sconfessata o più probabilmente attenuata. Appena due anni dopo, infatti, con la sentenza Fallimento Olimpiclub, la CGUE ha dovuto ribadire tutta l’importanza giuridica del giudicato, dal momento che «occorre rammentare l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione»[33].

Tutte queste pronunce sono state considerate velocemente, dando conto solamente della massima giurisprudenziale e dell’iter cronologico che è stato compiuto, giacché la Corte di giustizia è stata chiamata a ripronunciarsi sulla stessa questione nel 2014 con la celebre sentenza Pizzarotti[34] che merita un certo approfondimento. La causa originava da un contrasto in materia di contratti pubblici e se dal punto di vista sostanziale ciò che rilevava per definire la questione, in presenza di un contratto che contenesse sia elementi propri di un appalto pubblico di lavori sia elementi propri di un altro tipo di appalto, era riferirsi all’oggetto principale per determinarne la qualificazione giuridica, è dal punto di vista del tema del giudicato che la pronuncia mostra il suo interesse maggiore. Con la seconda questione pregiudiziale il giudice del rinvio (Consiglio di Stato) domandava infatti se si potesse ritenere inefficace il giudicato eventualmente formato da una sua decisione che avesse condotto a una situazione contrastante con la normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori. La Corte di giustizia rispondeva al quesito affermando che «in assenza di una normativa dell’Unione in materia, le modalità di attuazione del principio dell’intangibilità del giudicato rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, ai sensi del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, nel rispetto tuttavia dei principi di equivalenza e di effettività» e riconoscendo che «come il giudice del rinvio fa presente, esso può, a determinate condizioni, completare il disposto originario di una delle sue sentenze con decisioni di attuazione successive, dando luogo a quel che chiama giudicato a formazione progressiva».

Nel caso di specie, dunque, il giudice nazionale era tenuto, alla luce del principio di equivalenza, ad applicare fra le «molteplici e diverse soluzioni attuative» quella che, conformemente al principio di effettività, garantisca l’osservanza della normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori. Si è dunque riaffermata l’importanza del principio dell’intangibilità del giudicato, essendo fondamentale a detta della Corte «che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento dei mezzi di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione». Pertanto, il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto.

In questo specifico punto della sentenza si è dunque chiaramente affermato come il diritto dell’Unione non impone che il giudice nazionale ritorni necessariamente su una sua precedente pronuncia al fine di “tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto offerta dalla Corte posteriormente alla decisione”. Il caso in cui ciò si verifica è infatti solamente quello in cui le norme procedurali interne prevedano tale possibilità e sempre che dette condizioni siano soddisfatte, per ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell’Unione.

Ad integrazione del dictum della Corte di giustizia è importante sottolineare come, nel sistema processuale italiano, il giudice amministrativo “non dispone del potere di ritornare su una decisione ‘anticomunitaria’, atteso che la normativa in materia di revocazione (articolo 106 del codice del processo amministrativo e articolo 395 del codice di procedura civile) non è applicabile all’ipotesi di errori di diritto”[35].

Inoltre, la sentenza Pizzarotti dimostra plasticamente la difficoltà, ma al tempo stesso l’importanza di conciliare un sistema di giustizia “rigorosamente ripartito tra il livello europeo e quello nazionale, con un procedimento amministrativo che si snoda senza soluzioni di continuità tra i due differenti ordinamenti, con atti amministrativi che sono atti provvedimentali definitivi, calati all’interno di un procedimento intrecciato”[36]. A tal riguardo, in un’ottica sempre più in futuro di affermazione di questo sistema di procedimenti intrecciati, qualora insorgesse un conflitto per la lesione della posizione soggettiva del singolo, occorrerà svolgere un’indagine attenta alla ricerca dell’esatta amministrazione che con la sua scelta ha causato la lesione in concreto, e sulla base di questo controllo rivolgersi al giudice nazionale ovvero a quello sovranazionale per domandare tutela.

A conclusione di tale disamina si può rilevare come il sistema processuale amministrativo presenti ancora alcuni possibili contrasti con il diritto dell’Unione europea, dando così conto di un non sempre facile rapporto tra Stato membro e quello che è stato definito inizialmente come un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale. Negli anni le varie soluzioni a cui si è giunti, vengono a definire una dopo l’altra le iniziali asimmetrie e vedono una “progressiva europeizzazione del diritto processuale nazionale che necessariamente si adegua alle regole europee, vuoi normativamente previste, vuoi giurisprudenziali”[37].

 

 

* Dottore Magistrale in Giurisprudenza – Unibo.

[1] TROISI M., L’accesso alla giustizia costituzionale in Italia e in Francia dopo la riforma del 2008, tesi di Dottorato in diritto pubblico e costituzionale, Università di Napoli Federico II, a.a. 2008-2009, p. 86.

[2] Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170.

[3] CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, 10. ed., Torino, Giappichelli, 2022, p. 59.

[4] STROZZI G., MASTROIANNI R., Diritto dell’Unione europea, parte istituzionale, 8. ed., Torino, Giappichelli, 2019, p. 467-468.

[5] TROISI, op. cit., p. 87.

[6] Sul punto v. Corte di giustizia, 22 giugno 1989, causa C-103/88, Fratelli Costanzo. Ugualmente Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389, Pres. Saja, Red. Baldassarre, p. 4 considerato in diritto dove si afferma che «si deve concludere che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dal Trattato C.E.E. nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea».

[7] CONTESSA C., LALLI A., Manuale di diritto amministrativo, 1. ed., Piacenza, La Tribuna, 2021, p. 169.

[8] Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, causa C-327/00, Santex S.p.A.

[9] Consiglio di Stato, sez. VI, 31 marzo 2011, n. 1983, p. 4.2.1. della motivazione.

[10] Tuttavia, è stato affermato in giurisprudenza che se la norma interna contrastante con il diritto europeo non si limiti a disciplinare le modalità di esercizio del potere, ma sia l’unica norma che fonda il potere medesimo, l’atto amministrativo adottato sulla base di essa dovrà ritenersi nullo per carenza assoluta di potere v. Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35. E ciò perché disapplicando la norma che attribuisce il potere all’amministrazione, il provvedimento su di essa assunto diventerebbe adottato con difetto assoluto di attribuzione. Tale orientamento sembra però essere superato dalla giurisprudenza comunitaria proprio dalla pronuncia Santex S.p.A. in poi. Sul punto diffusamente: CHIEPPA R., GIOVAGNOLI R., Manuale di diritto amministrativo, 6. ed., Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2021, p. 50.

[11] PIGNATELLI N., L’illegittimità comunitaria dell’atto amministrativo, in Giurisprudenza costituzionale, n. 4, 2008, 3635 ss.

[12] CLARICH M., Manuale di diritto amministrativo, 4. ed., Bologna, il Mulino, 2019, p. 172.

[13] La questione è stata affrontata da Corte di giustizia, 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV, laddove ai punti 22-27 della motivazione si affermava precisamente che una norma di diritto comunitario interpretata dalla Corte di giustizia dev’essere applicata da un organo amministrativo nell’ambito delle sue competenze anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima del momento in cui è sopravvenuta la sentenza che si pronuncia sulla richiesta di interpretazione. Nel caso di specie, infatti, l’organo amministrativo interessato era tenuto, in applicazione del principio di cooperazione, a riesaminare la decisione al fine di tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente di diritto comunitario nel frattempo accolta dalla Corte. L’importanza di questa affermazione deve necessariamente essere ridimensionata se si considera che per stessa ammissione della Corte di giustizia il diritto nazionale olandese (dove si originava la controversia) riconosce sempre all’organo amministrativo la possibilità di ritornare sulla decisione in discussione nella causa principale, divenuta definitiva.

[14] Tradizionalmente si considerano casi di annullamento doveroso della PA: a) quando il giudice ordinario ha provveduto alla disapplicazione di un atto amministrativo in forza dell’articolo 5 Allegato E  della legge 2248/1865; b) quando il provvedimento amministrativo è stato emanato sulla base di una legge attributiva del potere dichiarata incostituzionale successivamente, c) nel caso in cui occorra l’annullamento di atti consequenziali di precedenti atti presupposti già annullati e che non sono stati annullati automaticamente con l’atto presupposto; d) nel caso in cui l’attività di organi di controllo (come la Corte dei conti) ravvisi un illegittimità senza poter procedere direttamente all’annullamento dell’atto amministrativo. Mentre oggi non si può più considerare un caso di annullamento doveroso l’incompatibilità con il diritto Ue.

[15] CARINGELLA F., Manuale ragionato di diritto amministrativo, 3. ed., Roma, Dike Giuridica, 2021, p. 97.

[16] Corte di giustizia, 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV p. 28 della motivazione.

[17] GIAVAZZI M., Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in Ceridap, n. 4, 2020, consultabile online < ceridap.eu>. L’Autore sostiene tra l’altro che “nessuna delle ipotesi descritte dalla giurisprudenza e dalla dottrina come di annullamento d’ufficio doveroso sfugge alla ineludibile caratteristica dell’istituto dell’essere atto di discrezionalità amministrativa. Nondimeno, in questi casi la discrezionalità, indubbiamente, si atteggia in modo particolare, talvolta elidendo sino quasi ad annullare (mai però per intero) il margine di scelta della P.A., impostato sulla valutazione comparativa (secondo il principio di proporzionalità) degli interessi coinvolti nell’esercizio della potestà di autotutela decisoria”. In questo modo arriva ad escludere che nel diritto amministrativo possano esistere ipotesi di annullamento d’ufficio doveroso. 

[18] Consiglio di Stato, Ad. Plen., del 9 novembre 2021, n. 17, Pres. Patroni Griffi, Est. Molinaro, p. 40 della motivazione in fatto e diritto. Ugualmente Consiglio di Stato, Ad. Plen., del 9 novembre 2021, n. 18, Pres. Patroni Griffi, Est. Giovagnoli. Tra l’altro in questo specifico caso l’Adunanza plenaria ha ritenuto che l’atto di proroga sia un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile, così che «la proroga del termine avviene automaticamente, in via generalizzata ed ex lege, senza l’intermediazione di alcun potere amministrativo. Si tratta, in buona sostanza, di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e “legifica”, prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate». In base a quanto appena affermato, è conseguenza diretta che se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto dell’Unione, deve considerarsi l’effetto della proroga come tamquam non esset, e cioè come se non si fosse mai prodotto.

[19] La configurabilità di tale responsabilità in capo agli Stati membri è stata espressa dapprima dalla Corte di giustizia, 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e altri c. Italia dove al punto 35 della motivazione si afferma che «il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato». Successivamente anche la Corte di giustizia, 5 marzo 1996, in cause riunite C-46/93 e C-48/93 Brasserie du pêcheur SA e Factortame Ltd e altri precisa al punto 32 che «ne consegue che il principio [della risarcibilità] ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione». Risarcimento che sarà allora dovuto tanto che a cagionare il danno sia stato un organo giurisdizionale, amministrativo e finanche il legislatore.

[20] Corte di cassazione, Sez. Un. civ., 22 luglio 1999, n. 500. Al p. 5 della motivazione le Sezioni Unite danno anche una definizione di interesse legittimo ed i casi in cui viene a confrontarsi con il potere amministrativo: “L’interesse legittimo va quindi inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene. In altri termini, l’interesse legittimo emerge nel momento in cui l’interesse del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo, e cioè con il potere della P.A. di soddisfare l’interesse (con provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell’istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori).”

[21] Sul punto si rinvia a CREPALDI G., Manuale di diritto amministrativo, a cura di Gallo C. E., Torino, Giappichelli, 2020, p. 431-432.

[22] D’ORSOGNA D., Diritto amministrativo, a cura di Scoca F. G., 6. ed., Torino, Giappichelli, 2019, p. 470.

[23] Sul punto v. SANDULLI I., La responsabilità dello Stato-Amministrazione per violazione del diritto comunitario, fra istanze di certezza giuridica e tutela del principio dell’affidamento, tesi di Dottorato di ricerca in diritto pubblico, Università di Roma Tor Vergata, a. a. 2008-2009, p. 173.

[24] Cfr. Corte di giustizia, 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e altri c. Italia, punto 35.

[25] ADAM R., TIZZANO A., op. cit., p. 298.

[26] Per maggior chiarezza espositiva si deve ricordare che la disapplicazione è tradizionalmente prevista per il caso in cui nella specifica materia in questione ci sia competenza del diritto dell’Unione e la normativa sovranazionale violata sia dotata di effetto diretto.

[27] MORRONE A., Il bilanciamento nello stato costituzionale, teoria e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Torino, Giappichelli, 2014, p. 36.

[28] Corte di giustizia, 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler, punto 59 della motivazione.

[29] Corte di giustizia, 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV, punto 4 della motivazione.

[30] Corte di giustizia, 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo.

[31] Corte di giustizia, 16 marzo 2006, causa C-234/04, Kapferer.

[32] Corte di giustizia, 18 luglio 2007, causa C-119/05, Lucchini, punto 63 della motivazione.

[33] Corte di giustizia, 3 settembre 2009, causa C-2/08, Agenzia delle Entrate contro Fallimento Olimpiclub Srl, punto 22 della motivazione.

[34] Corte di giustizia, 10 luglio 2014, causa C-213/13, Impresa Pizzarotti & C. S.p.A.

[35] CONTESSA C., LALLI A., op. cit., p. 176.

[36] GIAVAZZI M., Diritto amministrativo nell’Unione europea, argomenti (e materiali), 2. ed., a cura di Galetta D.U., Torino, Giappichelli, 2020, p. 197. Sempre sullo stesso argomento GIAVAZZI M., L’effetto preclusivo del giudicato: la Corte di giustizia chiarisce il proprio pensiero. L’autonomia procedurale non è dunque un paradiso perduto, in Il Diritto dell’Unione europea, n. 1, 2015, consultabile online .

[37] CHITI M. P., op. cit., p. 553.

 

 

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