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Il presente articolo si propone di analizzare due importanti istituti dell’anticorruzione – l’accountability e il whistleblowing – in un’ottica comparatistica, con particolare attenzione alla loro evoluzione teleologica, in ipotesi verificatasi nella trasposizione di tali ultimi concetti nell’ordinamento italiano, attraverso la legge numero 190 del 2012 e i relativi decreti attuativi. Viene in particolare sostenuta la tesi per la quale si sia verificata una sorta di “mutazione genetica”, che ha portato tali istituti, legati alla libertà di informazione e al principio democratico, ad entrare a buon diritto negli strumenti della “prevenzione amministrativa” della riforma anticorruzione del 2012. Si conclude nel senso che esisterebbe una naturale tendenza, che travalica questo caso specifico, alla modificazione teleologica degli istituti di origine sovranazionale. Questo perché il diritto è ancora oggi influenzato dalle tradizioni e dalla cultura del popolo dal quale proviene, e perciò ci sono dei particolarismi non comprimibili pur a fronte della comune identità europea e internazionale. Inoltre si ritiene che i due istituti siano strettamente e reciprocamente coessenziali, posto che il whistleblowing è “rimediale” rispetto ai fallimenti del principio di responsabilizzazione o accountability.

Sommario: 1. Caratteri dell’accountability – 2. La sua funzione e il rapporto con il whistleblowing – 3. Il whistleblowing come input di accountability – 4. Conclusioni

1.Caratteri dell’accountability

Il concetto di accountability è relazionale, nel senso che presuppone un rapporto tra due soggetti, nel quale uno dei due rende il conto al secondo della gestione delle risorse economiche a lui affidate.

Più nel dettaglio, si parla di accountability amministrativa nel caso in cui il soggetto a cui rendere il conto sia l’ANAC (Autorità amministrativa e non giurisdizionale, secondo una sentenza datata della Consulta[1]) e di responsabilità sociale quando si deve render conto ai gruppi di interesse coinvolti nella vita democratica.

Ciò premesso, a partire dal 2009, le Pubbliche Amministrazioni italiane (il plurale serve per la notoria assenza di un concetto univoco di pubblica amministrazione, complessa e polimorfa), sono state interessate da un progressivo processo di apertura dei procedimenti decisionali, in un’ottica di open government, di matrice internazionale.

Non esistono ad oggi delle differenze di rilievo tra l’accountability delle pubbliche amministrazioni e quella delle società formalmente e sostanzialmente pubbliche, o formalmente private, ma chiamate a svolgere un servizio pubblico, tramite esternalizzazione con procedura ad evidenza pubblica.

Sulle Pubbliche amministrazioni, come sulle società pubbliche e private che irrogano dei pubblici servizi, gravano obblighi di trasparenza (imposti dal decreto 33/2013, c.d. “decreto trasparenza”).

Queste ultime sono poi potenziali destinatarie di richieste di accesso dai privati, anche prive di motivazione, e volte soltanto a un controllo generalizzato sull’operato dei pubblici amministratori.[2]

2. La sua funzione e il rapporto con il whistleblowing

Venendo alla funzione, questa si è ibridata nella trasposizione nazionale, ove smarrisce la sua originaria connessione con la libertà di informazione, per diventare istituto dell’anticorruzione.

È una sorte comune al whistleblowing, presentato in Italia quale “scommessa etica”, in contrapposto alla notoria sfiducia riposta dalla pubblica opinione sui pubblici funzionari.

Anch’esso è istituto di matrice sovranazionale, nell’ordinamento italiano dimentico dell’originaria funzione attigua alla libertà di informazione, che assume certamente finalità e teleologia anticorruttiva.

I due istituti stranieri sono dunque convergenti nella loro ragione d’esistenza (la prevenzione della corruzione, che in Italia ha generato una nuova funzione )[3].

Sono – questo è il punto di maggiore interesse – complementari perché il whistleblowing è capace di rimediare ai fallimenti dell’accountability, specie nel caso in cui l’informazione societaria non raggiunga la sua finalità comunicativa e partecipativa del governo societario, per essere distorta da amministratori infedeli.

L’attuale economia finanziaria e immateriale non sempre permette valutazioni autenticamente misurabili in termini di certezza, ed è invece sempre più incline alla discrezionalità valutativa, e al terreno scivoloso della previsione.

Questi nuovi caratteri sovente rendono i sistemi di corporate governance[4] inermi di fronte a veri  e propri cambiamenti non statutari dell’oggetto sociale, senza che le ripercussioni di questo cambiamento possano essere evidenziate dai documenti di accountability aziendale obbligatoria (segnatamente la nota integrativa, il bilancio e il conto economico).

È in questo momento che il whistleblowing dimostra la sua funzione compensativa rispetto all’accountability: quando è la stessa misurabilità dell’azione (presupposto dell’accountability), a non essere assicurata, in ragione dell’impenetrabilità dei fatti economici, che diventano oscuri ai non addetti ai lavori.

3.Il whistleblowing come input di accountability

Ebbene, ciò che può essere oscuro ai non addetti, non lo è certo per colui che sia in possesso di quelle competenze e di quell’angolo visuale interno e privilegiato tali da consentirgli di attingere a un livello di conoscenza più approfondito: il whistleblower.

Ingenerosamente e impropriamente appellato lavoratore infedele (per l’obbligo di fedeltà che lega il dipendente privato al datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2105 del codice civile), talvolta paragonato al collaboratore di giustizia, per la sua eterogeneità rispetto alla struttura organizzativa sulla quale riferisce e alla quale allo stesso tempo appartiene, whistleblower è colui che, per motivi etici e di interesse pubblico, segnala condotte potenzialmente illecite, o forse solo inappropriate, dei pubblici funzionari.

Come dimostra il caos Enron, succede talvolta che vi siano fenomeni di fidelizzazione interna o degli stakeholders, capaci di rendere le stesse strutture aziendali opache e di disattivare completamente le remore a delinquere.

In altri termini, come affermato da autorevoli studi di criminologia, le organizzazioni sono fattori criminogeni di assoluto rilievo, perché creano strutture valoriali alternative rispetto all’ordinamento generale talché sterilizzano completamente la dissuasione attuata attraverso la norma penale.[5]

La scelta ordinamentale è stata in questo senso rischiosa o ambiziosa a seconda che si adotti una prospettiva ottimistica o pessimistica, ed è consistita nella volontà di tutelare gli investimenti e il risparmio e più in genere le risorse economiche pubbliche facendo appello al senso etico dei funzionari, assicurandoli dall’eventualità di misure ritorsive dei vertici, e proteggendoli con la garanzia dell’anonimato (fino all’eventuale procedimento penale, salvo che il procedimento disciplinare sia fondato esclusivamente sulla segnalazione).

Ebbene anche perché ci sono degli spazi in senso lato associativi, in cui il legislatore non può entrare rendendo pubblico ciò che pubblico non è, rimane un dato che nelle società, non è un obbligo dotare l’impresa di un sistema di gestione delle segnalazioni interne.

Diventa un obbligo se essa ha adottato un modello di organizzazione e gestione ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001, avendo il legislatore vincolato in parte qua il contenuto del suddetto modello.

In altri termini, nel settore privato, il sistema di gestione delle segnalazioni interne è un contenuto obbligatorio di un modello organizzativo, che tuttavia permane facoltativo.

Da tale punto di vista non è irragionevole affermare che la condizione prima di funzionamento dell’istituto, cioè l’obbligatorietà della sua stessa esistenza, non è garantita nel settore privato.

Ma è questo un problema libertario non diverso da quello della persona fisica che delinque, appunto, liberamente, e proprio per la sua determinazione volitiva è rimproverabile e soggiace alla pena.[6]

5. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, appare ragionevole ritenere che accountability e whistleblowing siano istituti indissolubilmente complanari, perché il secondo tiene conto, appunto, della possibilità di fallimento della prima.

Sono poi chiari segni della tendenziale ibridazione funzionale degli istituti che vengono importati da ordinamenti stranieri.

In altri termini è vero anche oggi, nella nostra epoca di integrazione ordinamentale, che, come diceva Montesquieu, le leggi sono comunque “lo spirito di un popolo”, cioè costitutivamente influenzate da una giuridicità multigenerazionale.

In breve, il diritto conserva sempre la memoria dei particolarismi nazionali che, in ultima analisi, condizionano la trasposizione normativa di istituti stranieri riempiendoli di significati nuovi e fortemente condizionati dal loro campo di esistenza.


[1]La Corte costituzionale ha affrontato il problema della natura delle Authorities con riferimento a una questione di costituzionalità sollevata dall’ACGM, e ha rilevato il difetto di terzietà del rimettente, in tal senso accogliendo la tesi della dottrina dominante, che già le inseriva nell’alveo del potere amministrativo. La sentenza cui si fa riferimento è la numero 13 del 2019.

[2] Non era così prima dell’introduzione del diritto di accesso civico e generalizzato, quando la richiesta di accesso andava inoltrata previa dimostrazione, tramite motivazione, di un  interesse concreto ed attuale all’ostensione documentale.

[3] Così secondo Raffaele Cantone in Il sistema della prevenzione della corruzione in Italia, in Diritto Penale Contemporaneo, Archivio 2010-2019, p. 6 per il quale” nel sistema amministrativo italiano si è in ogni caso radicata una nuova funzione di prevenzione e contrasto amministrativo della corruzione”.

[4] Che a partire dalla riforma del diritto societario del 2003 sono tre: il sistema dualistico, monistico e tradizionale, con prevalenza di questo in assenza di contrarie indicazioni statutarie.

[5] Tra gli altri, Per chi suona il fischietto? Qualche nota sul cosiddetto paradosso del whistleblowing tra autore e osservatore in ambito 231 di Marco Alessandro Bertolucci, in Giur. Pen. 2021/1-bis , secondo il quale “il reato del colletto bianco è un crimine organizzato (…) “ e per il quale il colletto bianco porta con sé un’espressività differenziale (cioè tipica di un’associazione differenziale, appunto espressiva di valori e forme di comportamento sotto-culturali), secondo il noto paradigma mertoriano di anomia per eccesso di regole. In tal senso si veda anche Tuccari in Il Whistleblowing tra intelligenza della corruzione e conoscenza della (mal)amministrazione, in Rivista Giuridica Ambiente Diritto.it– Anno XX-Fascicolo 4/2020, per il quale “…il fenomeno corruttivo…che sorge e prolifera in contesti omertosi a causa delle sue caratteristiche intrinseche, dalle quali, a seconda del ruolo rivestito dai soggetti coinvolti, nasce l’interesse positivo a occultarlo o quello negativo a non portarlo alla luce; caratteristiche a cui si aggiunge il tacito patto di non belligeranza , tipico degli ambienti di vita e di lavoro, indotto dal timore di ritorsioni e discriminazioni”.

[6] Secondo Fiandaca e Musco, il diritto penale moderno si fonda sulla teoria psicologica degli strati superiori della personalità, che consentono all’uomo il dominio degli impulsi evitando reazioni rigide agli stimoli esterni, più propri invece della specie animale, e appunto su questa “conformabilità” comportamentale si innesta la capacità dissuasiva della norma penale, così in G.Fiandaca, E.Musco Diritto Penale. Parte Generale, 7a ed, Zanichelli, Bologna,2014, pg.313 in particolare gli autori si riferiscono a Rothacker, Die Schichten der Personlichkeit, 5° ed. Bonn, 1952.

 

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