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La sentenza della Cassazione, Sezione V, Civile, 9.9.2022, n. 26694 (sul punto, “La delega di firma realizza solo un decentramento burocratico”, di Pietro Alessio Palumbo, 23 Settembre 2022, NT+) fornisce interessanti spunti per comprendere la distinzione tra delega di funzioni e delega di firma.

Le indicazioni della Cassazione sono molto trancianti: la delega di firma “si verifica quando un organo, pur mantenendo

la piena titolarità circa l’esercizio di un determinato potere, delega ad altro organo, ma anche a funzionario non titolare di organo, il compito di firmare gli atti di esercizio dei potere stesso: in questi casi l’atto firmato dal delegato, pur essendo certamente frutto dell’attività decisionale di quest’ultimo, resta formalmente imputato all’organo delegante, senza nessuna alterazione dell’ordine delle competenze (Cass. n. 6113 del 2005). Al contrario, l’istituto di diritto pubblico della «delegazione

amministrativa» di competenze assume rilevanza esterna, ragion per cui si richiede che sia disciplinato per legge, attuandosi, mediante adozione di un formale atto di delega, l’attribuzione ad un diverso ufficio od ente di poteri in deroga alla disciplina normativa delle competenze amministrative (c.d. delega di funzioni). Appare evidente la differenza fra le due figure: la «delega di firma» realizza un mero decentramento burocratico in quanto il «delegato alla firma» non esercita in modo autonomo e con assunzione di responsabilità i poteri inerenti alle competenze amministrative riservate al delegante, ma agisce semplicemente come longa manus – e dunque in qualità di mero sostituto materiale – del soggetto persona fisica titolare dell’organo cui è attribuita la competenza. L’atto di «delegazione della competenza» ha, invece, rilevanza

esterna, essendo suscettibile di alterare il regime della imputazione dell’atto, al contrario di quanto si verifica nell’ipotesi della mera delega di firma, nella quale il delegante rimane l’unico ed esclusivo soggetto dal quale l’atto proviene e del quale si assume la piena responsabilità verso l’esterno (Cass. n. 11013 del 2019)“.

Approfondendo ulteriormente, si evidenzia come sia pacifica in dottrina l’opinione che la cosiddetta delega di firma sia istituto differente dalla delega vera e propria.

E’ osservazione comune, accolta da tutti, che la delega di firma non comporta quell’attribuzione, in via amministrativa, di competenze dal delegante al delegato che permetta di costituire un nuovo “ufficio”, quello del delegato, dotato di una propria sfera individuale di poteri e responsabilità, distinta da quella del delegante.

La figura seguente, rappresenta il fenomeno della delega. Il soggetto che detiene a titolo originario una sfera di poteri (organo), in quanto a ciò legittimato dalla legge, adotta un provvedimento amministrativo, col quale delega ad un altro soggetto parte delle proprie competenze.

In questo modo, la sussistenza di una doppia fonte di legittimazione, la legge che permette la delega e l’atto di delega adottato dal titolare, costituisce un nuovo organo-ufficio, il quale esercita una quota-parte delle competenze proprie del delegante, nell’ambito di una nuova e diversa sfera di competenza, autonoma dalla prima.

Infatti, l’atto di delega, come visto nei precedenti capitoli, non crea un rapporto di subordinazione gerarchica e, qualora delegante e delegato fossero in relazione di gerarchia, la delega non ne risente: il delegato, quando agisce come titolare dell’organo di secondo grado istituito con la delega, non è un subordinato del delegante, il quale può solo impartire direttive nei confronti del primo, non ordini di servizio, né provvedimenti di riesame degli atti posti in essere dal delegato. Per riappropriarsi della competenza che, in quanto delegata ha dismesso, può solo adottare un atto contrario alla delega, revocandola in via espressa.

La delega di firma consiste in un altro fenomeno. In particolare, manca del tutto la dismissione di quota parte delle competenze del delegante, in quanto la sua sfera di poteri rimane integra.

Tradizionalmente, la delega di firma si ricostruisce come la mera attribuzione che il titolare dell’ufficio attribuisce ad altro dipendente dell’ufficio stesso a sottoscrivere per suo conto un determinato provvedimento. Tale ricostruzione interpretativa conseguentemente ritiene che l’atto sottoscritto dal delegato alla firma sia da imputare comunque al delegante, il quale, pertanto, ne rimane responsabile.

In sostanza, il delegato alla firma agisce, per effetto di questa particolare delega, come fosse un mero nuncius del delegante, senza assumere alcun ruolo nelle scelte di merito che sottostanno al provvedimento da lui sottoscritto.

In base a questa interpretazione, la delega alla firma viene considerata un’utile modalità organizzativa, che consente al titolare di un organo di sgravarsi dal mero adempimento della sottoscrizione, ferma restando l’imputazione degli atti sottoscritti dal delegato alla firma in capo al delegante, purchè la delega alla firma sia evidenziata dalle due formule alternative “per il titolare”, oppure “d’ordine del titolare”.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, 10.4.2002, n. 4489 ha considerato ammissibile e legittima la possibilità del presidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa di avvalersi del segretario dell’organo per convocare il collegio, delegandogli il formale compimento delle necessarie operazioni, in quanto del tutto conforme ai principi generali, i quali ammettono il ricorso alla delega di firma o alla firma “d’ordine” per le attività meramente strumentali serventi a quella provvedimentale.

Si tornerà su questa affermazione del Tar Lazio, perché essa configura con precisione uno degli elementi fondamentali della delega di firma.

Il quale, pur essendo un istituto estremamente risalente nel tempo, ancora oggi è considerato un ordinario strumento di organizzazione.

Secondo altra giurisprudenza[1], a prescindere dall’articolo 17, comma 1 bis, del D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (come modificato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145) che prevede espressamente la possibilità di delegare funzioni dirigenziali, non è configurabile il vizio di incompetenza qualora si sia in presenza non già delega di funzioni, ma di mera delega di firma che, senza alterare l’ordine delle competenze, attribuisca al soggetto delegato il potere di sottoscrivere atti che continuano ad essere, sostanzialmente, atti dell’autorità delegante e non di quella delegata. Questa ricostruzione giurisprudenziale è del tutto conforme alla dottrina maggioritaria, che vede nella delega di firma una sorta di scissione tra volontà dell’atto e sua imputazione e sottoscrizione dell’atto stesso. Allo stesso modo, aveva precedentemente deciso altro giudice amministrativo[2], secondo il quale pur prescindendo da quanto disposto dalla legge 145/2002 che ha introdotto il comma 1 bis all’articolo 17 del D.Lgs. n. 165/01, che prevede espressamente la possibilità di delegare funzioni dirigenziali, va rilevato che, nel caso di specie, si è in presenza non già delega di funzioni ma di mera delega di firma che, senza alterare l’ordine delle competenze, attribuisce al soggetto titolare dell’ufficio delegato (e non all’ ufficio oggettivamente considerato) il potere di sottoscrivere atti che continuano ad essere, sostanzialmente, atti dell’autorità delegante e non di quella delegata.

Tale tesi espressa da larga parte della giurisprudenza amministrativa è estremamente risalente nel tempo, e trae origine dall’articolo 15 del regolamento 23.10.1853, n. 1611, di attuazione della legge 1453/1853, che aveva impostato la disciplina generale dei ministeri del Regno, prima della definitiva unificazione.

Tale disposizione stabiliva che “il segretario generale o i direttori generali firmano per il ministro ed esercitano in di lui nome le attribuzioni che gli sono proprie, nei limiti da lui stabiliti”.

La norma citata rappresentava un primo timido elemento di attribuzione di funzioni esterne alla dirigenza pubblica, nell’ambito di un regime che ancora accentrava fortissimamente ogni competenza decisionale in capo all’organo politico. In quell’epoca, l’organizzazione dei ministeri era improntata alla piena e forte dipendenza gerarchica dei funzionari (il concetto di dirigente è entrato molto dopo) nei confronti del ministro, unico soggetto dotato di poteri decisionali a rilevanza esterna, cui facesse capo la conseguente responsabilità. Al ministro, dunque, era riservato ogni potere di decisione e di emanazione di atti o provvedimenti. L’articolo 15 citato, però, consentiva di flessibilizzare leggermente tale forte accentramento di poteri, avvalendosi della facoltà di delegazione, la quale in sostanza consisteva nell’esercizio indiretto delle competenze ministeriali mediante funzionari subordinati. Pertanto, anche i segretari generali o i direttori generali, funzionari posti ai vertici delle complesse organizzazioni ministeriali, avevano in generale solo compiti ausiliari nei confronti del ministro, compiti che potevano essere allargati nella loro portata in presenza del conferimento del potere di firmare per il ministro, che li rendeva responsabili nei sui confronti degli effetti esterni derivanti dall’atto da loro sottoscritto. Si è ritenuto che i ministri potevano delegare la firma (non l’attività) ai direttori generali come pure potevano consentire che i funzionari sottoscrivessero gli atti “d’ordine”. Comunque, e nell’uno e nell’altro caso, gli atti adottati dai funzionari in seguito a delega ministeriale della firma o “d’ordine” risalivano pur sempre in capo al ministro[3].

L’articolo 15 del regolamento 1611/1853 è stato considerato il precetto normativo dal quale deriva l’immanenza nell’ordinamento giuridico della figura della delega di firma[4] e la ricostruzione tradizionale del fenomeno, sintetizzata nella figura sottostante:

 

Tuttavia, la tradizionale configurazione del fenomeno della delega di firma non appare del tutto appagante e sembra preferibile la diversa tesi[5] che configura tale istituto come sostituzione, volontaria oppure ex lege.

La critica alla concezione tradizionale della delega di firma deve essere preceduta dall’analisi approfondita del concetto di organo.

La persona giuridica pubblica, al pari della persona giuridica di diritto privato, pur avendo personalità giuridica non può agire direttamente, in quanto è un istituto di creazione del diritto e non esiste in natura.

Nel diritto privato, il problema di permettere alla persona giuridica di agire in modo giuridicamente rilevante, compiendo atti finalizzati a perseguire i propri scopi, è risolto con l’interposizione tra la persona giuridica ed il terzo col quale intrattiene rapporti negoziale di un rappresentante, che può essere tale perché è la legge che lo identifica in quel ruolo, o perché debitamente destinatario di una procura rilasciata da altro rappresentante della persona giuridica.

A ben vedere, però, lo schema della rappresentanza non può operare nell’ambito pubblicistico, in quanto non vi è separazione da capacità giuridica e capacità di agire dell’ente pubblico, il quale agisce immediatamente e direttamente nei confronti dei cittadini. Ovviamente, tale attività è materialmente posta in essere da una o più persone fisiche, legittimate dalla legge ad agire, non in nome e per conto dell’ente, ma impersonando l’ente stesso, che, pertanto, esplica attraverso tali soggetti la propria volontà. Tali persone fisiche, dunque, sono un tutt’uno con la persona giuridica pubblica e, mutuando dalla biologia la metafora, sono considerati come “organi” della stessa, capaci di porre materialmente in essere gli atti negoziali o provvedimentali mediante i quali la persona giuridica persegue i propri fini, così come previsto dalla legge.

L’insieme dei poteri che la persona fisica esercita nel perseguire i fini stabiliti dalla legge (che rappresentano, dunque, sia la ragion d’essere della persona giuridica, sia il limite alla sua capacità di agire) è la competenza.

L’organo pubblico, allora, non solo è legittimato ad impersonare l’ente al quale è legato dal rapporto di immedesimazione organica,[6] ma esercita i poteri che costituiscono la misura della propria capacità di agire[7].

L’organo può esercitare tutti i poteri della persona giuridica pubblica, quando sia l’unico organo previsto dalla normativa che ne regola il funzionamento. Oppure, può esercitare solo una specifica frazione di tali poteri e, quindi, una quota parte della competenza dell’ente, quando esso sia dotato di più organi. In questo caso, sono leggi e regolamenti interni a determinare nell’ambito della più ampia sfera di competenza dell’ente, quali sono le specifiche quote di poteri esercitabili da ciascun organo.

Si sono, così, identificati tre elementi fondamentali dell’organo:

  1. l’appartenenza all’organizzazione dell’ente, mediante un rapporto di immedesimazione organica;
  2. l’attitudine ad esercitare tutti o parte dei poteri propri dell’ente del quale fa parte (competenza);
  3. l’attribuzione delle funzioni di organo ad una persona fisica, nel caso di organo monocratico, o a più persone fisiche, nel caso di organo collegiale.

Manca un quarto elemento fondante, che se non preso nella dovuta considerazione può lasciare incorrere in un errore, alla base della non corretta percezione della figura della delega di firma. In effetti, senza l’ulteriore elemento costitutivo dell’organo, si è portati a ritenere che l’organo coincida sostanzialmente con la persona fisica cui la norma attribuisca il potere di agire. Questo è sicuramente corretto, ma incompleto, essendo solo uno dei significati del concetto di organo.

L’elemento mancante, che completa il quadro come quarto componente della configurazione di organo è:

  • l’insieme delle risorse umane, finanziarie, strumentali e di controllo costituenti un nucleo organizzato, facente capo alla persona fisica preposta alla sua direzione, in quanto titolare del potere di agire impersonando l’ente[8].

Dunque l’organo non è solo la persona fisica che ne è titolare; né è solo la competenza che gli è attribuita dalla legge, ma è necessariamente l’insieme degli elementi visti sopra.

Fondamentale, ai fini della corretta definizione della delega di firma, è la considerazione che organo non è soltanto la persona fisica titolare.

Ulteriore elemento da considerare prima di giungere alle conclusioni finali è la struttura obbligatoria del provvedimento amministrativo.

Secondo la pacifica dottrina e l’unanime giurisprudenza, l’atto amministrativo si compone di una serie di elementi, necessari ai fini della propria validità ed efficacia[9].

Tra questi rientra la sottoscrizione, la cui mancanza inficia la stessa esistenza giuridica del provvedimento amministrativo.

Come per qualunque atto anche di diritto privato, il provvedimento amministrativo deve essere firmato con sottoscrizione autografa da parte del titolare dell’organo[10]. La sottoscrizione autografa è richiesta obbligatoriamente solo per l’originale del documento nel quale è rappresentata la volontà espressa col provvedimento. Nelle copie è possibile sostituire la firma autografa con un timbro od una rappresentazione a stampa come “firmato, il responsabile …” che indichi il nome e cognome di chi abbia sottoscritto l’originale e riporti con precisione l’indicazione che si tratta di una copia. La copia, in quanto tale, non è necessariamente la fotocopia, ma la riproduzione del contenuto di un documento. Tale riproduzione, per assurdo, potrebbe anche essere effettuata a mano. E’ evidente che chi riproduce il documento, se persona diversa da quella che ha sottoscritto, non può imitarne la firma. Si limiterà, allora, a riportare la circostanza che il documento è firmato da chi lo ha effettivamente sottoscritto.

Ci si è brevemente soffermati su questi aspetti anche molto di dettaglio riguardanti il provvedimento amministrativo, per constatare un fatto estremamente importante: il provvedimento amministrativo non solo deve obbligatoriamente essere sottoscritto, ma per essere valido non può che essere sottoscritto dalla persona fisica titolare dell’organo competente ad emetterlo.

La sottoscrizione del provvedimento da parte di una persona fisica diversa, equivarrebbe a totale mancanza di sottoscrizione o, comunque, ad atto nullo per incompetenza assoluta. Infatti, quel determinato provvedimento amministrativo, per essere valido ed efficace, non può che provenire esclusivamente dalla sfera di volontà e competenza del soggetto legittimato a manifestare e formare la volontà dell’ente e da nessun altro soggetto.

Ora, si è detto sopra che organo non è solo la persona fisica titolare dei poteri connessi, ma il nucleo operativo composto della persona titolare, nonché delle risorse finanziarie, strumentali, di controllo ed umane che costituiscono l’ufficio del quale l’organo si serve per realizzare la propria attività.

La concezione generalmente prevalente della delega di firma, in questo quadro, finisce per configurarla come l’utilizzo di una risorsa umana, al fine di sgravare il titolare dell’organo del compito della mera sottoscrizione di una serie di atti routinari o il cui contenuto sia, comunque, predeterminato dal titolare stesso. La firma “d’ordine” o “per” il titolare, dunque, chiuderebbe il provvedimento amministrativo con l’esercizio del potere decisionale del titolare, espresso in forma “mediata” dal delegato alla firma.

E’ evidente, a questo punto, il difetto che mina alla base la correttezza di tale interpretazione: la scissione tra il soggetto che esprime la volontà che esprime il contenuto del provvedimento amministrativo ed il soggetto che sottoscrive. Difetto che deriva dalla visione dell’organo esclusivamente come persona fisica titolare e non, piuttosto, come insieme di risorse facenti capo al titolare stesso.

Per quanto routinari o ordinari che siano, i provvedimenti amministrativi appartenenti alla competenza del titolare dell’organo non possono che essere emanati e sottoscritti dal titolare stesso.

Poiché la delega di firma, a differenza della delega vera e propria, non determina alcuna modifica della sfera di competenza del delegante alla firma, che rimane dunque intatta, ciò significa che l’ufficio-organo inteso come complesso composto da titolare, competenza, risorse, rimane unico. A differenza della delega vera e propria, dalla quale deriva, invece, la costituzione di un nuovo ufficio.

Allora, se il titolare dell’ufficio non può che essere uno ed uno solo, la delega alla firma non è uno strumento da utilizzare per dissociare la volontà di adottare un determinato provvedimento dalla sua sottoscrizione. Non potrebbe mai esserlo, perché è proprio la sottoscrizione l’istituto giuridico al quale l’ordinamento attribuisce l’effetto di ricondurre la volontà di quanto contenuto in un documento, atto o provvedimento, al soggetto che sottoscrive. La delega di firma non potrebbe legittimamente causare questo effetto contrario ad ogni principio e regola giuridica.

Piuttosto, la delega di firma altro non è che una sostituzione del titolare persona fisica di un organo, con altro titolare del medesimo organo (proprio perché non si tratta di delega vera e propria).

Il titolare dell’organo ricava da una disposizione di legge un potere di determinare organizzativamente le modalità del proprio operato. Esempio di tale disposizione normativa era il citato articolo 15 del regolamento 1611/1853, che consentiva al ministro di permettere ai direttori generali di esercitare nel suo nome le attribuzioni sue proprie e nei limiti da lui stabiliti. Il delegato alla firma, nell’ambito di tale storica norma giuridica che ha dato l’avvio all’istituto della delega di firma, dunque, non è un mero soggetto interposto tra la formazione della volontà e la formalizzazione della sottoscrizione dell’atto che la racchiude. Si tratta, invece, di un sostituto, che il titolare dell’organo investe della competenza di adottare direttamente un atto, pur senza creare un nuovo ufficio. In particolare, si tratta di una sostituzione “volontaria”.

L’istituto della sostituzione è noto e conosciuto come strumento, consentito in termini generali dall’ordinamento, per consentire la continuità dell’azione amministrativa di un organo. S’è detto prima che l’organo è costituito dall’insieme di competenza, risorse e titolarità ascritta ad una certa persona fisica. Eventi ordinari o straordinari possono cagionare la temporanea mancanza della persona fisica titolare. Tale situazione, però, non può avere la conseguenza di bloccare le funzioni dell’organo, del quale la persona fisica titolare rappresenta solo uno degli elementi costitutivi. L’organo può continuare a svolgere le proprie funzioni semplicemente sostituendo, temporaneamente, la persona fisica titolare assente, con un altro soggetto legittimato da norme di organizzazione a insediarsi nella titolarità dell’assente ed esercitarne le medesime funzioni. Questa è la sostituzione ex lege che non determina, a differenza della delega, alcuna devoluzione di competenza dall’organo titolare ad altro organo delegato. Il che significa che l’attività posta in essere dal sostituto rimane sempre imputata all’organo (cambia solo la responsabilità personale del titolare dell’organo).

La sostituzione per legge opera, dunque, in caso di assenza o impedimento della persona fisica titolare dell’organo.

La sostituzione volontaria, invece, opera quando una disposizione normativa consente al titolare dell’organo di farsi sostituire, anche se il titolare sia presente in servizio, nell’esercizio delle attribuzioni proprie dell’organo, limitato solo a certi atti e ulteriormente limitato dall’atto di conferimento di tale potere, la delega di firma, appunto.

La delega di firma, allora, può così essere inquadrata per quello che realmente è: la temporanea attribuzione del potere di sottoscrivere atti propri dell’organo, che il suo titolare assegna ad un altro funzionario che diviene temporaneamente contitolare, solo per l’adozione di quei determinati atti e solo nel rispetto dei limiti stabiliti dal delegante alla firma. In questo caso, la responsabilità complessiva dell’adozione dei provvedimenti ricade sull’organo, inteso come più volte sopra indicato. La responsabilità personale va ripartita, invece, tra i due contitolari, fermo restando che il delegante alla firma assume una responsabilità comunque più ampia, perché ha il potere di determinare la volontà da manifestare col provvedimento.

Considerata sotto questo punto di vista, la delega alla firma altro non è che una particolare modalità di esercizio di una vera e propria modalità organizzativa di tipo gerarchico. Nel sistema gerarchico puro, i poteri dell’organo possono essere esercitati sia dal titolare superiore gerarchico, sia, in parte, da subordinati gerarchici. Questi, per legge, adottano in nome proprio i provvedimenti dell’organo, ma il superiore gerarchico può imporre il contenuto degli atti dei subordinati gerarchici mediante ordini di servizio e riservarsi in qualunque momento di adottarli in prima persona, avocando a sé l’esercizio diretto della competenza, ripartita tra sé ed il subordinato gerarchico.

La delega di firma, intesa come sostituzione volontaria, è un rimedio speciale all’assenza di una specifica attribuzione di competenze proprie all’organo subordinato gerarchicamente, il quale, dunque, non potrebbe adottare e sottoscrivere quel dato provvedimento.

Allora, il titolare dell’organo, purchè autorizzato a ciò dalla legge, crea con la delega alla firma un contitolare, i cui poteri sono circoscritti ad adottare solo certi atti e non altri, nel rispetto di indicazioni operative molto simili ad ordini di servizio.

Si può dunque affermare che, a differenza della delega da cui scaturisce una relazione tra uffici diversi, la delega di firma o sostituzione volontaria crea una relazione tra titolari di uno stesso ufficio[11].

Il fenomeno della delega di firma, dunque, propriamente consiste in un trasferimento di poteri tra due titolari di un medesimo organo. Il primo, che delega alla firma, è il titolare principale e pieno dell’organo. Il secondo, delegato alla firma, è reso titolare in via temporanea e limitata agli atti previsti dalla delega di firma ed al contenuto stabilito dalla delega, per effetto di una speciale disposizione organizzativa, prevista dalla legge.

Non diversamente ha deciso il Consiglio di stato, Commissione speciale pubblico impiego nell’adunanza del 13 dicembre1999, in merito alla suscettibilità di ricorso gerarchico (o, meglio, della definitività) del provvedimento adottato da un dirigente dello Stato su delega di un dirigente generale.

Il Consiglio di stato ha rilevato che “l’atto è stato emanato non nell’esercizio di una competenza propria dell’ufficio (dirigente) che lo ha posto in essere, ma nell’esercizio di una competenza a quello derivata da altro e superiore ufficio (dirigente generale), vale a dire si tratta di un atto emanato su delega di firma, occorre verificare se al suo riguardo operi la caratterizzazione di non suscettibilità  di ricorso gerarchico (cioè: di definitività) stabilita dall’attuale art. 16, comma 4, d. lgs. n. 29 del 1993. […]. Invero, movendo dai caratteri particolari della delega di firma (che si ha laddove il delegato riceve dal delegante l’incarico di formare atti in sua vece, o “d’ordine”, o “per” lui, vale a dire in sua rappresentanza) la considerazione centrale da fare è che l’atto emesso in tale ipotesi tiene luogo, secondo i principi generali in tema di rappresentanza, di un atto del delegante e perciò va assimilato, quando a valore, a quello. In altri termini, è come se l’atto fosse stato emesso dal delegante. Ciò vale, come conseguenza diretta, anche quanto a regime: il delegante si spoglia infatti, per effetto implicito della delega, del potere decisorio che inerisce al rapporto di gerarchia e lo trasmette al delegato. La dismissione attiene sia l’esercizio attivo del potere, vale a dire l’azione che si manifesta nel porre in essere l’atto, sia l’esercizio ‘passivo’, quale è quello derivante dalla investitura, in concreto, a seguito di un ricorso di un interessato. Vero è che la relazione gerarchica è una condizione organizzativa che precede e persiste all’atto e che continua anche dopo le recenti riforme ad improntare di sé ogni apparato amministrativo per garantirne l’unità di indirizzo; e che la disposizione del potere da parte del delegante non fa venir meno la relazione gerarchica su cui tale stessa disposizione si basa. Ma l’evocazione del rapporto gerarchico attiene, l’eventuale revoca della delega, cioè la situazione che è alla base dell’investitura e esercizio da parte del delegato della funzione, non già il regime che inerisce la vicenda successiva dell’atto, che resta caratterizzato, non meno che l’atto stesso, dall’effetto traslativo proprio della delega. Con la delega di firma, in altri termini il delegato acquista, a proposito dell’atto, le attribuzioni dell’ufficio superiore a causa dell’oggettiva devoluzione di potere, e con tanto di imputazione del suo esercizio. Ciò che afferisce – come appunto il potere di riesame in sede di ricorso interno alla amministrazione – alla posizione del superiore gerarchico e che è espressione di un più generale potere di sorveglianza e controllo sugli uffici sottoordinati, viene dunque sotto tale aspetto meno. Pertanto l’atto resta per l’effetto della delega apicale e non muta regime. Consegue da ciò che l’atto qui in esame, in quanto su delega di firma, non restava suscettibile di ricorso gerarchico, vale a dire era definitivo: il che apre l’ammissibilità della sua impugnazione immediata in sede di ricorso straordinario”.

Oggi, ai sensi dell’articolo 155 del Dpr 3/1957 “il direttore generale ed il capo di ufficio centrale equiparato alla direzione generale esercitano le funzione che ad essi sono direttamente attribuite da leggi e regolamenti; provvedono nelle materie ad essi delegate dal ministro; coadiuvano il ministro nello svolgimento dell’azione amministrativa […]”. Quest’ultima funzione attiene a poteri quali organi interni. Tali ultimi poteri possono essere accresciuti dal ministro mediante la delega di firma, che permette ai direttori generali di firmare “per” o “d’ordine” del ministro, come sostituzione volontaria, secondo lo schema indicato sopra, che riconduce la delega di firma alla sua corretta configurazione di sostituzione e non di strumento che dissocia la volontà di un atto dal soggetto che lo sottoscrive, pur lasciando l’imputazione dell’atto al soggetto che delega[12].

La giurisprudenza[13] ha fornito una corretta definizione della delega di firma, sottolineando che essa, a differenza della delega di funzioni, senza alterare l’ordine delle competenze attribuisce al soggetto titolare dell’ufficio delegato (e non all’ufficio oggettivamente considerato) il potere di sottoscrivere atti, i quali continuano ad essere sostanzialmente atti dell’autorità delegante e non di quella delegata. Questa lettura della delega di firma conferma che essa non determina una traslazione dei poteri dall’autorità delegante a quella delegata, creando così un nuovo ufficio (inteso come composizione di titolare dell’organo, poteri e dotazioni), ma, al contrario, la legittimazione del titolare di un diverso ufficio a sottoscrivere atti che continuano a restare atti dell’autorità delegante, sicchè il delegato alla firma altro non è, dunque, che un contitolare a titolo straordinario dell’autorità delegante.


[1] Tar Campania – Napoli – Sezione IV, 7.7.2004 n. 10477.

[2] Tar Toscana, Sezione III, 18 dicembre 2002, n. 3372.

[3] Evoluzione storica del pubblico funzionario, in http://www.anfaci.it/amministrazione_pubblica/saggi_riflessioni/iannaci_5.htm.

[4] P. Sacco, Il profilo della delega e subdelega di funzioni amministrative, ed. Giuffrè, Milano 1984, pag. 90.

[5] Sostenuta da P. Sacco, Il profilo della delega cit., pagg. 89-96.

[6] Tale rapporto si costituisce con varie modalità. Per effetto dell’investitura dell’elettorato, nei riguardi degli organi elettivi di governo, eletti a suffragio universale e diretto. Per effetto di una nomina di secondo grado, nei confronti degli organi di governo a loro volta eletti dagli organi eletti dai cittadini. Per effetto della stipulazione del contratto di lavoro nella qualifica dirigenziale, per quanto riguarda i dirigenti. Per effetto del provvedimento di conferimento delle funzioni dirigenziali, adottato dal sindaco, nei confronti dei responsabili di servizio privi di tale qualifica negli enti senza dirigenza. Per effetto di norme speciali, che conferiscono temporaneamente la qualità di organo a persone non appartenenti stabilmente all’organizzazione dell’ente, come il direttore dei lavori di un’opera pubblica, oppure i componenti di una commissione di concorso.

[7] Ci si riferisce, allora, all’organo in senso proprio, quello, cioè, che esercitando le proprie competenze incide nei rapporti con i terzi, costituendo, modificando od estinguendo nei loro confronti situazioni giuridiche soggettive. Diverso, invece, è il concetto di organo interno o mero ufficio, la cui competenza rimane priva di rilevanza esterna, perché consiste nello svolgimento di un’attività preparatoria, volta al miglior funzionamento dell’ente (esempio ne sia il responsabile del procedimento).

[8] Così V. Italia, G. Landi, G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, cit., pag. 70.

[9] Per un’analisi completa dell’argomento, F. Botta, Atti amministrativi: redazione e adozione, ed. Giuffrè, coll. Cosa & Come, Milano, 2001, pagg. 47-186.

[10] Qualora l’ente sia dotato della strumentazione necessaria, la firma autografa, come è noto, può essere sostituita dalla firma digitale.

[11] In questo senso, P. Sacco, Il profilo della delega cit. pag. 92; P. Virga, il Provvedimento amministrativo, ed. Giuffrè, IV edizione, Milano, 1972, pag. 63, che parla di trasferimento di poteri tra titolari di organi.

[12] E. Barusso, Il ricorso all’istituto della delega negli enti locali, con particolare riferimento alla delega dei dirigenti, in www.halley.it.

[13] Consiglio Giustizia Amministrativa Sicilia, 30 maggio 1995, n. 182.

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