11/11/2022 – La doppia conformità.

Nota a parere Consiglio di Stato n. 1219 del 13 luglio 2022- Sezione I

Abstract

In ambito edilizio, la norma statale prevale su quella regionale e la cosiddetta “doppia conformità” costituisce un principio fondamentale della materia governo del territorio, trattandosi di un adempimento “finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità.

Sommario: 1. La normativa edilizia; 2. la questione sottoposta al Consiglio di Stato.

 

  1. La normativa edilizia.

Il “regolamento edilizio” costituisce espressione dell’autonomia comunale ed è finalizzato a disciplinare le modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi.

Sin dalle origini, l’ambito edilizio è stato più volte interessato da vari interventi legislativi.

Da sempre, il Legislatore per dirimere i possibili e potenziali conflitti di attribuzione fra competenze statali e regionali ha legiferato con costanza all’interno del settore edilizio ed urbanistico. Infatti, già con L. n. 62/53 all’articolo 9 (Condizioni per l’esercizio della potestà legislativa da parte della Regione) si prevedeva che il  Consiglio  regionale  non  potesse  deliberare leggi sulle materie attribuite  alla  sua  competenza dall’art. 117 della Costituzione se non sono state preventivamente emanate. Anche il successivo articolo 10 L. n. 62/53 chiariva che le leggi della Repubblica che modificassero i principi fondamentali di conseguenza abrogassero le norme regionali che fossero in contrasto con esse.

Orbene, venivano definiti i primi parametri in materia edilizia con la L. n. 47/85, recante il titolo: “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali”, la quale immediatamente all’articolo 1 prevedeva che le regioni avrebbero dovuto emanare norme in materia di controllo dell’attività urbanistica ed edilizia e di sanzioni amministrative in conformità ai principi definiti dai capi I, II e III della predetta legge. Emergeva in modo chiaro una prima distribuzione delle competenze in materia, poiché si prevedeva che le regioni determinassero le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di concessione e che il sindaco esercitasse la vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed, alle modalità esecutive fissate nella concessione o nell’autorizzazione. Il sindaco, qualora avesse accertato l’inizio di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, avrebbe dovuto provvedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.

Una prima definizione di “opere abusive” viene in rilievo, ed infatti all’art. 7 della suddetta legge si stabilisce che sono tali le opere eseguite in totale difformità dalla concessione ossia quelle che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto della concessione stessa, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonchè quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita. L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente. L’opera acquisita deve essere demolita con ordinanza del sindaco a spese dei responsabili dell’abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. Per le opere abusivamente eseguite su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l’acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull’osservanza del vincolo. Tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell’abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli, l’acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune. Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, l’elenco dei rapporti comunicati dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria riguardanti opere o lottizzazioni realizzate abusivamente e delle relative ordinanze di sospensione e lo trasmette all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e al Ministro dei lavori pubblici. In caso d’inerzia, protrattasi per quindici giorni dalla data di constatazione della inosservanza delle disposizioni di cui al primo comma dell’articolo 4 ovvero protrattasi oltre il termine stabilito dal terzo comma del medesimo articolo 4, il Presidente della Giunta Regionale nei successivi trenta giorni, adotta i provvedimenti eventualmente necessari dandone contestuale comunicazione alla competente autorità giudiziaria ai fini dell’esercizio dell’azione penale. Per tali opere abusive, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 17, lettera b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, come modificato dal successivo articolo 20 della presente legge, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita.

Nel lontano 1865 venne istituito il piano regolatore, introdotto dalla legge del 25 giugno 1865. Esso, era formato da un piano regolatore edilizio e da un piano di ampliamento. Il primo riguardava tutto ciò che accadeva nel perimetro della città esistente, mentre il secondo andava ad esplorare territori non ancora cittadini ma nei pressi del perimetro urbano e quindi potenzialmente occupabili. Quando di parla di PRG piano regolatore generale comunale (PRGC) si va ad indicare un ufficiale strumento urbanistico che serve per regolare l’attività edificatoria all’interno di un territorio comunale. Tutti i comuni devono avere questo documento. Oggi può essere adottato anche da più comuni e in tal caso prende il nome di intercomunale.

Leggendo la normativa urbanistica, quella del 1942, che ha trasformato il PRG piano regolatore generale in quello che oggi è, si nota una importante distinzione tra zonizzazioni e localizzazioni. Le prime dividono il territorio in aree di carattere omogeneo e che hanno in comune una serie di caratteristiche come regime di altezze, volumi massimi in relazione ai lotti edificabili, distanze tra costruzioni e rispetto ai confini etc… le localizzazioni, invece, sono riferite alla rete di servizi ed infrastrutture destinate alla generalità dell’utenza.

Le zone si possono così classificare: “zona A” centro storico: edilizia storica, “zona B” zona di completamento: edilizia residenziale consolidata, “zona C” zona di espansione: edilizia residenziale di espansione, “zona D”: zona per insediamenti produttivi, “zona E”: zona agricola, “zona F”: zona per impianti e attrezzature collettive.

Dunque, il Piano Regolatore Generale (PRG) è lo strumento urbanistico di governo del territorio che regola gli usi del suolo e l’attività edificatoria a livello comunale. Basandosi sulle previsioni di sviluppo economico e demografico del territorio, esso disciplina la trasformazione urbanistica comunale generale e detta le linee da seguire in caso di interventi edificatori di iniziativa sia pubblica che privata. Praticamente, divide in zone il territorio comunale e ne regola la destinazione d’uso; individua la rete delle principali vie di comunicazione e le aree destinate a edifici, spazi e opere di uso pubblico; indica i vincoli da rispettare, gli interventi realizzabili sul patrimonio edilizio esistente e la possibilità di sfruttamento edificatorio in ciascuna zona. Risulta essere composto da una serie di elaborati quali relazioni di carattere normativo e tavole cartografiche, tra cui la tavola della zonizzazione. Per mettere in atto le prescrizioni contenute nel PRG sono previsti livelli di pianificazione più dettagliati costituiti dai Piani attuativi, approfondimenti tecnici che specificano zona per zona lo sviluppo urbanistico previsto fornendo ulteriori norme, disposizioni e prescrizioni per poter realizzare un intervento.

Nel corso degli anni, si è avvertita l’esigenza di aggiornare e riordinare la disciplina sull’edilizia e pertanto si è giunti all’emanazione del D.P.R. n. 380/01 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).

Il predetto Testo Unico si compone di due parti, oltre alle disposizioni finali: la prima dedicata all’attività edilizia e la seconda dedicata alla normativa tecnica per l’edilizia.

Si tratta, in sostanza, di una legge quadro che non riguarda l’intera materia dell’urbanistica, ma esclusivamente l’edilizia, che viene regolamentata in tutti gli aspetti rilevanti. Tra le disposizioni contenute, vi è la creazione dello sportello unico per l’edilizia, l’abolizione di alcuni atti amministrativi, quali l’autorizzazione edilizia e la concessione edilizia, sostituendola con il permesso di costruire. Il Legislatore nel riordinare e organizzare la materia edilizia ha ivi previsto determinati interventi edilizi non subordinati ad alcun tipo di controllo né di natura diretta né di natura indiretta da parte della PA.

L’articolo 6, comma 6 T.U.Ed. legittima le Regioni a statuto ordinario ad estendere la disciplina dell’attività edilizia libera oltre i limiti contenuti nei commi precedenti dell’art. 6, a condizione che non si rientri nelle ipotesi previste dall’art. 10 comma 1, cioè non si tratti di interventi edilizi sottoposti al rilascio del permesso a costruire, o non si rientri nelle ipotesi previste dall’art. 23, inerenti le attività edilizie soggette a segnalazione certificata di inizio attività in alternativa al permesso a costruire (c.d. Super S.C.I.A.)

Occorre evidenziare che la norma da ultimo evocata è stata a sua volta oggetto di modificazione da parte del d.l. n. 76/2020. L’art. 10 T.U.E., disciplinante gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio subordinati a permesso di costruire, attualmente ricomprende: gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici; gli interventi che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso; gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 42/2004.

A ben vedere l’individuazione di tali attività potrebbe ricavarsi anche in negativo in quanto gli interventi soggetti a SCIA non sono ricompresi né nell’elenco dell’art. 10, riguardante gli interventi edilizi che richiedono il permesso di costruire, né nell’ambito dell’art. 6 T.U.Ed., riguardante l’attività edilizia libera.

Il d.l. n. 76/2020, perseguendo l’obiettivo di ridurre il peso burocratico a carico dei cittadini e delle imprese mediante interventi di semplificazione e accelerazione delle procedure in ottica di un rilancio dell’economia, attua un ampliamento dell’ambito di applicazione delle manutenzioni straordinarie, con l’effetto di sottoporre a SCIA interventi edilizi precedentemente sottoposti a permesso di costruire. In particolare, con la modifica dell’art. 3, comma 1, lett. b), la definizione di manutenzione straordinaria attualmente ricomprende anche la modifica alle destinazioni d’uso purché non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti implicanti incremento di carico urbanistico e le modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati, necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità o l’accessibilità dell’edificio, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, a condizione che l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.

In relazione alla prima tipologia di interventi occorre rilevare che attualmente, a differenza della versione precedente della norma, è possibile modificare la destinazione d’uso dell’immobile, a condizione che non siano previsti mutamenti urbanistici delle destinazioni d’uso così rilevanti da comportare un incremento del carico urbanistico.

In relazione, invece, ai prospetti degli edifici, occorre che essi costituiscano interventi legittimamente realizzati al fine di mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio o l’accesso allo stesso, a condizione che l’intervento non pregiudichi il decoro architettonico dell’edificio. La modifica del prospetto deve anch’essa risultare conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia. Inoltre non deve avere ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.

Da ciò deriva un importante limite agli interventi nei centri storici o in ambiti di pregioin quanto essi potranno essere qualificati come interventi di ristrutturazione edilizia, anziché di nuova costruzione, solo se eseguiti con mantenimento di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e senza incremento di volumetria e realizzati mediante esecuzione di apposita pianificazione urbanistica, e non mediante titolo edilizio semplice.

Tale stringente limite, che sostanzialmente sottopone al controllo dei competenti uffici delle amministrazioni comunali tali tipi di interventi, trova la sua ratio nell’esigenze di salvaguardia e tutela dei centri storici da interventi edilizi che alterano e deturpano il pregio storico ed estetico degli abitati storici.

Il permesso di costruire è un provvedimento di natura autorizzatoria legittimante l’attività edificatoria e subordinato al versamento di costruzione per concorso agli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione (di natura tributaria).

Tale permesso, come la CILA e la SCIA, si configura come titolo abilitativo che legittima un intervento edile. Al pari di queste è stato interessato da una progressiva semplificazione procedimentale e sostanziale con la differenza, però, che esso, nella disciplina edilizia attuale, rappresenta l’unico titolo tipicamente autorizzatorio per interventi edilizi più intensi di trasformazione del territorio e che, per tale ragione, richiedono un controllo di regolarità più penetrante dell’attività edilizia da parte della P.A

Sul versante normativo tale titolo abilitativo viene disciplinato dall’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 che enumera le tipologie di interventi subordinati al permesso di costruire.

Occorre da subito chiarire il carattere non esaustivo di tale elencazione in quanto è lo stesso art. 10, che al comma 3 prevede che le attività edilizie sottoposte a permesso di costruire possano essere individuate anche da leggi regionali. Peraltro la violazione della legge regionale non causa applicazione della legge penale prevista dall’art 44 T.U.Ed. in quanto la legge regionale è sottoposta nel suo contenuto a vincoli di tipo costituzionale.

Dunque il permesso di costruire si configura come il frutto di un’evoluzione corrispondente all’evoluzione della natura giuridica dell’istituto. Originariamente, infatti, l’attività di costruzione dei privati era soggetta al rilascio della licenza edilizia. Successivamente, a seguito della pianificazione urbanistica dell’intero territorio nazionale e dunque anche dei territori comunali comprese le aree agricole, tale strumento fu sostituito dalla concessione edilizia la quale ineriva anche ad interventi modificativi degli edifici già esistenti. Da ultimo, la concessione è stata sostituita dal permesso di costruire a seguito della sentenza della Corte costituzionale 30 gennaio 1980 sulla base delle avvertenze rese dal Consiglio di Stato in sede consultiva.

Pertanto se in passato la licenza prima e la concessione poi si caratterizzavano sostanzialmente per un ampio potere discrezionale del Sindaco, in difetto di una puntuale regolamentazione edilizia, attualmente, il permesso di costruire si configura come atto amministrativo vincolato di accertamento dei termini oggettivi di conformità del progetto edilizio ai regolamenti urbanistici ed edilizi della zona.

Il permesso di costruire, però, rimane comunque un titolo edilizio caratterizzato dalla necessaria intermediazione dell’Amministrazione, la quale svolge un controllo di legittimità e che quindi non può mai esser foriero, al pari degli altri titoli edilizi, di nuove utilità per il privato.

Il rilascio del permesso di costruire consegue alla verifica di conformità urbanistico-edilizia del progetto presentato con la disciplina legislativa in materia e con gli atti di pianificazione ed è provvedimento tendenzialmente vincolato, purché subordinato alla mera verifica di congruenza del progetto rispetto alla pertinenza normativa del locale

Anche il procedimento amministrativo per il rilascio del permesso di costruire, oggetto di svariate modifiche nel tempo, è attualmente informato a criteri di snellezza e celerità. Infatti il termine per l’adozione del provvedimento è di 90 giorni, decorsi inutilmente i quali sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni sulla conferenza di servizi. Il termine per provvedere può essere raddoppiato in presenza di progetti di particolare complessità su motivata decisione del responsabile del procedimento. Sempre in materia di abusi, il Consiglio di Stato con la sentenza del 4 gennaio 2021 n. 80 ha ribadito che, grava sul privato l’onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell’immobile abusivo, in quanto solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e la deduzione della parte privata di concreti elementi di fatto relativi all’epoca dell’abuso trasferisce l’onere della prova contraria in capo all’amministrazione.

  1. La questione sottoposta al Consiglio di Stato

Di recente, il Consiglio di Stato è intervenuto poiché sollecitato da parte del Ministero delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili-   Dipartimento per le opere pubbliche, le politiche abitative e urbane, le infrastrutture idriche e le risorse umane e strumentali, che ha chiesto il parere a seguito di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avanzato da parte di un  privato che chiedeva l’annullamento e l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione cui era stato destinatario e di ogni atto presupposto, connesso e conseguente ad essa.

Il ricorrente lamentava vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, per errore e travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Ed infatti, nel proprio atto introduttivo evidenziava che il fabbricato di cui è titolare il ricorrente è situato in una lottizzazione che ricade nella zona C del PRG, regolarmente autorizzata negli anni 1964/1967 e le cui opere di urbanizzazione erano state approvate nel 1968 dal Commissario Prefettizio e poi collaudate. Si sosteneva il travisamento dei fatti poiché l’avvenuta realizzazione delle opere di urbanizzazione rende, come da costante giurisprudenza, efficace il piano di lottizzazione pure se è trascorso il termine decennale per accedervi. Si eccepiva, inoltre, un eccesso di potere per difetto di istruttoria, per contraddittorietà tra atti differenti della stessa amministrazione, relativi al medesimo oggetto, e per illogicità manifesta e sviamento di potere, violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Vi era stata una delibera di Giunta municipale (G.M.) del 2018 in cui il Comune aveva confermato di voler procedere alla redazione di piani di iniziativa pubblica per l’attuazione dei comprensori zona C- espansione residenziale, interessati da fenomeni di edilizia spontanea individuando nella variante speciale per il recupero urbanistico dei nuclei edilizi abusivi ex art. 4 L.R. Lazio n. 28/80. Nella specie, si evidenziava una contraddittorietà fra gli atti della medesima pubblica amministrazione, risultando incomprensibile la ragione per cui il Comune ha deciso, da un lato, di procedere al recupero degli insediamenti abusivi e dall’altro, ha ingiunto la demolizione dell’immobile al ricorrente. Infine, si lamentava la violazione ex art. 31 DPR n. 380/01 e i principi di ragionevolezza e proporzionalità ex art.1 L. n. 241/90. Si censurava l’ordinanza per violazione dell’art. 31 DPR n. 380/01 che stabilisce che non può essere acquisita un’area superiore a dieci volte la superficie dei manufatti abusivi. Se ne deduceva di conseguenza anche la sproporzione della previsione della irrogazione della sanzione amministrativa determinata nel tetto massimo. 

Successivamente, si costituiva in giudizio il Comune e pertanto il Ministero ha chiesto al Consiglio di Stato di rendere parere.

Il Consiglio di Stato esamina il primo motivo di impugnazione. Il primo mezzo di gravame è infondato, in quanto si afferma il contrasto dell’opera realizzata con lo strumento urbanistico trattandosi di zona di espansione residenziale non è consentito l’intervento edificatorio diretto a mezzo del permesso di costruire occorrendo la previa redazione dello strumento urbanistico attuativo del Piano di lottizzazione. L’ordine di demolizione trova il suo presupposto normativo nella realizzazione di opere in assenza del permesso di costruire e non anche nel contrasto dell’opera con gli strumenti urbanistici vigenti. L’illecito edilizio degli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire si configura quando la trasformazione edilizia del territorio viene realizzata senza il previo rilascio del prescritto titolo abitativo. Sostiene il Collegio che, il provvedimento demolitorio sarebbe comunque legittimo anche ove l’area dei fabbricati si trovasse nell’ambito di una lottizzazione convenzionata valida ed efficace. Infatti, l’esistenza di un piano di lottizzazione operativo legittimerebbe l’iniziativa del privato alla presentazione di una domanda di sanatoria per regolarizzare l’abuso ma non impedirebbe affatto al Comune, prima della presentazione della domanda di accertamento di conformità, di esercitare i propri poteri sanzionatori nei confronti di opere edilizie che risultano indiscutibilmente essere state realizzate senza il previo rilascio del permesso di costruire.

La ricorrente richiama la circostanza che l’area di insistenza delle opere ricadrebbe in una lottizzazione regolarmente autorizzata negli anni 1964/1967 evidenziando che le opere di urbanizzazione e lo schema di convenzione erano stati approvati dal Commissario Prefettizio nel 1968 e collaudate nel 1970. Tuttavia emerge dagli atti allegati al ricorso del Comune che tale lottizzazione è stata annullata. Infatti, dalla delibera originaria del Comune si evince che la lottizzazione risulta essere stata approvata dal Sindaco mentre doveva essere sottoposta al Consiglio comunale. L’annullamento della delibera commissariale esclude che l’atto di emanazione dell’ordinanza demolitoria potesse dirsi esistente. Risultano pienamente operative le previsioni del PRG comunale che normano l’area in termini di zona C, di espansione residenziale. Inoltre, il Collegio ribadisce che lo stato di sufficiente urbanizzazione della zona consente l’intervento edilizio diretto attraverso il rilascio del permesso di costruire pure in assenza del piano di lottizzazione, ma certamente non legittima l’edificazione in assenza del titolo, come nel caso del ricorrente.

L’articolo 4 della Legge regionale Lazio n. 28/1980 prevede una “variante speciale” per il recupero urbanistico dei nuclei edilizi abusivi, disponendo che i comuni del Lazio dotati di piano regolatore o di programma di fabbricazione approvato e nel cui territorio siano individuati nuclei edilizi abusivi in contrasto con le destinazioni di zona previste dallo strumento urbanistico, provvedono a adottare una speciale variante diretta al recupero urbanistico dei nuclei abusivi. L’adozione della suddetta variante deve essere preceduta da un’attività di rilevamento delle costruzioni e dei nuclei edilizi abusivi. In particolare, si prevede all’articolo 2 della predetta legge che debba essere il consiglio comunale a deliberare il programma, le iniziative ed i mezzi per il compimento delle attività. La mera volontà dell’organo esecutivo comunale ossia della giunta municipale mediante atto di mero indirizzo di voler procedere al recupero degli insediamenti abusivi attraverso lo strumento della variante non determina illogicità degli atti di demolizione adottati successivamente da parte del comune. E’ da evidenziarsi che il vizio di eccesso di potere è configurabile solo per l’attività discrezionale della PA e non anche per quella vincolata. Dunque, nel caso di specie tale invalidità non può ravvisarsi poiché trattasi di azione obbligatoria e vincolata quale è l’ordine di demolizione. La Sezione ritiene che l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione possa affermarsi solo nel caso in cui la variante sia stata adottata dal consiglio comunale e l’immobile abusivo rientri nelle previsioni della stessa quale bene concretamente suscettibile di regolarizzazione. L’obbligo di astensione non può esserci per un mero atto di indirizzo della giunta mediante dichiarazione di recupero di insediamenti abusivi ed utilizzo della variante.

Deve osservarsi la piena operatività della legge regionale n. 28/1980 Regione Lazio. Essa prevede la possibilità di rilascio di concessione in sanatoria, una volta approvata la variante di recupero e i conseguenti strumenti attuativi, per quegli immobili che al momento del rilascio del titolo siano conformi alle previsioni di detti strumenti ed alle altre norme vigenti.

Tuttavia, il Legislatore successivamente è intervenuto in materia. A tal proposito occorre segnalare l’istituto dell’accertamento di conformità, consentendo in via ordinaria la sanatoria dei soli abusi formali e richiedendo la regolarizzazione degli stessi il requisito della doppia conformità dovendo l’opera essere conforme agli strumenti urbanistici ed alla normativa urbanistica vigenti sia all’atto di realizzazione dell’illecito sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria. Orbene, tale successiva normativa ha determinato l’abrogazione delle previgenti disposizioni della legge regionale Lazio n. 28/1980 laddove questa in particolare all’art. 16 prevedeva la regolarizzazione delle costruzioni abusive se conformi alle previsioni degli strumenti attuativi approvati a seguito dell’adozione della variante speciale di recupero e delle altre norme vigenti al momento del rilascio .Gli articoli 9 e 10 della L. n. 62/53 (Legge Scelba) sancivano che l’emanazione di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie ex art. 117 Cost. si svolgevano nei limiti dei principi fondamentali quali risultavano dalle leggi che espressamente li stabiliscono o li desumono e che le leggi della Repubblica che modificavano i principi fondamentali abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse.

Alla luce di quanto sopra, la sopravvenienza di una norma statale di principio in materia di legislazione concorrente (come quella del governo del territorio) determina l’abrogazione automatica della preesistente normativa regionale in contrasto con essa (cfr. Corte Costituzionale n. 117/15; n. 223/07; n. 498/93), derivando l’obbligo per la Regione di adeguarsi affinchè la normativa statale venga rispettata. In generale, in tema di condono edilizio la giurisprudenza della Corte ha reiteratamente chiarito che spettano alla legislazione statale le scelte di principio e la decisione sul se disporre un titolo abilitativo edilizio straordinario.

Ergo, la verifica della “doppia conformità” costituisce un principio fondamentale della materia del governo del territorio, trattandosi di un adempimento finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità (v. Sentenza Corte Costituzionale n. 232/17). E’ chiaro che la sopravvenuta disciplina statale sull’accertamento di conformità normata dal DPR 380/01 contiene una normativa di principio rispetto alle quali le previsioni di sanatoria degli immobili abusivi di cui alla legge regionale del 1980 si pongono in palese contrasto determinandone l’abrogazione.

Da tutto ciò detto, deve ritenersi che nell’attuale sistema normativo la variante speciale di cui alla legge regionale 28/80 sia diretta alla mera riqualificazione urbanistica delle aree interessate da insediamenti abusivi, nel senso di prevedere quegli interventi infrastrutturali e quelle opere di urbanizzazione che assicurino il corretto inserimento degli immobili abusivi nel tessuto urbanistico del territorio comunale.  La variante, non determina in sé la legittimazione edilizia delle singole opere abusive la cui regolarizzazione resta rimessa all’espletamento delle procedure di condono e di sanatoria previste nell’attualità dall’ordinamento ed al loro favorevole esito.

Si è espresso di recente anche il  Tar Lazio precisando a tal riguardo che la variante speciale pertiene alla riqualificazione urbanistica delle aree, ma non direttamente ai profili di stretta legittimazione dei singoli manufatti ivi edificati i quali rimangono assoggettati alla normativa statale in materia di condono e alla connessa rigorosa verifica strettamente vincolata delle sussistenze dei presupposti di legge per il rilascio dell’eventuale sanatoria (cfr. Tar Lazio sentenza n. 1372/19).  La separazione tra la funzione di recupero urbanistico degli insediamenti abusivi affidata all’istituto della variante difetta in via esclusiva a consentire l’inserimento degli stessi in un tessuto urbanistico dotato di infrastrutture necessarie alla loro coerente inclusione nel contesto territoriale di riferimento e la funzione di regolarizzazione dei singoli manufatti abusivi affidata agli istituti dell’accertamento di conformità e del condono straordinario trova conferma normativa nell’impianto della sopravvenuta legislazione statale. La variante di recupero non è sufficiente alla regolarizzazione dei singoli episodi di illecito edilizio, occorrendo necessariamente che questi siano legittimati dall’esito favorevole di un procedimento di accertamento di conformità o di condono edilizio, svolto nel rispetto delle disposizioni di principio stabilite dalla legge statale.

Per quanto attiene al motivo della sproporzione della sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 31 c. 4 bis DPR n. 380/01 si prevede che l’Autorità competente, constatata l’inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra due mila euro (€. 2.000,00) e ventimila euro (€. 20.000,00). Si applicano le sanzioni massime per gli abusi realizzate sulle aree e sugli edifici ex art. 27 c.2 T.U. Nel caso di specie, il Collegio ritiene che la misura sanzionatoria nel tetto massimo si palesa legittima poiché l’immobile abusivo ricade in area vincolata.

Infine, per la presunta violazione del difetto di motivazione ex art. 31 c. 3 DPR n. 380/01, in relazione all’acquisizione di un’area relativa a pertinenze urbanistiche ben superiore al decuplo della superficie abusivamente realizzata, la Sezione ribadisce la non natura provvedimentale dell’ordinanza di demolizione. Infatti, l’art. 31 T.U. dispone che ove vi sia inottemperanza all’ingiunzione demolitoria si procederà all’acquisizione gratuita ma è nel successivo atto che il comune dovrà individuare la superficie cd. “pertinenze urbanistiche” (cfr. Cons. Stato sentenza n. 2484/19).

Ergo, in conclusione, il Consiglio di Stato afferma che la norma statale prevale su quella regionale, che in ambito edilizio trattandosi di governo del territorio ex art. 117 Cost.  viga l’obbligo della “doppia conformità” e che quindi possano ottenere il permesso in sanatoria gli interventi conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell’intervento edilizio e al momento della presentazione della domanda e conclude esprimendo parere negativo ossia nel senso di rigetto del ricorso straordinario per tutti quanti i motivi sopra esaminati. 

 

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