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Sommario: 1) La nozione di servizi pubblici locali: dalle teorie soggettive a quelle oggettive.         2) I servizi pubblici locali e l’incidenza del diritto comunitario. 3) La tipologia dei servizi pubblici a domanda individuale. 4) La tutela degli utenti nei servizi pubblici locali: la carta dei servizi. 5)  Il progetto di riforma dei servizi pubblici locali. 6) Le scelte gestionali delle Amministrazioni in tema di servizi pubblici locali. 7) L’esternalizzazione dei servizi: il ricorso al mercato ed all’evidenza pubblica. 8) Segue. Le forme di cooperazione pubblico privata: il partenariato. 9) L’internalizzazione e l’autoproduzione dei servizi: l’opzione in house providing. 10) Affidamento in house: modello ordinario o eccezionale?11) Conclusioni.

 

 

 

  • La nozione di servizi pubblici locali: dalle teorie soggettive a quelle oggettive.

 

I servizi pubblici locali rappresentano una delle caratteristiche fondamentali del moderno Stato Sociale. Quest’ultimo, infatti, mira a realizzare il benessere dei suoi cittadini i quali devono poter accedere ad una serie di servizi di utilità sociale; diventa, quindi, compito dell’Ente Statale garantirne l’erogazione uniforme su tutto il territorio nazionale, anche a prescindere dalle logiche del profitto. L’art. 112 del Testo unico sugli enti locali (TUEL) parla solo  in via indiretta dei servizi pubblici locali prevedendo che “Gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. A fronte degli scarni elementi normativi, la dottrina dominante[1] ha individuato l’elemento caratterizzante di tali servizi: si tratta di attività che tendono a soddisfare in via immediata e diretta i bisogni essenziali della comunità di riferimento. Per questo si parla anche di servizi di utilità sociale; rappresentano, infatti, un tertium genus che ricomprende quelle residuali attività degli Enti locali che non sono direttamente riconducibili né alla funzione meramente amministrativa né alle capacità esclusivamente economiche. I servizi pubblici locali si distinguono, poi, in servizi finali e servizi strumentali; solo i primi, tuttavia, sono da considerarsi servizi pubblici strictu sensu atteso che mirano a soddisfare, in via primaria e diretta, le esigenze sociali manifestate da una data collettività. Si pensi, ad esempio, al servizio idrico o di spazzamento; viene, quindi, soddisfatto un bisogno individuale del cittadino-utente o, comunque, un’esigenza dell’intera comunità locale. A differenza dei servizi finali, quelli strumentali, invece, non realizzano in via immediata un bisogno sociale ma si limitano a fornire ad un settore dell’Amministrazione un dato servizio che, solo in via mediata, è funzionale alla realizzazione dell’utilità collettiva. La dottrina tradizionale, poi, ha rinvenuto il fondamento costituzionale dei servizi pubblici nell’art. 43  Cost.; la norma, infatti, fa riferimento ai concetti affini di “servizi pubblici essenziali” e di “attività aventi carattere di preminente interesse generale”. Tali attività possono essere oggetto di una “riserva originaria” o di una “riserva derivata” da parte della pubblica autorità; secondo il citato disposto costituzionale, infatti, “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. La dottrina più recente ha individuato ulteriori fondamenti costituzionali negli artt. 118 e 41, comma 3 Cost.; la teoria in esame – che interpreta il servizio pubblico nel senso sostanziale, per come diremo meglio in seguito – valorizza il principio di sussidiarietà orizzontale ed il controllo legislativo sulle attività economiche[2].

Alla luce delle su richiamate caratteristiche, diverso negli anni è stato l’approccio dottrinale nella materia de qua. Secondo una risalente impostazione soggettivistica, lo svolgimento delle attività di utilità sociale era un compito riservato esclusivamente al c.d. Stato gestore che operava, pertanto, in via sostanzialmente monopolistica; tale regime di esclusiva, tuttavia, non escludeva la gestione indiretta da parte del soggetto pubblico il quale poteva, ad esempio, decidere di affidare a terzi l’erogazione del servizio. Si trattava, pertanto, di un’attività posta in essere dalla Pubblica Amministrazione ma che mirava esclusivamente alla realizzazione di finalità sociali; non comportava, quindi, l’esercizio di alcun potere autoritativo da parte dell’Ente pubblico. La seconda e più recente concezione oggettivistica[3] si venne a creare grazie alle influenze del diritto comunitario e con il successivo affermarsi del principio di sussidiarietà orizzontale, codificato all’art. 118 della Costituzione; lo Stato non deve più essere inteso come “gestore” delle attività socialmente rilevanti ma assume la nuova veste di “regolatore” della materia, a tutela della concorrenza ed a garanzia della massima accessibilità dei servizi. Oggi, quindi, non viene più in rilievo la natura pubblica del soggetto erogatore dell’attività di pubblico interesse; quello che conta è, invece, la soddisfazione concreta dei bisogni della comunità di riferimento. Ad agevolare tale mutamento di prospettiva ha notevolmente contribuito l’avvio dei processi di liberalizzazione.  Il recepimento delle direttive comunitarie, infatti, ha segnato la fine del regime monopolistico nell’erogazione dei servizi pubblici, favorendo, invece, l’accesso al libero mercato ed alla concorrenza. Importante diviene, quindi, garantire standard minimi di qualità oltre che la massima accessibilità dei servizi medesimi; nascono a tal fine le Autorità indipendenti, con funzione di regolazione e normazione nella materia de qua. La nuova ottica oggettivistica è stata ripresa, poi, anche dal Consiglio di Stato che ha precisato che “Per identificare giuridicamente un servizio pubblico, non è indispensabile, a livello soggettivo, la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una previsione legislativa che, alternativamente, ne preveda l’istituzione e la relativa disciplina, oppure che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione all’Amministrazione. Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di un’accezione oggettiva della nozione, che tali attività presentino carattere economico e produttivo (e solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia, di utenti (in caso di servizi divisibili) o comunque di terzi beneficiari (in caso di servizi indivisibili)”[4].

In tale rinnovata prospettiva, l’affidamento dei servizi pubblici a soggetti terzi non rappresenta più una soluzione eccezionale, ma solo una delle alternative gestionali possibili[5].

 

 

  • I servizi pubblici locali e l’incidenza del diritto comunitario.

 

La concezione oggettiva dei servizi pubblici locali, come si è innanzi accennato, è il frutto anche dell’influenza comunitaria in materia. Il diritto unionale, infatti, pur sottolineando l’importanza delle finalità sociali che tali attività tendono a soddisfare, stabilisce che la disciplina dei servizi pubblici deve rispettare le regole della concorrenza. L’art. 106, secondo comma, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) è stato interpretato nel senso che eventuali deroghe al regime della concorrenza devono essere strettamente proporzionali allo standard minimo individuato dall’Amministrazione; ciò in quanto l’applicazione delle norme sulla concorrenza non deve ostacolare l’adempimento della specifica missione pubblica del servizio. L’influenza della legislazione europea la si rinviene, poi, anche sotto il profilo terminologico. Tradizionalmente, infatti, i servizi pubblici locali vengono distinti in servizi di rilevanza economica e servizi non economici[6]. I primi mirano a soddisfare i bisogni fondamentali di una data comunità; si pensi, ad esempio, all’illuminazione pubblica, alla raccolta dei rifiuti etc.. I servizi privi di rilevanza economica, invece, pur rivestendo carattere sociale, non possono essere classificati come attività economiche; si pensi, al riguardo, al servizio bibliotecario che mira a soddisfare soltanto un’esigenza della collettività ma che, certamente, non è suscettibile di interesse economico. Con l’avvento delle direttive europee n. 23, 24 e 25 del 2014 – il cui recepimento porterà alla legge delega c.d. Madia che meglio approfondiremo più avanti[7] –  anche la terminologia viene innovata; sulla scia dell’ordinamento eurounitario si parla oggi di servizi di interesse economico generale (SIEG) e della più ampia categoria dei servizi di interesse generale (SIG).  Il D.lgs. 2016 n. 175, recante Testo unico sulle società partecipate, all’art. 2, comma primo, lett. i) definisce i servizi pubblici locali di interesse economico generale (SIEG) come quei “servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato[8]. Il medesimo articolo definisce, invece, i servizi di interesse generale (SIG) come quelle “attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale.” I SIG, pertanto, comprendono quelle attività di interesse generale con riferimento alle quali vi sono specifici obblighi di servizio pubblico da parte del gestore; in tale categoria generale, quindi, rientrano tanto le attività economiche quanto i servizi non economici.  Quanto ai servizi di interesse generale privi di rilevanza economica, non si rinviene alcuna definizione nel citato D.lgs. 2016 n. 175; tale tipologia residuale, infatti, non è soggetta ad una normativa UE specifica né alle norme del Trattato in materia di mercato interno e concorrenza[9].

L’illustrata differenza terminologica, come detto, può considerarsi ormai superata grazie al recepimento delle direttive comunitarie n. 23, 24 e 25 del 2014 D. lgs. 2016 n. 175. La giurisprudenza costituzionale aveva già colto tale sovrapposizione sottolineando la sostanziale identità contenutistica della nozione di servizi di interesse economico generale con quella interna di servizi pubblici locali; rilevava, tuttavia, alcune divergenze in merito alle modalità di gestione dei servizi medesimi. Tali diversità di vedute, tuttavia, saranno in seguito approfondite nei successivi paragrafi, quando ci occuperemo dei diversi modelli gestionali.

 

 

  • La tipologia dei servizi pubblici a domanda individuale.

 

Accanto ai servizi pubblici per come fin qui descritti, vi è, poi, una particolare categoria di attività di utilità sociale che l’Amministrazione può decidere di attivare per la soddisfazione di determinati bisogni della comunità di riferimento: è il caso dei servizi pubblici a domanda individuale. Il decreto del Ministro dell’Interno del 31 dicembre 1983, emanato ai sensi dell’art. 6 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55, definisce tali servizi come “tutte quelle attività gestite direttamente dall’ente, poste in essere non per obbligo istituzionale, che vengono utilizzate a richiesta dell’utente e che non siano state dichiarate gratuite per legge nazionale o regionale”. Si tratta, quindi, di servizi di utilità sociale che non sono obbligatori ma meramente facoltativi; come ribadito dalla giurisprudenza, infatti, l’Ente ha una potestà pubblica di natura discrezionale, potendo decidere se erogare o meno tali servizi[10]. La declaratoria specifica di tali servizi è contenuta nel citato D.M. del 31 dicembre 1983 che fa rientrare nella predetta categoria le seguenti attività di utilità sociale: 1) alberghi, (esclusi i dormitori pubblici), case di riposo e di ricovero; 2) alberghi diurni e bagni pubblici; 3) asili nido; 4) convitti, campeggi, case per vacanze, ostelli; 5) colonie e soggiorni stagionali, stabilimenti termali; 6) corsi extra scolastici di insegnamento di arti e sport e altre discipline, fatta eccezione per quelli espressamente previsti dalla legge; 7) giardini zoologici e botanici; 8) impianti sportivi: piscine, campi da tennis, di pattinaggio, impianti di risalita e simili; 9) mattatoi pubblici; 10) mense, comprese quelle ad uso scolastico; 11) mercati e fiere attrezzati; 12) parcheggi custoditi e parchimetri; 13) spesa pubblica; 14) servizi turistici diversi: stabilimenti balneari, approdi turistici e simili; 15) spurgo di pozzi neri; 16) teatri, musei, pinacoteche, gallerie, mostre e spettacoli; 17) trasporti di carni macellate; 18) trasporti funebri, pompe funebri e illuminazioni votive; 19) uso di locali adibiti stabilmente ed esclusivamente a riunioni non istituzionali: auditorium, palazzi dei congressi e simili.

L’art. 6 del predetto D.L. n. 55 del 1983 precisa, poi, che le Amministrazioni “sono tenuti a definire, non oltre la data delle deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi complessivi di tutti i servizi a domanda individuale (…) che viene finanziata da tariffe o contribuzioni ed entrate specificatamente destinate. Con lo stesso atto vengono determinate le tariffe e le contribuzioni”. Tale assunto è stato più volte precisato dalla giurisprudenza secondo la quale qualora l’Amministrazione decida di attivare tali servizi a domanda individuale, sarà tenuta ad individuare il costo complessivo del servizio, includendo sia i costi diretti tanto quelli indiretti. La tariffa pagata per la fruizione del servizio pubblico a domanda individuale non mira, però, a coprire integralmente il costo del servizio: rappresenta solo la contribuzione parziale richiesta all’utente per usufruire di tali attività che hanno comunque una rilevanza sociale di pubblica utilità[11]. L’Ente potrà prevedere, poi, tariffe diversificate in base alle condizioni economiche degli utenti; a tale scopo, dovrà individuare le singole fasce reddituali consentendo, così, un accesso agevolato al servizio. La predetta differenziazione rappresenta, pertanto, una scelta politica di natura economico-sociale che compete esclusivamente all’Ente erogatore; quest’ultimo, infatti, dovrà puntualmente indicare le ragioni della decisione adottata. La giurisprudenza contabile[12] ha poi affrontato il problema della possibile erogazione gratuita di alcuni servizi a domanda individuale. Il Collegio, pur ribadendo la potestà di modulare le tariffe in rapporto alle esigenze ed alle situazioni specifiche dei cittadini, ha affermato che le Amministrazioni non possono procedere ad una generalizzata erogazione gratuita o ad un prezzo irrisorio dei servizi a domanda individuale; restano, comunque, salve le eccezioni previste dalla legge[13].

 

 

  • La tutela degli utenti nei servizi pubblici locali: la carta dei servizi.

 

La gestione dei servizi pubblici locali dà luogo ad un rapporto complesso che vede il coinvolgimento di tre soggetti: la Pubblica Amministrazione, il gestore e l’utenza. Le relazioni che ne conseguono sono regolate da due distinti contratti: il contratto di servizio ed il contratto per adesione. Il primo intercorre tra l’Ente ed il soggetto gestore e fissa i rispettivi obblighi e diritti. Il gestore, infatti, non è libero nell’erogazione del servizio atteso che sullo stesso grava un vero e proprio obbligo a contrarre con l’utente; per come prescritto dall’Amministrazione, quindi, dovrà garantire la generale accessibilità del medesimo. I rapporti tra utente e gestore sono, invece, regolati dal contratto per adesione, il cui contenuto è predeterminato da atti normativi e atti amministrativi generali; un rilievo del tutto secondario assume, pertanto, la volontà del gestore mentre quella dell’utente non trova spazio alcuno. Tuttavia, al fine di garantire una tutela adeguata al cittadino –utente, tale contratto per adesione è stato affiancato da un altro documento, la Carta dei servizi. Tale strumento è stato introdotto dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 gennaio 1994 (“Princìpi sull’erogazione dei servizi pubblici”) ed è stata, successivamente, recepita dal decreto legge 163/1995 che ne ha reso obbligatoria l’adozione da parte degli Enti erogatori[14]. Tale direttiva fissa principi il cui rispetto è assicurato dalle amministrazioni pubbliche nell’esercizio dei loro poteri di direzione, controllo e vigilanza atteso che queste “provvedono ad inserire i contenuti della presente direttiva negli atti che disciplinano la concessione”. Tale atto è stato, quindi, pensato come una forma di tutela preventiva del consumatore atteso che impegna il gestore a garantire determinati standard di qualità nell’erogazione del servizio; tende, pertanto, ad assicurare la c.d. “consumer satisfaction”. I soggetti erogatori, infatti, sono chiamati a definire standard generali e standard specifici di qualità e quantità dei servizi; devono, inoltre, predisporre una relazione illustrativa nella quale vengano descritte, tra l’altro, le modalità previste per il conseguimento degli obiettivi prefissati nonchè i metodi di valutazione utilizzati per fissare o rivedere gli standard[15]. L’osservanza di tali parametri non può essere soggetta a condizioni e sono ammesse deroghe solo se i risultati siano più favorevoli agli utenti. La violazione delle prescrizioni della Carta determina la corresponsione degli indennizzi forfettari in favore dell’utente; la liquidazione è automatica atteso che il consumatore non deve dare alcuna dimostrazione del pregiudizio patito atteso che lo stesso deriva direttamente dalla violazione degli standard di qualità prefissati. Non mancano, poi, le sanzioni: per i servizi erogati da Pubbliche Amministrazioni, l’inosservanza dei principi della direttiva ha conseguenze in termini di applicazione delle sanzioni amministrative e disciplinari previste a carico dei dirigenti generali, dei dirigenti e degli altri dipendenti; per i servizi erogati in regime di concessione o mediante convenzione da soggetti non pubblici, l’inosservanza dei principi della direttiva costituisce inadempimento degli obblighi assunti contrattualmente dai soggetti gestori.[16]

 

 

  • Il progetto di riforma dei servizi pubblici locali.

 

Come innanzi accennato, l’influenza del diritto comunitario ha notevolmente inciso sulla disciplina in tema di servizi pubblici locali. Con la legge c.d. Madia n. 124 del 7 agosto 2015 il legislatore, infatti, ha inteso recepire le innovazioni di cui alle direttive comunitarie nn. 23, 24 e 25 del 2014; ha delegato, poi, l’esecutivo ad adottare un testo unico ed a riorganizzare la materia dei servizi pubblici.  Il Governo, quindi, ha provveduto ad adottare uno schema di decreto legislativo in tema di servizi pubblici locali di interesse economico generale, che ha ottenuto il parere positivo del Consiglio di Stato in funzione consultiva.[17] Malgrado ciò, come vedremo meglio più avanti, il processo di riforma si è bruscamente interrotto. Tra i profili di maggior rilievo del predetto schema di decreto, vi era la presenza di una definizione espressa di “servizi pubblici locali di interesse economico generale” che ricalcava, in sostanza, quella comunitaria di SIEG. Venivano, poi, fissati alcuni principi cardini della materia stabilendo che l’assunzione, la regolazione e la gestione dei servizi pubblici di interesse economico generale dovevano ispirarsi “ai principi di efficienza nella gestione, efficacia nella soddisfazione dei bisogni dei cittadini” nonché all’applicazione di tariffe orientate ai costi standard. Con riferimento, invece, alle modalità di affidamento, l’art. 7 del citato schema, sulla scia dell’orientamento eurounitario, sanciva il carattere equiordinato delle tre forme di gestione; subordinava, tuttavia, la scelta dell’Ente locale all’adozione di un provvedimento motivato che chiarisse le ragioni e la legittimità della decisione medesima. Tali innovazioni, tuttavia, non hanno visto la luce atteso che la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime alcune norme della predetta legge delega n. 124 del 2015.[18] In particolare, la Consulta non ha ritenuto sufficiente la previsione di una mera intesa con le Regioni, essendo invece richiesta la Conferenza Stato Regioni vista la competenza ripartita in materia.[19]

Con il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, approvato dal Governo il 4 novembre 2021, si è tornato nuovamente a parlare di riforma dei servizi pubblici locali. La proposta di legge, in particolare, intende sollecitare l’adozione da parte del Parlamento di un’apposita normativa finalizzata a “rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati”, a “promuovere lo sviluppo della concorrenza” e a “garantire la tutela dei consumatori” (comma 1).

In aggiunta alla finalità sopra richiamata, vengono fissati ulteriori obiettivi normativi quali, tra gli altri, la promozione dello sviluppo della concorrenza ed il miglioramento della qualità e dell’efficienza dei servizi pubblici. Il su richiamato disegno di legge ha voluto, quindi, raccogliere le raccomandazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che ha auspicato la necessaria approvazione del testo di riforma sui servizi pubblici locali;[20] ciò anche al fine di disciplinare, tra l’altro, l’istituto dell’autoproduzione dei servizi pubblici attraverso il ricorso al modello dell’in house providing. Al riguardo, il comma 1, lett. f), confermando le disposizioni già contenute nel d. lgs. n. 50/2016 e 175/2016, nonché un orientamento costante della giurisprudenza amministrativa, stabilisce che qualora le amministrazioni pubbliche non intendano fare ricorso al mercato per la gestione dei servizi pubblici locali, queste debbano motivare adeguatamente tale scelta; devono, quindi, sottoporla a precise valutazioni di natura economica, oltre che qualitativa e quantitativa, che potrebbero anche condurre ad una revisione del modello gestionale scelto.

Alla luce di quanto detto e degli aspetti più salienti della novella, non ci rimane che aspettare gli esiti di tale progetto di riforma.

 

 

 

 

 

 

  • Le scelte gestionali delle Amministrazioni in tema di servizi pubblici locali.

 

I servizi pubblici locali, come detto, vengono erogati dall’Ente Pubblico in favore di una data comunità, al fine di soddisfare determinati bisogni e di promuoverne lo sviluppo sociale. L’Amministrazione, tuttavia, gode di una facoltà di scelta relativa al modello gestionale da adottare; può, infatti, decidere di svolgere direttamente il servizio o di esternalizzarlo. Fondamentale, sul punto, è l’art. 113 del Testo Unico sugli Enti Locali; sebbene più volte riformata da interventi normativi e pronunce di incostituzionalità, la citata norma rappresenta ancor oggi il riferimento primario per la scelta delle modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali. Vi è da precisare, in via preliminare, che l’art. 113 TUEL non si applica ai c.d. “settori esclusi”, tra i quali si annoverano il mercato dell’energia elettrica e quello del gas naturale; parimenti escluso è il settore del trasporto pubblico locale che resta disciplinato dal d.lgs. 1997 n. 422. Ciò posto, la suddetta norma sancisce, in primo luogo, il principio della proprietà pubblica delle reti. Si stabilisce, infatti, il divieto per gli Enti locali di cedere la proprietà degli impianti, delle reti e delle dotazioni destinate all’esercizio dei servizi pubblici; ne deriva che la rete, pur potendo essere oggetto di affidamento, conserva sempre i propri connotati pubblicistici. Può capitare, infatti, che la rete venga affidata ad un soggetto diverso dal gestore del servizio; in quest’ultimo caso, l’Ente è tenuto a garantire al gestore del servizio non solo il libero accesso alla rete ma anche la corretta erogazione del medesimo. Quanto alle modalità di gestione, l’art. 113 TUEL prevede sostanzialmente tre modelli alternativi; il ricorso al mercato, il partenariato pubblico e l’affidamento in house. Come si avrà modo di approfondire nei paragrafi successivi, con il primo modello gestorio la prestazione viene esternalizzata mediante affidamento a soggetti terzi che sono selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica; viceversa, con l’in house la produzione viene internalizzata dall’Ente il quale sceglie di erogare direttamente il servizio, anche avvalendosi di società interamente controllate dal medesimo. Con il partenariato pubblico privato, da ultimo, il servizio viene affidato ad una società mista costituita ad hoc; viene, comunque garantita la concorrenza atteso che è necessaria una gara “a doppio oggetto”.

In passato, però, la disciplina in tema di gestione dei servizi pubblici era più articolata. Fino al 2004, infatti, vi era anche l’art. 113 bis TUEL che contemplava la possibilità per gli Enti locali di gestire servizi privi di rilevanza economica; questi potevano essere affidati direttamente ad istituzioni, aziende speciali e a società a capitale interamente pubblico ma consentiva finanche la gestione in economia dei servizi di modeste dimensioni. Tuttavia la Corte Costituzionale, con la sentenza del 27 luglio 2004, dichiarava costituzionalmente illegittima la predetta norma per violazione della competenza esclusiva regionale; rilevava infatti, che i servizi pubblici non economici esulassero dalla competenza legislativa statale in quanto non vi era alcuna necessità di tutelare la concorrenza.

In tale complesso quadro normativo, si inseriscono anche le vicende legate all’affidamento in house; quest’ultimo aspetto, tuttavia, sarà approfondito in seguito, quando si discuterà della problematica relativa alla natura eccezionale o ordinaria di tale modello gestorio.[21]

 

 

  • L’esternalizzazione dei servizi: il ricorso al mercato ed all’evidenza pubblica.

 

L’Ente Pubblico, come in precedenza accennato, può decidere di esternalizzare il servizio, affidando il medesimo a soggetti terzi ed aprendosi al mercato. La Pubblica Amministrazione, però, non è libera di scegliere il contraente ma ha il dovere di attenersi alle norme di legge al fine di promuovere la concorrenza; dovrà, quindi, agire nel pieno rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità, buon andamento ed imparzialità, per come sancito dall’art. 97 Cost. e dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990. Fondamentale, quindi, diventa il rispetto dell’evidenza pubblica; tramite tale procedura, l’Ente dovrà, pertanto, rappresentare i motivi di pubblico interesse da realizzare e contestualmente motivare la scelta dell’operatore economico selezionato. La disciplina dell’evidenza pubblica ha subito l’influenza del diritto comunitario ed, in particolare, delle Direttive n.23/24/25 del 2014; oggi, pertanto, è regolata dal D.Lgs 2016 n. 50 recante Codice dei Contratti Pubblici. La procedura in esame si articola in fasi che sono prodromiche all’attività negoziale della Pubblica Amministrazione. Il primo atto negoziale che deve necessariamente sussistere è la c.d. “deliberazione a contrarre” con la quale le Amministrazioni devono preventivamente individuare gli elementi essenziali del futuro contratto ed i criteri di selezione tanto degli operatori economici quanto delle offerte.[22] La seconda fase, che a sua volta si articola in vari step, è quella relativa alla “scelta del contraente”. L’Ente, preliminarmente, dovrà indire la gara, attraverso la pubblicazione del bando o, nei casi espressamente previsti dal codice, mediante avviso di preinformazione; un rilievo importante in tal senso hanno anche i capitolati d’oneri, da considerarsi parte integrante del contratto se richiamate nel bando di gara o nella lettera di invito. Fondamentale sarà, poi, la determinazione dei criteri di aggiudicazione che, secondo il D.lgs 2016 n. 50, sono sostanzialmente due: quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa e quello del prezzo più basso.[23] Successivamente, si passerà alla vera e propria fase della scelta: l’Amministrazione, infatti, dovrà selezionare gli operatori economici adottando una delle procedure previste in tal senso dal Codice degli Appalti. Il D.lgs 2016 n. 50 prevede, infatti, varie regole per la scelta del contraente, ciascuna rispondente a logiche diverse ma tutte volte a garantire la massima pubblicità e concorrenza. Tali procedure sono sostanzialmente riconducibili a quattro tipologie: aperte, ristrette, negoziate, dialogo competitivo e partenariato per l’innovazione. Le procedure aperte sono quelle che garantiscono la massima partecipazione; viene, infatti, pubblicato un bando di gara ed ogni operatore economico può presentare un’offerta. Nelle procedure ristrette, invece, in seguito alla pubblicazione del bando, ciascun soggetto può inoltrare richiesta di invito alla stazione appaltante; essi, pertanto, potranno presentare la propria offerta soltanto in un momento successivo, in seguito alla ricezione dell’invito da parte dell’Amministrazione. Poi ci sono le procedure negoziate, che possono prevedere o meno la pubblicazione del bando di gara; in tali casi, gli Enti pubblici individuano direttamente gli operatori economici e con loro iniziano a negoziare le condizioni dell’appalto. Vi è, inoltre, il dialogo competitivo che viene avviato dall’Amministrazione negli appalti particolarmente complessi. Tale procedura, alla quale ciascun privato può chiedere di partecipare, prevede un confronto con i candidati ammessi per individuare le soluzioni più consone alle esigenze dell’Ente; scelti i progetti più adatti, i soggetti selezionati sono conseguentemente invitati a presentare le relative offerte. Da ultimo, c’è il partenariato per l’innovazione con il quale l’ Ente cerca soluzioni, non presenti sul mercato, al fine di “sviluppare prodotti, servizi e lavori innovativi”; conseguentemente, dopo la definizione del predetto fabbisogno di innovazione e dei requisiti di partecipazione, la Pubblica Amministrazione negozierà la soluzione ritenuta più idonea e la commissionerà all’operatore economico proponente[24].

La terza fase della procedura ad evidenza pubblica riguarda la presentazione delle offerte; ciascun candidato, quindi, dovrà presentare la propria offerta che lo vincolerà per un dato periodo di tempo e comunque per 180 giorni. La gara pubblica si conclude, infine, con l’aggiudicazione; quest’ultima è prima provvisoria e successivamente definitiva. Quella provvisoria è finalizzata ad esperire i controlli tanto sulle offerte quanto sugli operatori selezionati; in caso di esito positivo, l’Amministrazione provvederà all’aggiudicazione definitiva, con consequenziale stipula del contratto di appalto.

 

 

  • Le forme di cooperazione pubblico privata: il partenariato.

 

L’evidenza pubblica, per come innanzi descritta, assume un particolare rilievo anche quando l’Ente decide di esternalizzare il servizio affidandolo ad una società mista costituita ad hoc; è il caso del partenariato pubblico privato. Adottando la predetta scelta gestionale, l’Amministrazione dovrà, quindi, esperire una gara c.d. “a doppio oggetto”; nella specie, infatti, la procedura dell’evidenza pubblica è finalizzata tanto alla scelta del socio privato quanto alla contestuale attribuzione allo stesso di specifici compiti operativi connessi alla gestione. Il Partenariato pubblico privato è disciplinato dal D. Lgs. 2016 n. 50 che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett.eee), definisce l’istituto come quel “contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell’ammortamento dell’investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un’opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connessa all’utilizzo dell’opera stessa, con assunzione di rischio secondo modalità individuate nel contratto, da parte dell’operatore.” Il Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto degli appalti pubblici e delle concessioni della Commissione Europea ha individuato due tipologie di partenariato pubblico privato: quello contrattuale e quello istituzionalizzato.[25] Il partenariato pubblico privato contrattuale è caratterizzato dal suo connotato negoziale; rappresenta, in sostanza, un contratto attraverso il quale, in esito all’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica, viene affidato al privato la progettazione, il finanziamento, la realizzazione dell’opera pubblica e la gestione del relativo servizio. Il partenariato pubblico privato istituzionale, invece, prevede l’istituzione di una società mista che realizza, quindi, la cooperazione tra il partner pubblico e quello privato. Anche in quest’ultima tipologia viene in rilievo la procedura ad evidenza pubblica; il socio privato, infatti, deve essere scelto applicando le regole sancite nel Codice degli Appalti, anche attraverso la parziale privatizzazione di società precedentemente a totale partecipazione pubblica. Quanto alla caratteristiche generali del partenariato,[26] il Libro Verde ne indica anche i principali elementi e, precisamente: a) la lunga durata del rapporto, che implica una cooperazione tra i due partner sui vari aspetti del progetto da realizzare; b) il finanziamento del progetto, che deve essere garantito in tutto o in parte dal settore privato; c) il ruolo strategico degli operatori economici, che partecipano a tutte le fasi del progetto; d) la distribuzione dei rischi tra il partner pubblico e quello privato. L’art. 180 del Codice degli Appalti recepisce tali indicazioni e si sofferma sui requisiti della remunerazione del socio privato e sul trasferimento del rischio. Si stabilisce, innanzitutto, che il pagamento del partner privato avvenga attraverso il versamento, da parte dell’Ente, di canoni o altre tipologie di contropartita economica; in alternativa, è previsto che la remunerazione del privato si realizzi con il pagamento del prezzo e/o delle tariffe da parte degli utenti che usufruiscono dell’opera e/o del servizio. Si prevede, poi, il trasferimento in capo al partner privato del rischio di costruzione, nel caso di opera pubblica, ma anche del rischio di disponibilità o di domanda, nel caso di servizi resi verso l’esterno; in ogni caso, i pagamenti devono essere commisurati alla quantità ed alla qualità delle prestazioni effettuate. L’art. 180 del Codice prevede, poi, diverse tipologie di partenariato quali, a titolo esemplificativo, la concessione di costruzione e gestione (concessione di lavori), la concessione di servizi, la locazione finanziaria di opere pubbliche, il contratto di disponibilità, la finanza di progetto.

 

 

  • L’internalizzazione e l’autoproduzione dei servizi: l’opzione in house providing.

 

L’Ente locale, in alternativa all’esternalizzazione, può scegliere di erogare direttamente il servizio pubblico. La Pubblica Amministrazione, quindi, anziché avviare una procedura ad evidenza pubblica per la scelta del soggetto affidatario, decide di internalizzare il servizio affidandolo direttamente ad una società a partecipazione pubblica. Tale società in house, seppur formalmente estranea all’Amministrazione, è sostanzialmente una longa manus dell’Ente; quest’ultimo, infatti, sottopone la stessa ai medesimi poteri di vigilanza e di controllo esercitati sui propri uffici interni. L’istituto dell’in house providing si basa, dunque, sull’affidamento diretto, essendo, viceversa, escluso il ricorso al mercato; nelle prime elaborazioni giurisprudenziali, infatti, l’in house era stato pensato proprio al fine di sottrarre all’evidenza pubblica quelle ipotesi in cui il servizio veniva affidato a quelle che potevano considerarsi articolazioni interne dell’Ente. Fin dalle note sentenze Arnhem e Teckal, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, considerando legittimo l’istituto, si preoccupava, però, di delineare i requisiti che dovevano connotare le società in house.[27] Innanzitutto, veniva ribadita la necessaria sussistenza dell’elemento strutturale del “controllo analogo;” l’Amministrazione aggiudicatrice, quindi, doveva esercitare sul soggetto aggiudicatario il medesimo controllo che esercitava sui propri servizi. Tale caratteristica poteva essere desunta dalla totale partecipazione pubblica del capitale sociale; in questo caso, infatti, il socio pubblico esercitava un’influenza determinante sulle decisioni della società in house. La giurisprudenza, poi, richiedeva l’esclusione dei privati dalla compagine societaria; come vedremo meglio più avanti, le direttive comunitarie del 2014 hanno aperto a tale possibilità a condizione che il privato non eserciti il controllo determinante sulle decisioni societarie strategiche Veniva chiesta, poi, la presenza di un elemento funzionale: era necessario, infatti, che la società in house svolgesse la maggior parte dell’attività in favore dell’ente di appartenenza. Solo la sussistenza dei superiori requisiti legittimava, quindi, l’affidamento diretto in house; tali caratteristiche, infatti, delineavano il rapporto di delegazione interorganica intercorrente tra l’Ente pubblico ed il soggetto affidatario che escludeva qualsivoglia alterità soggettiva di natura sostanziale. Le surichiamate indicazioni pretorie sono state successivamente recepite dalle direttive comunitarie 23/24/25 del 2014[28] e, conseguentemente, dal nuovo Codice dei contratti Pubblici. In particolare, l’art. 5 del d.lgs 2016 n. 50 ha codificato i requisiti elaborati dalla giurisprudenza precisando che “Una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione del presente codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; b) oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.” In presenza di tali condizioni, quindi, l’affidamento in house si ritiene consentito, escludendo il ricorso alle regole dell’evidenza pubblica.  La norma, sulla scia delle direttive unionali del 2014 e contrariamente ai su richiamati orientamenti giurisprudenziali, ha previsto poi la possibile partecipazione dei privati nella compagine societaria; tuttavia, ai fini della legittimità dell’in house, ha richiesto l’assenza di qualsivoglia controllo, potere di veto ed influenza determinante da parte del socio privato. Anche il D.lgs 2016 n. 179,[29] attuativo della legge delega n. 125 del 2015 ( c.d. Madia), ha disciplinato i requisiti dell’in house dettando anche le linee organizzative e strutturali dell’istituto. In particolare l’art. 16, quanto all’assetto organizzativo, ha previsto che “ a) gli statuti delle società per azioni possono contenere clausole in deroga delle disposizioni dell’articolo 2380-bis e dell’articolo 2409-novies del codice civile;b) gli statuti delle società a responsabilità limitata possono prevedere l’attribuzione all’ente o agli enti pubblici soci di particolari diritti, ai sensi dell’articolo 2468, terzo comma, del codice civile;c) in ogni caso, i requisiti del controllo analogo possono essere acquisiti anche mediante la conclusione di appositi patti parasociali; tali patti possono avere durata superiore a cinque anni, in deroga all’articolo 2341-bis, primo comma, del codice civile.”. La norma, poi, dopo aver quantificato nell’ottanta per cento il requisito della prevalenza dell’attività svolta in favore dell’Ente affidante, precisa che “La produzione ulteriore rispetto al limite di fatturato di cui al comma 3, che può essere rivolta anche a finalità diverse, è consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società.”

Stanti i superiori connotati dell’ordinaria figura di in house, il Codice dei contratti pubblici ha espressamente disciplinato anche dei modelli speciali già elaborati dalla giurisprudenza: è il caso dell’in house a cascata, rovesciato, orizzontale e frazionato.[30]  In particolare, l’art. 5, comma 2, secondo periodo, del D.Lgs. 2016 n. 50 prevede l’in house “a cascata” nel quale il controllo analogo sul soggetto in house viene esercitato da una persona giuridica diversa dall’amministrazione aggiudicatrice (o dall’ente aggiudicatore), a sua volta controllata allo stesso modo da quest’ultima. Tale modello, sul quale si era già pronunciato la Corte di giustizia,[31] configura un controllo analogo anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta; l’affidamento diretto è, pertanto, legittimo anche quando il pacchetto azionario è detenuto indirettamente per il tramite di una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’Ente medesimo. All’art. 5, comma 3, il Codice dei contratti pubblici introduce, inoltre, una disciplina positiva dell’in house c.d. “rovesciato”; consente, pertanto, che anche la persona giuridica controllata possa affidare direttamente un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante senza il previo esperimento della gara pubblica. La norma codifica, poi, anche l’in house orizzontale; in tal caso, il soggetto controllato può affidare un appalto o una concessione ad altro soggetto giuridico controllato dalla stessa amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore controllato senza applicare le regole dell’evidenza pubblica. Nelle ipotesi di in house rovesciato ed orizzontale, però, è necessario che nella persona giuridica alla quale viene aggiudicato l’appalto pubblico non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione che non comportino controllo o potere di veto prescritte dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, ovvero che non comportino l’esercizio di un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata. Da ultimo, i commi 4 e 5 del citato art. 5 prevedono, poi il modello in house c.d. “frazionato” (definito anche “pluripartecipato”); anche in tal caso è consentita la deroga alle disposizioni del Codice dei contratti pubblici purchè il controllo analogo sul soggetto in house possa essere esercitato in forma congiunta da più amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori.

Alla luce delle superiori considerazioni, è possibile concludere che nel nostro ordinamento è pienamente ammissibile l’affidamento diretto ad una società in house a condizione che quest’ultima presenti i requisiti fissati dalla normativa, in primis il controllo analogo esercitato dall’Amministrazione aggiudicatrice; solo così sarà possibile affermare che la società affidataria non sia un soggetto terzo ma semplicemente una longa manus dell’Ente affidante.

 

 

10) Affidamento in house: modello ordinario o eccezionale?

 

L’Ente locale, come detto, può scegliere liberamente la forma più adatta per la gestione del servizio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 113 TUEL. Tuttavia, la possibilità di affidare direttamente in house senza applicazione alcuna dell’evidenza pubblica ha creato non pochi problemi dettati prevalentemente dalla stratificazione normativa avvenuta in materia e dall’influenza del diritto comunitario. Il citato art. 113 TUEL, infatti, ha subito una sostanziale modifica ad opera dell’art. 23 bis del D.L. n. 112/2008 che ha adeguato la normativa interna a quella eurounitaria; veniva, così previsto che il ricorso al mercato dovesse essere la regola mentre l’affidamento in house diventava una “modalità in deroga”. Pertanto, solo in ipotesi residuali veniva consentito l’affidamento diretto; l’Ente, quindi, doveva dimostrare come il ricorso al mercato fosse insufficiente a fronte di situazioni eccezionali di carattere economico, sociale, ambientale e geomorfologico. In ogni caso, la società in house affidataria doveva presentare tutte le caratteristiche enucleate dalla giurisprudenza ai fini della legittimità del predetto affidamento diretto. La norma, poi, prevedeva che l’Amministrazione dovesse motivare la scelta dell’in house in base ad un’analisi del mercato; richiedeva, poi, la trasmissione di una relazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per l’espressione di un parere preventivo che, se non reso entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione, si intendeva espresso in senso favorevole.

A seguito del referendum del 12-13 giugno 2011 il citato art. 23-bis veniva abrogato creando un vuoto normativo che il legislatore ha cercato subito di colmare con gli artt. 3 bis e 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148. La nuova normativa, che prevedeva una gestione concorrenziale dei servizi pubblici, consentiva agli Enti locali la possibilità di attribuire diritti di esclusiva ai terzi selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica; quanto agli affidamenti in house, invece, venivano consentiti soltanto nei limiti di una ridotta soglia di valore,[32] ripristinando, di fatto, l’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112/2008 per quelli di valore  superiore. L’intento della novella, quindi, era quello di incentivare la liberalizzazione dei servizi pubblici e l’affidamento degli stessi in mano ai privati; l’in house providing, invece, continuava ad essere una soluzione residuale ed eccezionale sulla scia dell’orientamento restrittivo tradizionale. Nel 2012, tuttavia, la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale della norma, osservando che l’art. 4 del d.l. n. 138/2011 rappresentava in sostanza un ripristino della disciplina abrogata dal referendum e, quindi, violava l’art. 75 della Costituzione; la novella, inoltre, operava una drastica riduzione delle ipotesi di affidamento in house, entrando così in conflitto con la normativa comunitaria.[33] Conseguentemente, la giurisprudenza nazionale ha iniziato ad abbandonare la tesi restrittiva, considerando l’affidamento in house come un modello ordinario di gestione, al pari del ricorso al mercato; l’onere motivazionale imposto veniva, quindi, ricondotto non più all’eccezionalità dell’in house bensì all’esercizio del potere discrezionale esercitato dall’Amministrazione nella scelta gestionale.[34]

A seguito dell’intervento della Consulta, il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 34, comma 20, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2012, n. 2219). In relazione all’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, la citata normativa ha previsto che l’Amministrazione, quale che sia la forma di gestione prescelta, debba dare conto, in un’apposita relazione, delle ragioni che l’hanno determinata; ciò al fine di assicurare, tra l’altro, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e l’adeguata informazione alla collettività di riferimento. Il nuovo intervento normativo, quindi, ha creato nuovamente dubbi sulla natura ordinaria o eccezionale della modalità in house; tale empasse è stato definitivamente superato con l’avvento delle direttive comunitarie 23,24 e 25 del 2014 e con il successivo d.lgs. n. 50/2016. In particolare, il Nuovo Codice degli Appalti, pur riconoscendo l’ordinarietà del modello in house, ha tuttavia previsto, uno stringente onere motivazionale, non contemplato dall’ordinamento comunitario, per l’affidamento in house dei servizi pubblici; ciò ha determinato un sensibile restringimento del campo di applicazione dell’istituto. L’art. 192 del Codice, al comma 1 subordina, infatti, la legittimità degli affidamenti in house al rispetto di specifici oneri procedimentali; è prevista l’istituzione, presso l’ANAC, di un elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che individua i soggetti abilitati a ricorrere alla gestione in house.  Ne deriva che solo i soggetti giuridici iscritti al suddetto elenco – inserimento subordinato al previo riscontro dell’esistenza dei requisiti previsti dall’art. 5 del Codice -saranno legittimati ad effettuare affidamenti diretti all’ente strumentale, sotto la propria responsabilità. Particolarmente importante è, poi, l’onere motivazionale rafforzato previsto dal comma 2; le stazioni appaltanti devono preventivamente effettuare una valutazione della congruità economica dell’offerta dei soggetti in house, dando conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato. L’amministrazione, inoltre, dovrà anche indicare i benefici per la collettività conseguenti alla scelta di autoprodurre il servizio, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, oltre che di ottimale impiego delle risorse pubbliche. La previsione di tale onere motivazionale rafforzato ha creato non pochi dubbi di conformità con l’ordinamento eurounitario. La normativa comunitaria, infatti, non pone alcun limite al ricorso all’in house riconoscendo, in tema di gestione, l’autonomia organizzativa agli Stati membri. Nel considerando 5 della direttiva 2014/24/UE, infatti, si afferma che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva». Tale disposizione, in realtà, è l’espressione di alcuni principi generali già fissati nel Trattato sul Funzionamento dell’unione Europea; si pensi, ad esempio, all’art. 106 TFUE, che sottrae le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale alle regole di concorrenza qualora l’applicazione delle stesse ostacoli l’adempimento della specifica missione loro affidata.[35]  Alla luce di ciò, non essendovi un obbligo sovranazionale di esternalizzazione dei servizi, i soli limiti alla scelta tra ricorso al mercato ed autoproduzione sarebbero quelli individuati dal diritto interno.

Tale tesi è stata oggi confermata tanto dalla giurisprudenza comunitaria quanto costituzionale. La Corte di Giustizia, in particolare, ha ribadito la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, la legittimazione «a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna».[36] Il Giudice delle Leggi [37] ha, poi, affermato che l’onere motivazionale imposto dall’art. 192 del Nuovo Codice degli appalti non contrasta con il divieto di gold plating; l’aver introdotto una disciplina nazionale più rigorosa da quella prevista dalle direttive comunitarie, infatti, non può ritenersi in contrasto con le norme unionali atteso che queste fissano soltanto un minimo inderogabile a tutela del mercato concorrenziale. Secondo i giudici costituzionali “la ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato” . Ne deriva che la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, rispettandone la ratio ed essendo coerente con il quadro normativo di riferimento.

 

In uno Stato Sociale come il nostro, i servizi pubblici locali assumono un ruolo centrale per la comunità. La complessità della normativa attualmente vigente crea, però, non pochi problemi nell’individuazione della scelta gestionale, specie allorquando l’Ente intenda ricorrere al modello in house. L’onere motivazionale rafforzato, infatti, si traduce in un ulteriore adempimento burocratico per l’Amministrazione, con il conseguente rallentamento procedurale che ne deriva. Lo sfavor dell’ordinamento italiano nei confronti dell’affidamento diretto, tuttavia, non sempre corrisponde alle preoccupazioni atteso che spesso il ricorso all’in house rappresenta certamente un’esperienza positiva. Talvolta, invece, è il ricorso al mercato concorrenziale a creare notevoli problemi; le procedure burocratiche ed i continui contenziosi inficiano, infatti, l’efficienza gestionale nell’erogazione dei servizi. Si auspica, pertanto, che la novella legislativa in itinere possa snellire agli adempimenti a carico delle Amministrazioni, a tutto vantaggio del potenziamento dei servizi pubblici erogati.

 

[1]  Per un approfondimento si veda R. Garofoli, G. Ferrari., Manuale di diritto amministrativo, X ed., Roma 2016,/2017; M.  Dugato, I servizi pubblici locali, in Trattato di diritto amministrativo a cura di Cassese, Parte Speciale, vol I., Milano, 2003.

[2] A sostegno di tale fondamento costituzionale dei servizi pubblici rilievo decisivo avrebbe l’art 41, comma 3 Cost. secondo cui “La legge determina la possibilità di sottoporre in via legislativa i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”

[3] Vedasi, sul punto, D. Sorace, I servizi pubblici economici nell’ordinamento nazionale ed europeo alla fine del primo decennio del XXI secolo, in Dir. Amm., fasc. 1, 2010.

[4] Vedasi, al riguardo, Con. Sato, sent. 16.03.2009 n. 1555 in www.giustizia-amministrativa.it

[5] Per un approfondimento si rinvia al successivo § 6.

[6] Vedasi, al riguardo, R. Garofoli, G. Ferrari., Manuale di diritto amministrativo, cit;  M.  Dugato, I servizi pubblici locali,  cit.

[7] Si rinvia al successivo § 5.

[8] La Comunicazione sui servizi di interesse economico generale del 20 settembre 2000 ha definito i SIEG come quell’insieme di prestazioni che si differenziano dalle altre attività di impresa poiché “l’autorità pubblica ritiene che questi debbano essere forniti anche laddove il mercato non abbia sufficienti ragioni per assumerne la produzione”.Sul punto vedasi, R. Caranta, Il diritto dell’UE sui servizi di interesse economico generale e il riparto di competenze tra Stato e Regioni, in www.forumcostituzionale.it

[9] Il protocollo sui servizi di interesse generale aggiunto al Trattato stabilisce che «Le disposizioni dei trattati lasciano impregiudicata la competenza degli Stati membri a fornire, a commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico». Nello stesso senso va anche la Direttiva 2006/123/CE: in base all’art. 2, comma 2, lett. a), essa non si applica ai servizi non economici d’interesse generale; sul punto vedasi, R. Caranta, Il diritto dell’UE sui servizi di interesse economico generale, cit.

[10] Così, Tar Lazio, sez. II Bis, sent. n. 3831 del 2017, in www.giustizia-amministrativa.it .

[11] L’obbligo di copertura del costo complessivo non si riferisce ai singoli servizi, bensì al loro insieme, così permettendo all’Ente una certa discrezionalità riguardo alle misure da adottare (TAR Lazio sez. II n. 1333 del 27 settembre 1984 in www.giustizia-amministrativa.it )

[12] Sul servizio di mensa scolastica ed  il servizio di corsi extra scolastici di insegnamento di arti e sport vedasi Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Campania, parere n. 7/2010 del 25 febbraio 2010 in www.cortedeiconti.it

[13] Con riferimento alla possibilità erogare gratuitamente il servizio di trasporto scolastico la giurisprudenza contabile ha assunto posizioni contrastanti. Per un verso, la Corte dei Conti, nel confermarne il carattere di servizio pubblico locale, ritiene che “il servizio di trasporto scolastico, sia pleno iure un servizio pubblico di trasporto, pertanto escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale”; in tal senso vedasi, Corte dei Conti, Sez. Controllo, n. 222 del 21 giugno 2017 in www.cortedeiconti.it. Di diverso avviso una successiva pronuncia che sancisce la legittimità per gli Enti locali, “nell’ambito della propria autonomia finanziaria e nel rispetto degli equilibri di bilancio, di provvedere ad erogare il servizio di trasporto scolastico anche con risorse proprie”; sul punto vedasi Corte Conti, Sez. Autonomie, 7 ottobre 2019 n. 25 in www.fondazioneifel.it .

[14] Sulle origini normative della Carta dei servizi cfr. R. Rinaldi, La posizione giuridica soggettiva dell’utente di servizi pubblici, Padova 2011, 64 ss.

[15] Cfr. M. Calabrò, Carta dei servizi, rapporto di utenza e qualità della vita, in Dir. Amm. 2014, 373 ss.

[16] R.Bin, C.Bergonzini, M. Nalin, Servizi pubblici locali: rapporto di consumo e diritti di cittadinanza, in www.robertobin.it

[17] Vedasi Consiglio di Stato, Commissione Speciale, nel parere del 3 maggio 2016 n. 1075 in www.ilquotidianodellapa.it Il parere, sostanzialmente positivo, auspicava, che detta «codificazione» fosse in futuro preservata, evitando, quindi, nuove dispersioni attraverso strumenti normativi episodici e disordinati.

Segnalava, poi, la necessità di effettuare un monitoraggio attento sull’attuazione della riforma, per assicurarne un effettivo funzionamento e fugare i rischi di “fuga dalla riforma”.  

[18] Vedasi Corte Costituzionale, sentenza n. 251 del 25 novembre 2016 in www.amministrazioneincammino.luiss.it

[19] In passato si era dibattuto sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni in materia di servizi pubblici locali. La questione è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 272 del 27 luglio 2004, ha fatto ordine sulle competenze tra Stato e Regioni distinguendo i rispettivi ambiti tanto nei servizi aventi rilevanza economica quanto in quelli non economici. La Consulta ha innanzitutto escluso che la materia dei servizi pubblici locali potesse rientrare tra le funzioni fondamentali degli enti locali atteso che “la gestione di detti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale.”  Passando all’analisi delle rispettive competenze, il Giudice delle Leggi ha precisato che la materia dei servizi pubblici di rilevanza economica non possa farsi rientrare nella determinazione dei livelli minimi delle prestazioni essenziali a tutela dei diritti civili e sociali; tali servizi, quindi, rientrano nella competenza legislativa statale atteso che riguardano la materia trasversale della tutela concorrenza ex art. 117, comma2, lett.e) Cost. Per quanto riguarda, invece, i servizi privi di rilevanza economica, non rientrano nella competenza statale atteso che in relazione ad essi non esiste un mercato concorrenziale; possono, quindi, essere oggetto di una specifica disciplina regionale e locale. Per un approfondimento sul tema si rinvia in A. Casorello, Gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale 27/07/2004, n. 272 sul sistema normativo in materia di gestione di servizi pubblici locali, in www.dirittodeiservizipubblici.it.

[20] In tal senso vedasi Segnalazione Antitrust Rif. S4143 in merito a “Proposta di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale sul mercato e la concorrenza anno 2021” in www.agcm.it . Per un ulteriore approfondimento del disegno di legge si veda A. Santuari, Riforma dei servizi pubblici locali e istituti giuridici cooperativi tra PA ed enti del Terzo settore, in www.welforum.it

 

[21] Si rinvia alla successiva trattazione di cui al § 10.

[22] L’art. 32 , comma 2 del D.lgs 2016 n. 50 precisa che “Prima dell’avvio delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti, in conformità ai propri ordinamenti, decretano o determinano di contrarre, individuando gli elementi essenziali del contratto e i criteri di selezione degli operatori economici e delle offerte. Nella procedura di cui all’articolo 36, comma 2, lettere a) e b), la stazione appaltante può procedere ad affidamento diretto tramite determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga, in modo semplificato, l’oggetto dell’affidamento, l’importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove richiesti.”

[23]  Originariamente l’art. 81 del D.Lgs. 163/2006 fissava il principio di equiordinazione tra i due criteri dell’offerta economicamente più vantaggiosa e del prezzo più basso; la scelta, quindi, veniva sostanzialmente rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione che doveva dimostrare soltanto “l’adeguatezza, logicità e ragionevolezza del sistema prescelto in relazione alle caratteristiche dell’affidamento deducibili dalle prescrizioni del bando di gara.” (così, TAR Palermo , sez III, 26/06/2008, n. 853 in www.anticorruzione.eu). Con l’avvento delle direttive comunitarie del 2014, è stata sancita una chiara preferenza per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa al fine di incoraggiare l’orientamento delle amministrazioni verso la qualità nelle aggiudicazioni dei lavori, servizi e forniture. Tale tesi è stata inizialmente recepita dal D.Lgs 50 del 2016 che, nel superare il principio di equivalenza tra i criteri di aggiudicazione, ha considerato quale regola ordinaria il ricorso all’offerta economicamente più vantaggiosa; il criterio del prezzo più basso, invece, è stato relegato a principio eccezionale, da applicarsi solo nelle ipotesi espressamente previste dal comma 4 art. 95 con necessità di previa motivazione. Successivamente, la legge 55/2019 di conversione del D.L. 32/2019 ha inciso nuovamente sui criteri di aggiudicazione al dichiarato fine di semplificare le procedure di affidamento degli appalti. Con tale riforma, che ha inciso sugli art. 36 e 96 del Codice, il legislatore ha stabilito che per gli affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro si applica il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con obbligo di motivare il ricorso al criterio del prezzo più basso; per gli affidamenti “sotto soglia” ex art. 36, vige invece il principio di equiordinazione tra i due criteri, salvo quanto previsto dall’art. 95 comma 3. Per un approfondimento, vedasi A. Lauso, Decreto c.d. Sblocca Cantieri: le modifiche dei criteri di aggiudicazione ed il principio di equiordinazione tra il D.L. 32/2019 e la Legge di conversione n. 55/2019, in www.anticorruzione.eu .

 

[24] Per un approfondimento si rinvia all’art. 64 D. Lgs 2016 n. 50.

[25] Libro Verde relativo ai partenariati pubblico privati e al diritto pubblico degli appalti e delle concessioni della Commissione europea del 30 aprile 2004 in ww.fondistrutturali.formez.it .

[26] A Di Giovanni, Il contratto di partenariato pubblico privato  tra sussidiarietà e solidarietà, Torino, 2012.

[27] G. Ruberto, La disciplina degli affidamenti in house nel d.lgs 50/2016,tra potestà legislativa statale e limiti imposti dall’ordinamento dell’Unione Europea, in www.federalismi.it.

[28] Si vedano, a tal proposito, l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE per i settori ordinari, l’art. 17 della direttiva 2014/23/UE per le concessioni, art. 28 della direttiva 2014/25/UE per i settori speciali

[29] Al fine di risolvere la questione posta dalla sentenza della Corte n. 251 del 2016- che aveva dichiarato illegittima la legge delega 2015 n. 124 che prevedeva il semplice parere delle Regioni anzichè la previa intesa-, il Governo ha adottato il d. lgs 2017 n. 100 modificativo del D.lgs 2016 n. 175. Tra le principali novità introdotte dal decreto correttivo del 2017, oltre l’intesa con le Regioni, si segnalano le seguenti: – l’attività di autoproduzione di beni e servizi può essere strumentale agli enti pubblici partecipanti o allo svolgimento delle loro funzioni; – che, nel caso di partecipazioni regionali o delle province autonome, l’esclusione di singole società dall’applicazione della disciplina può essere disposta dal Presidente della regione o della provincia autonoma; – per le amministrazioni titolari di partecipazioni di controllo in società viene prevista, a determinate condizioni, la facoltà di riassorbimento del personale già dipendente dalle amministrazioni stesse con rapporto di lavoro a tempo indeterminato; – la possibilità per le amministrazioni pubbliche di acquisire o mantenere partecipazioni in società che producono servizi di interesse economico generale fuori dall’ambito territoriale della collettività di riferimento, purché tali società abbiano in corso o ottengano l’affidamento del servizio tramite procedure a evidenza pubblica; – resta fermo in ogni caso l’applicazione di quanto previsto per le società in house, ivi compreso il vincolo per tali società che oltre l’80% del fatturato derivi dai compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci; – che ai fini dell’applicazione del criterio del fatturato medio non superiore al milione di euro, il primo triennio rilevante sia il triennio 2017-2019 e, nelle more della prima applicazione di tale criterio, si considerino rilevanti le partecipazioni in società che nel triennio antecedente all’adozione di tali misure abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a cinquecentomila euro. Per un approfondimento si rinvia a www.camera.it .

[30] Per un approfondimento si rinvia a G. Ruberto, La disciplina degli affidamenti in house, cit.

[31]Vedasi  Corte di giustizia CE, 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo S.p.A. e Consorzio Alisei contro Comune di Busto Arsizio e AGESP S.p.A., cit.

[32] La soglia dell’affidamento in house era individuata inizialmente in 900.000 euro e poi, successivamente, veniva ridotta a 200.000 euro, in virtù del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1. L’art. 4, comma 13, del d.l. n. 138/2011, disponeva testualmente: «In deroga a quanto previsto dai commi 8, 9, 10, 11 e 12 se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 200.000 euro annui, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento europeo per la gestione cosiddetta “in house”. Al fine di garantire l’unitarietà del servizio oggetto dell’affidamento, è fatto divieto di procedere al frazionamento del medesimo servizio e del relativo affidamento»

[33] Corte Cost., 20 luglio 2012, n. 199, A. LUCARELLI, La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione dell’inapplicabilità del patto di stabilità interno alle s.p.a. in house e alle aziende speciali, in www.federalismi.it. Nella sentenza la Consulta evidenziava che l’art. 4 del d.l. n. 138/2011, introducendo una nuova disciplina della materia, «senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina normativa preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti» (sentenza n. 68 del 1978), risultava «in palese contrasto con l’intento perseguito mediante il referendum abrogativo

[34] Tali considerazioni venivano riproposte nella sentenza della sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257 in cui il Consiglio di Stato, oltre a ribadire la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house -che doveva comunque rispettare i requisiti fissati dalla giurisprudenza comunitaria-, osservava come la relativa decisione dell’Amministrazione, ove motivata, sfuggisse al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta. Si veda, in tal senso, G. Ruberto, La disciplina degli affidamenti in house, cit.

[35] Dello stesso tenore appare anche l’art. 51 TFUE che, in relazione al diritto di stabilimento, esclude il ricorso alle procedure ad evidenza pubblica per le “attività” che nello Stato membro «partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri»

[36] Cfr. Corte di giustizia UE, sez. XI, 6 febbraio 2020, cause riunite C‑89/19 – C-91/19, Rieco SpA contro Comune di Lanciano, in G. Scarafiocca, L’in house providing di nuovo all’attenzione delle Corti. L’occasione per uno sguardo d’insieme, in www.federalismi.it.  Sulla stessa linea il giudice comunitario si era espresso con riferimento alla normativa in tema di appalti della Lituania. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha precisato che la direttiva 24/2014/UE ha semplicemente stabilito le condizioni minime in presenza delle quali un’operazione interna può essere eseguita senza dover ricorrere ad una procedura di gara per l’affidamento di un appalto, ma non vieta ai singoli Stati di aggiungerne altre. Tuttavia ha puntualizzato che: “la libertà degli Stati membri di scegliere il metodo di gestione che ritengono più appropriato per l’esecuzione dei lavori o la prestazione dei servizi non può essere illimitata. Essa deve al contrario  essere  esercitata  nel  rispetto  delle  regole  fondamentali  del  trattato  FUE,  segnatamente,  la  libertà  di circolazione delle merci, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, nonché dei principi che ne derivano come la parità di trattamento, il divieto di discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità   e   la   trasparenza […]. Entro   tali   limiti, uno   Stato   membro   può imporre ad un’amministrazione aggiudicatrice condizioni, non previste dall’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24, per concludere un’operazione interna, in particolare per garantire la continuità, la buona qualità e l’accessibilità del servizio”. Vedasi, in tal senso Corte Giustizia, Sez.  IV,  3  ottobre  2019, Causa  C-285/2018,  Irgita, in G. Scarafiocca, L’in house providing di nuovo all’attenzione delle Corti, cit.

[37] Cfr. Corte Costituzionale, sent.27 maggio 2020 n. 100 in G. Scarafiocca, L’in house providing di nuovo all’attenzione delle Corti, cit.

 

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