14/06/2022- Le criticità della disciplina delle Città Metropolitane e delle Province nella legge Delrio. Verso la fine di un dualismo?

SOMMARIO: 1. Introduzione 2. Una premessa storica: il ruolo delle autonomie nel lento processo di attuazione delle disposizioni del titolo V della Costituzione 2.1. Una premessa di sistema: il variegato mondo locale e la tutela Costituzionale inerente solo alcuni e non tutti gli enti locali. Un confronto tra la Costituzione ed il Tuel; 3. La Provincia e l’andamento carsico del legislatore: dalle prime tendenze alla soppressione, passando dalla legislazione emergenziale fino alla legge 56/2014 3.1. La legge 7 aprile 2014, n. 56. I rischi e le contraddizioni di una legge ordinaria formale che anticipa l’attuazione di una (fallita) riforma Costituzionale 3.2. La disciplina e le novità della legge Delrio. Lo strabismo istituzionale tra Province e Città Metropolitane: funzioni e governance degli enti di area vasta. 3.3 Sulla elezione indiretta di secondo grado delle città metropolitane: profili problematici della coincidenza tra Sindaco metropolitano e sindaco del Comune capoluogo 3.3.1. Democrazia e rappresentanza. La Provincia dopo la legge 56/2014: da casa delle comunità a casa dei Comuni? 3.4. La sovrapposizione tra Province e Città metropolitane dal punto di vista territoriale 4. La legge 56/2014 e il sistema di governo di secondo grado davanti alla Consulta 5. Le prospettive di riforma della legge 56/2014 alla luce delle proposte in sede governativa

  1. Il recentissimo intervento della Consulta con la sentenza n. 240 del 2021: la Corte che “stimola” il legislatore.

 

  1. Introduzione

Obiettivo del presente elaborato è quello di disserrare le incongruità della disciplina delle Province e delle Città metropolitane a seguito della legge 7 aprile 2014, n. 56. Infatti, a otto anni dalla sua emanazione – e sei dalla bocciatura popolare della riforma costituzionale del titolo V, parte II della Costituzione cui la legge era propedeutica – appare lecito domandarsi quale sia il destino degli enti di area vasta.

Dunque, in prima battuta si effettueranno delle considerazioni di carattere storico e sistemico, evidenziando in primis l’evoluzione del ruolo e della diversa tutela Costituzionale degli enti autonomi locali. Infatti, è proprio su tale ultimo binario che si incanala la ratio legis dell’intervento riformatore del 2014.

Successivamente, la lente di ingrandimento si sposterà specificatamente sulle scelte effettuate dal legislatore ordinario – in attesa del costituzionale – con la legge 56: : trasformazione degli enti di area vasta in enti di secondo livello, effettuando delle riflessioni circa l’eventuale trasformazione della Provincia da “casa delle comunità” in “casa dei Comuni”; lo svuotamento di funzioni delle Provincie in attesa di una loro decostituzionalizzazione non avvenuta; la ictu oculi incoerente sovrapposizione territoriale tra Provincia e Città metropolitana; il forte deficit democratico derivante dalla coincidenza ope legis del Sindaco metropolitano con il Sindaco del Comune capoluogo.

In conclusione, si analizzeranno le prospettive future di un riordino dell’assetto locale alla luce del disegno di legge di riforma del Testo unico degli enti locali, nonché della sentenza della Corte costituzionale del 7 dicembre 2021, n. 240 che pare – come spesso accade – stimolare l’attività del legislatore.

  • Una premessa storica: il ruolo delle autonomie nel lento processo di attuazione delle disposizioni del titolo V della Costituzione

Le disposizioni transitorie della Costituzione prevedevano che il legislatore procedesse in tempi brevi[1] alla revisione dell’ordinamento comunale e provinciale, alla luce dei nuovi principi costituzionali[2]. Nonostante ciò, l’ordinamento delle autonomie locali è restato per lungo tempo ancorato a quanto previsto dal T.U. del 1934, emendato dagli aspetti più autoritari e vetusti attraverso la legge n.530 del 9 giugno 1947. 

Specificatamente con riferimento alle Province, ulteriori correttivi furono effettuati tramite leggi speciali, riguardanti il sistema elettorale ed il suffragio femminile[3] . La centralità venne acquisita dal Consiglio, mentre la Giunta ed il vertice dell’esecutivo tornarono ad essere scelti dall’organo elettivo e non più dall’alto come nel periodo fascista.

Si stabilì, inoltre, che i consiglieri provinciali fossero 45 nelle province con più di 1,4 milioni di abitanti, 36 in quelle con più di 700 mila abitanti, 30 in quelle con più di 300 mila abitanti e 24 nelle province più piccole[4]. È qui tangibile un primo segnale della politicizzazione degli enti locali che vedrà il suo acmè nell’ente regionale, contribuendo a causare un ritardo ventennale nell’istituzione delle Regioni, avvenuta solo nel 1970.

Quello della autonomia infatti è, si, un principio ma è anche un iter da ricostruire.

Potrebbe dirsi, infatti, che nessun altro principio della nostra Carta costituzionale ha visto la propria attuazione muoversi lungo un sentiero così carsico e instabile. Sullo sfondo di quanto appena affermato milita, infatti, anche il sentimento contraddittorio dei decisori politici: l’autonomia è parsa in talune fasi storiche come un bene da ostentare, mentre in altre è divenuta una inutile diseconomia, quando appariva come fattore interno al sistema di limitazione del potere.

Rappresentazione plastica di quanto appena enunciato è dato dalla circostanza per la quale, successivamente all’entrata in vigore della Costituzione e alle successive elezioni del 1948 (a seguito delle quali la Democrazia Cristiana sfiorò la maggioranza assoluta, dando inizio a una stagione di governi molto lunga[5]) è rinvenibile un capovolgimento netto di posizioni in merito alle autonomie precedentemente delineatesi nel dibattito in seno alla Costituente.

 Infatti, se, da un lato, tra le forze di governo iniziò ad insinuarsi la preoccupazione circa l’eventuale formazione di centri di potere territoriali non omogenei a livello regionale, dall’altro, invece, subendo l’esclusione dal governo nazionale, le forze di sinistra videro nelle eventuali elezioni regionali una ghiotta occasione di governo almeno territoriale (e così sarà, si pensi alle famose c.d. regioni rosse). 

Sostanzialmente, alla questione autonomistica si attagliarono anche “rapporti di forza” dal punto di vista politico, rallentandone di molto il processo di attuazione. 

Il terreno delle autonomie, infatti, è stato spesso foriero di forte compensazione politica in quanto ha garantito a forze che non hanno mai avuto accesso al governo nazionale di diventare protagoniste sul territorio. 

In un simile contesto le previsioni del Titolo V della Costituzione trovarono, quindi, le condizioni favorevoli alla loro attuazione con netto ritardo rispetto alle tempistiche previste dalle disposizioni transitorie e peraltro in un contesto sociale, economico e politico profondamente mutato.

Alla analisi delle norme Costituzionali inerenti alla distribuzione delle funzioni amministrative si rende necessario effettuare una presa d’atto. Infatti, dalla lettura della Costituzione approvata nel 1948 è possibile evincere il ruolo che, nel pensiero dei Costituenti, avrebbero avuto le Regioni rispetto agli altri enti locali: un ruolo legislativo, di pianificazione, programmazione, coordinamento ma non – strictu sensu – amministrativo, quest’ultimo destinato ad appartenere ad una amministrazione radicata prevalentemente a livello locale.

Questa considerazione trova conferma nell’articolo 118 comma 1 il quale sanciva il c.d. parallelismo delle funzioni: le Regioni avevano competenze amministrative nelle materie in cui avevano competenza legislativa concorrente ai sensi dell’articolo 117. Il parallelismo era, sostanzialmente, tra una competenza legislativa e una competenza amministrativa.

Giova specificare che l’appena citato parallelismo delle funzioni subiva, però, ai sensi dei commi successivi tre deroghe, in quanto: lo stesso articolo 118, comma 1, dopo aver enunciato il suddetto principio del parallelismo concludeva la disposizione con una deroga: “… salvo quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere attribuite dalle leggi della repubblica alle province ai comuni o ad altri enti locali”. Quindi, nel trasferimento tra Stato e Regioni di funzioni amministrative, quando queste ultime toccavano funzioni con una dimensione dell’interesse esclusivamente locale, erano attribuite verso il basso agli altri enti diversi dalla Regione; ancora, il comma 2 dell’articolo 118 stabiliva che “Lo Stato può con legge delegare alla regione l’esercizio di altre funzioni amministrative”. In tal caso è bene sottolineare il concetto di delega, evocativa della titolarità del potere allo Stato, il quale anziché esercitarlo direttamente lo delegava – senza trasferirlo – alle Regioni.     In queste prime due deroghe è possibile individuare tre “titoli di conferimento”: trasferimento, attribuzione e, appunto, delega.

Infine, il terzo comma dell’articolo 118, poneva la deroga che maggiormente evidenzia come, nella mente dei Costituenti, il potere amministrativo dovesse concentrarsi maggiormente a livello locale piuttosto che a livello regionale: “La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”. Alla luce di questa disposizione anche quando le Regioni erano destinatarie di trasferimento di funzioni da parte dello Stato, avrebbero dovuto esercitarle non direttamente ma o avvalendosi degli uffici degli enti locali o delegandole nei confronti di questi ultimi.

Dalla lettura complessiva dell’articolo 118 della Costituzione, il principio del parallelismo delle funzioni subiva un forte ridimensionamento, evidenziando l’idea di una amministrazione radicata nelle sedi più vicine al cittadino.

Sul quadro costituzionale appena delineato, intervenne un rapido cambio di passo della politica. Si è già detto in apertura, infatti, della lentezza del processo di attuazione della Costituzione che ha contraddistinto i quarant’ anni successivi alla entrata in vigore della stessa.

Bene, di talché può parlarsi, però, fino agli anni ’90, periodo nel quale è rinvenibile una vera e propria (forse frenetica?) accelerazione sul tema delle autonomie. Potrebbe dirsi che, la consapevolezza del costante ritardo accumulato negli anni[6], abbia portato il legislatore ad effettuare una sorta di “sorpasso a destra” al sistema vigente prima con la legge 8 giugno 1990 n. 142 ma soprattutto dopo con le leggi Bassanini. Tale metaforico sorpasso, poi, ha trovato il suo compimento nella riforma del Titolo V avvenuta nel 2001.

 Procedendo con ordine: nel 1990 si giunse alla approvazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 destinata a dettare – a ben cinquantasei anni di distanza dall’ultimo intervento – un nuovo ordinamento per le autonomie locali.

L’impianto della legge in parola delineava un sistema comunale e provinciale fondato su alcuni principi cardine: questi vennero configurati come enti autonomi, rappresentativi e a fini generali con conseguente autonomia inerente al profilo organizzativo e politico – amministrativo. Ancora, venne riconosciuta la possibilità per Comuni e Province di dotarsi di propri Statuti, approvati dai rispettivi Consigli e aventi ad oggetto le norme fondamentali per il funzionamento dell’ente come le attribuzioni degli organi, l’ordinamento dei servizi pubblici e degli uffici.

In tal maniera venne meno quella omogeneità e standardizzazione che avevano caratterizzato fino ad allora gli enti locali italiani, per quanto all’interno di una intelaiatura tutt’altro che mobile prevedente quali organi di governo il Consiglio, organo elettivo, e la Giunta quale organo collegiale esecutivo nonché – rispettivamente per la Provincia e per il Comune – come organi monocratici il Presidente e il Sindaco. Ancora, la  legge in parola pose in essere una  differenziazione circa le  funzioni  tra  gli  organi: al Consiglio venne attribuito  un  ruolo  di  controllo  e di indirizzo mentre alla Giunta era assegnata la c.d. “competenza  generale  e residuale”, ovverosia una competenza su tutti quegli atti che la legge non affida espressamente al Consiglio; al Presidente della Provincia venne, infine, attribuito il ruolo di appresentante dell’ente, convoca e presiede il Consiglio e la Giunta, sovrintendendo, inoltre, al funzionamento dei servizi e degli uffici[7].

La legge 142/1990 riconobbe, inoltre, a Province e Comuni autonomia finanziaria e potestà impositiva autonoma, in parte disciplinata da propri regolamenti[8]: al precedente schema di completa dipendenza finanziaria dallo Stato, venne a sostituirsi, così, un sistema che agglomerava finanza trasferita e finanza autonoma.

Ancora, merita menzione il Capo V, il quale trattava specificatamente il tema delle funzioni delle Province con compiti di programmazione e gestione delle funzioni amministrative relative ad una serie di settori quali, tra gli altri, la difesa del suolo e dell’ambiente, i beni culturali, la viabilità, il trasporto, parchi e protezione della fauna.

A quanto appena detto deve far seguito una necessaria riflessione, però: la legge in oggetto, pur determinando ambiti di competenza provinciale, individuando settori di materie, sembrava rinunciare a specificare le funzioni. Tale aspetto, a parere di chi scrive, ha rappresentato uno degli aspetti della recessione, successiva, dell’ente provincia rispetto all’istituendo ente Città Metropolitana.

Nel 1996, il primo governo Prodi, conscio del non avere in Parlamento i numeri adatti per riformare il testo costituzionale, procedette ad una riforma a Costituzione invariata, spingendo il più possibile l’acceleratore sugli “strumenti” di decentramento offerti dalla Costituzione vigente. Il risultato di questo progetto scaturì nella legge 15 marzo 1997, n. 59. Risulta particolarmente interessante rilevare alcuni aspetti caratterizzanti la legge delega in parola: l’articolo 1, comma 1, in un’ottica che poggiava fortemente sul federalismo amministrativo, ricomprendeva nell’unico concetto di “conferimento delle funzioni” i fenomeni di “trasferimento, delega, attribuzione”.

Ancora, il legislatore intese capovolgere la prospettiva fino ad allora imperante, attraverso una tecnica riconducibile al riparto di competenze negli stati federali – c.d. clausola residuale generale – consistente nella enumerazione espressa delle sole competenze spettanti al livello di governo superiore, considerando che tutto il resto rimanga o sia conferito agli enti territoriali. Risulta particolarmente premonitore della futura riforma costituzionale del 2001 l’articolo 4 della legge 59/97, ai sensi del quale nelle materie di cui all’articolo 117 della Costituzione – alla luce del parallelismo – i singoli ordinamenti regionali dovevano conferire le funzioni che non richiedevano un esercizio unitario alle Province, ai Comuni e agli altri enti locali.

Il successivo d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 portò, poi, ad una ulteriore evoluzione del titolo di conferimento, utilizzando prevalentemente i titoli del trasferimento e dell’attribuzione in luogo della meno solenne delega. I principi ispiratori del c.d. terzo decentramento sono stati il principio di sussidiarietà, il quale postula l’allocazione delle funzioni al livello più prossimo al cittadino; il principio di adeguatezza, che si accompagna al principio di sussidiarietà, ricalcando l’adeguatezza dell’ente destinatario della funzione ad esercitarla; il principio di cooperazione; differenziazione nella allocazione delle funzioni, alla luce delle diverse caratteristiche demografiche, territoriali nonché strutturali degli enti destinatari delle funzioni; autonomia; responsabilità ed unicità.

In definitiva, può dirsi che il terzo decentramento ha visto “costituzionalizzarsi” nella riforma del titolo V ad opera della legge cost. 3/2001: il primi due commi del “nuovo” articolo 118 stabiliscono, infatti, che: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per salvaguardare l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” e che “i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite dalla lege statale o regionale, secondo le rispettive competenze.”

Il primo comma pare fissare la regola e, poi, le eccezioni. La norma in parola non fa riferimento a specifiche funzioni amministrative ma – in ossequio al principio di sussidiarietà – riconosce l’allocazione delle funzioni amministrative – in prima battuta – a livello locale.  La prima eccezione è rinvenibile tutta in quel “salvo che…” foriero di una logica sussidiaria che dal basso può salire verso l’altro per “salvaguardarne l’esercizio unitario”. La struttura dell’articolo 118 riprende quella dell’articolo 114 che prevede una scala ascendente degli enti quali soggetti dell’autonomia.

Sono da menzionare, inoltre, i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Successivamente, il secondo comma dell’articolo 118 dispone che i Comuni, Province e Città Metropolitane sono titolari di funzioni “proprie”. Tali funzioni sono quelle che tali enti hanno storicamente esercitato: queste funzioni possono essere assunte spontaneamente, ponendosi come ulteriori rispetto alle funzioni fondamentali. Diverso discorso riguarda, invece, le funzioni conferite, in quanto queste sono funzioni oggetto di materie di competenza legislativa statale o regionale.

Nel conferimento, Stato e Regioni devono avere quale bussola i principi già citati di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Dalla breve analisi appena effettuata è possibile dedurre che la riforma del 2001 appare molto avanzata sul piano del rafforzamento delle autonomie ma, è bene specificarlo, alle disposizioni costituzionali è stata data scarsa attuazione. Si pensi alle funzioni fondamentali delle Province e delle Città metropolitane, individuate ben tredici anni dopo, con la legge 56/2014. Di tale intervento normativo si tratterà nel proseguo.

2.1 Una premessa di sistema: il variegato mondo locale e la tutela Costituzionale inerente solo alcuni e non tutti gli enti locali. Un confronto tra la Costituzione ed il Tuel.

Il nostro Paese è stato caratterizzato, sin da prima dell’unità, da rilevantissime forme di governo locale. Ciò che può dirsi essere mutato nel corso del tempo è l’approccio che il legislatore – costituzionale, prima, e ordinario, poi – ha avuto nei confronti degli enti autonomi locali.

Il panorama locale, infatti, prevede la compresente opera di un variegato insieme di soggetti.

Su un punto giova, però, sin da subito fare chiarezza: sulla differente natura riconosciuta ad alcuni solo di questi soggetti rispetto a tutti gli altri. Trattasi di una questione legata alla diversa natura e tutela costituzionale che solo alcuni di questi soggetti assumono rispetto al resto del mondo degli enti locali.

Guardando il testo della Costituzione, antecedente alla riforma del 2001, affianco alle Province e ai Comuni, era rinvenibile un richiamo espresso anche a “gli altri enti locali” (art. 118, comma 1).

Appare chiaro che anche gli stessi Costituenti avevano ben presente questa pluralità di realtà istituzionali all’interno del panorama locale. Questa considerazione gode di ancora forte attualità in relazione agli ultimi interventi normativi che hanno riguardato le Province, attraverso la legge 56/2014 e la riforma costituzionale del 2016, abortita in seguito all’esito negativo del referendum costituzionale.

Riforma, quest’ultima che nel sentire comune avrebbe, tra le altre cose, “abolito” le Province ma che, in realtà, così come approvata, non avrebbe comportato necessariamente il loro venir meno ma bensì la de-costituzionalizzazione: ovverosia la semplice espunzione della parola “Provincia” dal testo costituzionale. Questo meccanismo, a ben vedere, non aveva come inevitabile conseguenza la sparizione delle Province. 

Invero, ciò che la riforma del 2016 avrebbe fatto venir meno nei confronti dell’ente Provincia è la previsione costituzionale e le garanzie proprie degli enti costituzionalmente contemplati.

La distinzione tra enti costituzionalmente garantiti e quelli che non godono di tale guarentigia non rappresenta un aspetto meramente formale. Infatti, nel momento in cui si discute di Comuni, Province e Città metropolitane e Regioni si fa riferimento ad enti che godono di questa tutela e copertura costituzionale alla luce dell’articolo 114 comma 1 della Costituzione – così come modificato dalla legge Costituzionale 3/2001 – ai sensi del quale “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato

Diversamente, tutti gli altri soggetti del governo locale – per quanto rilevanti e significativi – non possono essere ricondotti sotto l’egida di tale previsione. 

Ecco che allora, l’espunzione delle Province dal dettato Costituzionale ad opera della mancata riforma del 2016, aveva proprio questa funzione: far fuoriuscire l’ente provinciale dall’hortus conclusus degli enti costituzionalmente garantiti

Esempio plastico della distinzione appena effettuata è rinvenibile nelle Comunità montane: enti locali istituiti per rispondere ad alcuni contesti caratterizzati dalla natura montana del territorio. Tali enti sono stati oggetto di alcuni poteri incisivi da parte delle Regioni, fatti salvi dalla Corte costituzionale proprio perché non può ritenersi che previsioni, per quanto invasive, finiscano con l’essere lesive di una sfera di autonomia dell’ente proprio in quanto non rientranti nell’alveo degli enti costituzionalmente garantiti. Ne consegue che discorso diverso, invece, avrebbe effettuato il giudice delle leggi laddove i destinatari di simili previsioni siano stati i Comuni, le Province o le Città metropolitane.

Ancora, della distinzione cui si è fatta menzione può aversi maggiore contezza guardando alcune disposizioni del D.lgs. 267/2000, decreto che arriva poco prima della riforma costituzionale del 2001 e che ha rappresentato l’occasione di ricomporre un insieme normativo che si era stratificato nel tempo. Infatti, è possibile notare come anche il T.u.e.l. faccia riferimento all’articolo 2 circa il suo ambito di applicazione, ad una pluralità di soggetti (Comuni, Province, Città metropolitane, Comunità montane, le Comunità isolane e le Unioni di comuni).

Proprio in relazione a tale pluralità di soggetti, raffrontando il Testo unico e la Costituzione, è necessario tenere ancora ben salda la differenza tra quelli costituzionalmente garantiti e quelli che, viceversa, non lo sono: da un lato, i Comuni, le Province le Città metropolitane e, dall’altro, gli ulteriori enti menzionati dall’articolo 2.

Non solo, ci si accorgerebbe di tale elemento anche leggendo l’articolo 3[9] del Testo unico: dalla lettura dei primi tre commi si evince, infatti, che si parla di autonomia con specifico riferimento a Comuni e Province in relazione alle loro rispettive comunità, senza fare menzione degli altri soggetti di cui all’articolo 2.

Pur partendo dall’assunto che quella appena menzionata è una norma legislativa di rango primario, sarebbe difficile non considerare i Comuni, le Province e le Città metropolitane come enti chiamati a svolgere il proprio ruolo in relazione agli interessi delle loro comunità e quindi rappresentativi delle stesse. Quanto detto appare quantomeno antinomico se raffrontato a buona parte delle scelte effettuate dal legislatore con la legge 56/2014 – foriere di un certo grado di problematicità in ordine ai sistemi elettorali di cui si parlerà nel proseguo.

Sullo sfondo di tutto quanto appena asserito campeggia il principio autonomista, vero e proprio “modo d’essere[10] della Repubblica, enucleato dall’articolo 5 della Costituzione, ai sensi del quale:

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze della autonomia e del decentramento”.

Ogni singolo sintagma dell’articolo in parola è foriero di una forte rottura con il passato autarchico di stampo ottocentesco degli enti territoriali:

La Repubblica” sta a significare l’insieme delle istituzioni che la costituiscono (oggi il citato articolo 114, comma 1 rappresenta un manuale di istruzioni in tal senso).

“…riconosce e promuove le autonomie locali…”, dove “riconosce” (verbo rinvenibile anche nell’articolo 2) evidenzia l’esistenza di enti – le autonomie locali – che preesistono e di cui l’ordinamento repubblicano prende atto e riconosce ad esse una dimensione autonoma.

le autonomie locali”, sono le realtà territoriali, l’insieme dei soggetti che vive sul territorio, di cui gli enti contemplati nel titolo V (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni) sono enti esponenziali. Sono, sostanzialmente, posti “al governo” di queste comunità.

Nell’articolo 5, peraltro, appare chiara la distinzione tra autonomia degli enti locali e il diverso decentramento amministrativo nel momento in cui statuisce che la Repubblica “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”, scongiurando di fatto quella confusione tra i due concetti figlia della autarchia ottocentesca: la prima autonoma, rappresentativa della comunità di riferimento mentre il secondo appartenente allo Stato per quanto organizzativamente dislocato sul territorio. 

Ancora, l’articolo in parola – non a caso inserito nell’alveo dei principi fondamentali della Grundnorm – simboleggia il coagulo di posizioni diverse attorno ad un punto comune, rappresentato dalla volontà di affermare i principi della autonomia e del decentramento e di evitare che nella distribuzione delle competenze vada perduta l’unità del paese, che il pluralismo territoriale finisca per generare una contrapposizione istituzionale.

In tal maniera, natura unitaria dello Stato e distribuzione territoriale del potere politico vengono considerati valori tra loro complementari, due poli contrapposti ma inscindibili, dal momento che l’assetto istituzionale (Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato) risulta composto da ordinamenti autonomi, ma integrati all’interno di uno stesso sistema di valori e principi individuato dalla Costituzione[11].

Alla luce delle considerazioni fin qui effettuate appare allora lecito chiedersi la conformità tra le modifiche apportate con la legge 56/2014 con quanto appena enunciato, avendo questa effettuato delle scelte ictu oculi collidenti e non collimanti col dato Costituzionale anticipate nella introduzione del presente lavoro.

  1. La provincia e l’andamento carsico del legislatore: dalle prime tendenze alla soppressione, passando dalla legislazione emergenziale fino alla legge 56/2014

La Provincia, ente già presente fin dall’unificazione dello Stato italiano, ha visto nel corso del tempo aumentare di gran lunga il proprio numero. Non è un caso che nel 1861 le Province italiane fossero solo 59, fino a diventare 91 al sorgere della Repubblica italiana.

Tale cifra rimase sostanzialmente invariata fino agli anni 60 del secolo scorso, quando iniziarono ad aumentare fino a giungere all’incremento più corposo avvenuto nel 1992 quando furono create ulteriori otto Province[12].

In tale ultimo caso – a testimonianza dell’andamento carsico del legislatore sul tema dell’ente in parola – all’accrescimento del numero si accompagnava una nuova valorizzazione delle funzioni provinciali. Attualmente, sono rinvenibili 107 unità territoriali sovracomunali, così composte: 83 Province, 14 Città metropolitane, 6 liberi Consorzi di comuni e 4 unità non amministrative, corrispondenti alle ex Province della Regione Friuli -Venezia Giulia[13].

Ciò detto, la Provincia, ente intermedio di decentramento e deconcentrazione[14],ha trovato nella Costituzione italiana una collocazione tra gli enti territoriali che – secondo la attuale formulazione dell’articolo 114 della Costituzione – costituiscono la Repubblica. Tale importante collocazione – di rappresentatività di una comunità che non è più solamente urbana ma non ancora regionale- si presenta come lontana dalle future incertezze e contestazioni che hanno caratterizzato la Provincia sin dagli anni 60 e 70 del secolo scorso, fase in cui la regionalizzazione ha messo in discussione il loro ruolo.

In tale contesto, il dibattito e la legislazione si sono palesati ondivaghi tra tendenze alla soppressione e, al contrario, rivitalizzazione dell’ente in parola.

A testimonianza della prima tendenza è rinvenibile, nel 1976, una voce abolizionista – isolata, a dire il vero poiché appoggiata senza fortissima convinzione anche (e solo) dal Partito Liberale – proveniente dal Pri[15] il quale presentò una proposta di legge costituzionale per la soppressione dell’ente autonomo Provincia. Le motivazioni poste alla base del disegno di legge costituzionale erano varie ma una, in verità, spicca tra le altre poiché rappresentativa di un vero e proprio leitmotiv delle (future) istanze abolizionistiche dell’ente provinciale: i costi in rapporto alla resa.

In un simile contesto la Provincia fu anche definita come struttura di pura autoalimentazione[16], che il Paese non poteva più permettersi. Ad ogni modo, di tale proposta non si iniziò nemmeno a discutere in quanto i partiti, infatti, la consideravano come una risorsa di non poco momento per il controllo del territorio.

L’andamento carsico del legislatore prosegue anche negli anni 90 del secolo scorso durante i quali, ad una illusoria “resurrezione” per l’ente provincia è seguita la stratificazione – nell’opinione pubblica così come nella politica – della convinzione per la quale tale ente rappresentasse “l’anello debole”, meno utile e più dispendioso e, in quanto tale, obiettivo puntato dal preciso mirino della riduzione della spesa pubblica.

Tali convincimenti sono stati manifestati anche (e addirittura) a livello sovranazionale: si pensi alla sollecitazione proveniente, nel 2011, dalla Banca Centrale Europea con la quale quest’ultima indicava al Governo italiano di assumere il prima possibile decisioni volte a migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche italiane. Tra tali misure si caldeggiava “un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi[17]”. Così, inevitabilmente, le Province sono entrate nell’obiettivo di quella legislazione emergenziale della XVI legislatura[18] il cui primario obiettivo non era, però, migliorare l’assetto locale, ma, bensì, esclusivamente quello di ridurre la spesa pubblica e contenere i costi dell’apparato istituzionale e burocratico.

 In un simile contesto, sono proliferate proposte di revisione costituzionale e decreti-legge. Di tali decreti, due hanno raggiunto la successiva conversione in legge: il primo, il d.l. 6 dicembre 2011, n. 101, con cui, volendo riassumere, la Provincia diventava ente con funzioni di mero indirizzo e coordinamento dei Comuni, governato da un consiglio e da un Presidente espressi dai comuni stessi e prova di un esecutivo collegiale [19].

Il secondo, il d.l. 6 luglio 2012, n. 95, restituiva alcune funzioni di carattere gestionale alle Province, ma soprattutto avviava il riordino delle loro circoscrizioni territoriali, che avrebbe dovuto compiersi secondo criteri fissati dal Governo, successivamente ad una procedura che prevedeva la possibilità di iniziative ed interventi delle Regioni e,  prima, dei Comuni, anche tramite i consigli delle autonomie locali, ma che comunque – anche laddove tali iniziative e interventi fossero assenti-  era destinata a concludersi in un “atto” o “provvedimento legislativo di iniziativa governativa[20]”.

Tale impianto riformatore brevemente descritto ha visto concludersi su un binario morto, da un lato, per ragioni di carattere politico – il governo Monti si è dimesso nel dicembre del 2012, senza avere la forza parlamentare per  portare a compimento le riforme avviate – e, dall’altro, per motivazioni strictu sensu giuridiche: la Corte costituzionale, infatti, con sentenza 220/2013 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 23 del d.l. 101/2011, sia degli articoli 17 e 18 del d.l. 95/2012, ponendo in evidenza la inopportunità di giungere ad una riforma organica e di sistema – con annessa violazione dell’articolo 77 della Costituzione – con strumenti normativi di natura emergenziale[21]. Su tale ultimo aspetto, giova menzionare una precedente sentenza della Corte, la sentenza n. 151/2012, la quale ha stabilito che emergenze – per quanto gravi – di carattere economico non possono giustificare indebite compressioni dell’autonomia costituzionalmente garantita[22].

3.1. La legge 7 aprile 2014, n. 56. I rischi e le contraddizioni di una legge ordinaria formale che anticipa l’attuazione di una (fallita) riforma Costituzionale. 

L’onda riformatrice è ripresa a seguito della approvazione della legge 7 aprile 2014, n. 54 (c.d. Legge Delrio). Il legislatore, questa volta, seguendo il monito del Giudice delle leggi, ha seguito il percorso della legislazione ordinaria. La legge in parola si muove su molteplici direttrici – istituzione delle Città Metropolitane, adozione di misure dirette alla promozione delle Unioni e fusioni di Comuni – ma l’obiettivo precipuo del legislatore porta il nome delle Province, della cui soppressione si dibatteva, come visto, sin dagli anni Settanta del secolo scorso. L’opera di riforma, però, soffre – tra le altre – di insanabili contraddizioni e rischi: la legge Delrio, nei fatti, attua “in anticipo” la riforma costituzionale presente nella agenda politica del Governo Renzi.

A testimonianza di quanto appena detto milita la versione originaria del testo del Ddl Delrio, il quale chiariva all’articolo 1, comma 3 che “Le Province, fino alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale ad esse relativa, sono enti territoriali di secondo livello…[23].

Ancora, la riforma delle Province è stata avviata, sul presupposto esplicito dell’imminente riforma Costituzionale, annunciando nell’articolo 1, comma 51 “…in attesa della riforma del Titolo V, parte II della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge”, intendendo così conferire alla disciplina che introduceva un carattere dichiaratamente transitorio. Bene, strictu sensu di transitorietà, ad oggi, non può parlarsi proprio alla luce della mancata riforma Costituzionale, bocciata il 6 dicembre 2016.

Anzi, al contrario, anziché di transitorietà sarebbe – paradossalmente – possibile parlare, de facto, di attuazione di una riforma Costituzionale mai entrata in vigore.

Appare plausibile dedurre che il legislatore, in particolare quando ha inteso fare ricorso all’articolo 138, comma 2 della Costituzione, avanzando richiesta di referendum, non abbia minimamente valutato le possibili conseguenze di una bocciatura, probabilmente per l’eccessivo ottimismo attorno alla vittoria del Sì[24].

Peraltro, come già precedentemente anticipato – a dispetto di quanto aleggiava nell’opinione pubblica – la Provincia, sarebbe stata oggetto, nel progetto riformatore, di una decostituzionalizzazione, tramite l’espunzione di ogni riferimento ad essa dalle norme costituzionali, in tal maniera derubricata da ente costituzionalmente garantito a ente per il quale, si diceva, saranno approvate leggi dello Stato per la definizione dei profili ordinamentali. Infatti, tra le norme transitorie della legge Costituzionale Renzi- Boschi è rinvenibile l’articolo 40 comma 4 ai sensi del quale “Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge Regionale. Il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione”. Se ne deduce, l’idea – addirittura specificata nella stessa legge costituzionale – della permanenza di enti di area vasta (ininfluente che si chiamino Province o in altro modo).

  • La disciplina e le novità della legge Delrio. Lo strabismo istituzionale tra Province e Città Metropolitane: funzioni e governance degli enti di area vasta.

La legge 56/2014, da un lato, ha ridisegnato in senso riduttivo le funzioni fondamentali delle Province e dall’altro ha istituito le Città metropolitane, dando vita a quello che potrebbe definirsi come un vero e proprio dualismo istituzionale.

Non sarebbe errato sostenere, secondo chi scrive, che nella mens legis le Città metropolitane si ponevano quale ente immediatamente sostitutivo delle allora abrogande Province, di cui condividono anche l’ambito territoriale, favorendo contemporaneamente la fusione dei piccoli Comuni o l’esercizio associato delle loro funzioni mediante convenzione o unione degli stessi.

Appare evidente, dalla lettura delle disposizioni della legge in parola l’intentio legislatoris di “svuotare” gli organi e le funzioni delle Province, in modo da agire propedeuticamente alla espunzione delle stesse dal testo Costituzionale[25]. L’intervento legislativo – con l’obiettivo specifico della promozione e gestione integrata dei servizi fondamentali allo sviluppo economico e sociale dell’area vasta[26] – deriva dalla ormai maturata cognizione del fatto che la frammentazione di competenze analoghe tra più enti locali costituisce un ostacolo allo sviluppo economico e sociale dell’intera area, unita alla perdurante convinzione della inadeguatezza del sistema dei tradizionali poteri locali.

La legge in parola, quindi, definisce sia la Provincia che la Città metropolitana – confermando il dualismo sopra citato – come “enti territoriali di area vasta” ma nel delineare le rispettive funzioni, esalta nella seconda, a fronte delle mere finalità istituzionali della prima, il perseguimento di finalità istituzionali generali, quali la cura e sviluppo strategico del territorio metropolitano, la promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della città metropolitana, la cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello, ivi comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee[27].

Peraltro, una riflessione si pone come necessaria: in tale sentiero tracciato dal legislatore – ordinario, in “attesa”, peraltro delusa, del costituzionale, giova sempre ribadirlo – le Città metropolitane divengono centri di titolarità di funzioni già provinciali, ascrivibili al governo di area vasta nonché di quello attribuito nell’ambito del processo di riordino delle funzioni delle Province[28] oltre alle altre funzioni fondamentali indicate dal comma 44[29] e di quelle attribuibili dallo Stato e dalle Regioni, ciascuno per le proprie competenze alla luce del principio di sussidiarietà differenziazione e adeguatezza di cui all’articolo 118, comma 1 della Costituzione.

Particolare attenzione critica merita il soprammenzionato comma 85[30] poiché – per espressa disposizione legislativa[31] – spettano alle Città metropolitane, subentrate dal primo gennaio 2015 alle Province questo blocco di funzioni. Si tratta di un blocco di funzioni ridotto all’osso, molto snellite, quindi, rispetto alle funzioni che l’articolo 19 del d.lgs. 267/2000 aveva riservato alle “vecchie” Province.

Bene l’elenco di cui al comma 85 è, comunque, tale da sollecitare talune riflessioni: in primis, l’utilizzo di espressioni che, anziché chiarire il già complesso e ingarbugliato quadro delle competenze, fanno sorgere ulteriori perplessità e legittimi dubbi sulla attribuzione delle stesse.

Esemplificativo in tal senso è “la gestione dell’edilizia scolastica” di cui alla lettera e), che non sembra, invero, limitata alla cura degli interventi nelle scuole di grado superiore – come era per le “vecchie” Province – ma che pare piuttosto riguardare, non rilevandosi alcuna specificazione né declinazione del relativo ambito, le scuole di ogni ordine e grado a condizione che, ovviamente, insistenti sul territorio provinciale[32]. Una tale ricostruzione, sostenibile alla luce di una interpretazione letterale della disposizione in esame, non appare coerente con il quadro funzionale che vede coinvolti una molteplicità di soggetti (oltre alle Città metropolitane e alle Province, altri enti del territorio chiamati ad esercitare funzioni nella materia de qua e, tra questi, soprattutto i Comuni, preposti alla gestione degli interventi delle scuole di rango primario[33]).

 Aldilà dell’esempio appena proposto, rimane il problema della esatta individuazione delle competenze che si ripropone anche con riferimento ad altre materie – spesso di ampio respiro, si pensi alla lettera f) concernente il “controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale” – dell’elenco di cui al comma 85, le quali  rendono piuttosto gravosa l’identificazione, nei relativi ambiti, di più specifiche attribuzioni provinciali con la conseguenza – o, meglio, il rischio – che le Province e le Città metropolitane –  queste ultime legittime assegnatarie – non si vedano attribuire la totalità delle competenze che tali ambiti comprendono sulle quali potrebbero intervenire, in sostituzione degli enti di area vasta, altri livelli territoriali di governo (Comuni o la stessa Regione) con conseguente nocumento al principio di sussidiarietà verticale.

Passando ora, ad analizzare le scelte della legge 56/2014 attorno alla governance degli enti di area vasta è possibile notare come questa abbia configurato la Città metropolitana e la Provincia quali organi elettivi di secondo grado e, come tali a rappresentatività attenuata, in tal modo riconoscendo solo alle Regioni e ai Comuni la diretta rappresentatività delle comunità territoriali, di cui costituiscono espressione esponenziale.

Orbene, la legge in parola individua al suo comma 7 gli organi della Città metropolitana: il Sindaco metropolitano; il Consiglio metropolitano; la Conferenza metropolitana. Di tali tre organi, l’unico a formazione costante è la Conferenza metropolitana[34]; gli altri, invece, possono variare notevolmente, a seconda delle scelte che vengano adottate dallo statuto di ciascuna Città metropolitana, abilitato ad optare in presenza di determinati presupposti – invero di difficilissima realizzazione – per un sistema ad elezione diretta sia del Sindaco metropolitano che del Consiglio metropolitano.

 Il sindaco metropolitano è – di norma – di diritto il sindaco del Comune capoluogo e ad egli spetta la rappresentanza dell’ente, convocare e presiedere il Consiglio metropolitano e la Conferenza metropolitana, sovraintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici nonché eseguire gli atti e, infine, esercitare le altre funzioni eventualmente stabilite dallo Statuto.

Il Consiglio metropolitano, invece, ha una composizione ristretta: è formato dal Sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri pari a 24 nelle Città metropolitane con popolazione superiore a tre milioni di abitanti; 18 consiglieri nelle Città metropolitane con popolazione residente superiore a ottocentomila abitanti e inferiore o pari a tre milioni; 14 consiglieri nelle altre Città metropolitane.

Ciò che maggiormente pone dei dubbi di compatibilità con il dettato costituzionale è la modalità di elezione, come anticipato indiretta, di tale organo[35]. Infatti, il Consiglio metropolitano – organo di indirizzo e controllo – è eletto dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni comprensivi la città metropolitana, tra gli stessi Sindaci e consiglieri. Se ne deduce, così, una stretta relazione tra la carica di consigliere metropolitano e quella di consigliere comunale soprattutto laddove si consideri che il comma 25[36] della legge Delrio sancisce che la decadenza dal consiglio comunale comporta la medesima conseguenza dalla carica di consigliere metropolitano. Organo rappresentante una novità per l’assetto locale italiano, è la Conferenza metropolitana, composta da tutti i sindaci del territorio metropolitano. Tale organo esercita, da un lato, attribuzioni relative in un ambito parecchio stringato e delimitato – quello deliberativo in materia di Statuto, con la sola possibilità, invero, di adottare o respingere lo stesso, senza possibilità alcuna di emendarlo – e, dall’altro, funzioni di carattere consultivo o deliberativo[37] .

Delineato brevemente l’assetto istituzionale della Città metropolitana è possibile dedurre il passaggio da un assetto tradizionale basato sul modello organo monocratico/esecutivo/assemblea ad un sistema inedito in cui vengono, si, mantenuti tre organi ma senza alcun organo collegiale esecutivo[38].

Prima di passare alla analisi della nuova configurazione quale ente di secondo grado anche della Provincia, giova soffermarsi sulla quasi pleonastica possibilità, quasi “concessa” dalla legge 56/2014, dell’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano. Orbene, il comma 22 stabilisce che lo statuto della città metropolitana può prevedere l’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano con il sistema elettorale che sarà determinato con legge statale. Pare essere rimessa, dunque, allo Statuto del nuovo ente la possibilità di esondare dal sentiero tracciato dal legislatore statale, optando per l’elezione diretta del Sindaco metropolitano e del Consiglio, alla condizione[39] – gravosa – della preventiva suddivisione del Comune capoluogo in più Comuni ovvero, nelle Città metropolitane con più di tre milioni di abitanti, della costituzione di zone omogenee. Appare evidente la difficoltà materiale circa la realizzazione delle condizioni poste dalla legge 56/2014 alla derogatoria elezione diretta del Sindaco metropolitano e del Consiglio.

A conclusioni non diverse porta l’analisi concernente gli organi della Provincia. Va preliminarmente chiarito che a lungo questa è stata retta da regole parallele a quelle relative ai Comuni.

La legge 56/2014 ha adottato, però, un sistema di elezione indiretta, analogo a quello delle Città metropolitane con l’unica diversità rappresentata dalla inderogabilità a favore di un modello a legittimazione diretta. Gli organi della Provincia, illustrati nei commi dal 54 al 57, sono: il Presidente, il Consiglio provinciale, l’Assemblea dei sindaci.

Aldilà delle denominazioni appare evidente, dalla lettura dei commi inerenti[40] alla disciplina di tali organi, la analogia dello schema organizzativo provinciale con quello, poco sopra analizzato, delle Città metropolitane così come analoga è la ripartizione delle attribuzioni tra questi tre organi[41].

Unici segni distintivi sono rinvenibili nella mancanza di una individuazione ex lege del Presidente della Provincia (come avviene per le città metropolitane) in quanto questo è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali, scegliendolo tra gli stessi. Sono eleggibili i sindaci il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data delle elezioni, il Presidente resta in carica per quattro anni ma decade – rinvenendosi anche qui un forte collegamento con l’ente comunale– in caso della cessazione della carica di sindaco[42].

Il Consiglio, invece, è composto dal Presidente della Provincia e da un numero di consiglieri, variabile in base alla popolazione: sedici componenti nelle Province con popolazione superiore a settecentomila abitanti, da dodici componenti nelle Province con popolazione da trecentomila a settecentomila abitanti, da dieci componenti nelle Province con popolazione fino a trecentomila abitanti. Il Consiglio provinciale è organo elettivo di secondo grado e dura in carica due anni. Hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei comuni della provincia e, inoltre, la cessazione dalla carica comunale comporta la decadenza da consigliere provinciale.

Da quanto fin ora detto può dirsi che malgrado le molte affinità esistenti tra Città metropolitane e Province –foriere di un forte dualismo tra i due governi di area vasta – con riferimento alla loro governance e alla titolarità di funzioni fondamentali ex art. 117 comma 2, lettera p) della Costituzione, i due enti, nelle intenzioni del legislatore del 2014 appaiono segnati da un opposto e divaricato destino[43] in quanto, le prime, vengono concepite come enti di area vasta a copertura costituzionale permanente, mentre le seconde godono (godevano) di una copertura costituzionale, ma solo nella mens legis, in via di esaurimento.

  • Sulla elezione indiretta di secondo grado delle città metropolitane: profili problematici della coincidenza tra Sindaco metropolitano e sindaco del Comune capoluogo.

L’introduzione di un sistema di governo di secondo livello per le Città metropolitane e per le Province è stata oggetto di vivacissime polemiche che ne contestavano – e ne contestano – la stessa legittimità costituzionale.

L’interrogativo fondamentale verte sulla configurabilità di enti territoriali, costitutivi della Repubblica, ex articolo 114 della Costituzione, quali la Città metropolitana/Provincia, che non siano direttamente rappresentativi delle comunità locali di riferimento.

 In altri termini, posto che lo Stato può ben regolare gli organi fondamentali degli enti locali e la loro elezione ex art. 117, comma 2, lettera p), resta comunque controverso se la Costituzione imponga che l’organo fondamentale – il Consiglio – sia eletto direttamente dal corpo elettorale oppure se consenta che questo possa essere eletto indirettamente dai consigli comunali[44].

 Sullo sfondo, la paventata incompatibilità di tale sistema di elezione di secondo grado con i principi costituzionali di autonomia, democraticità che hanno portato al ricorso alla Consulta su cui ci si soffermerà nel proseguo del presente lavoro.  Giova qui anticipare, però, la difficile comprensione della scelta inerente alla coincidenza, di diritto, tra Sindaco metropolitano e Sindaco del Comune capoluogo che porterebbe ad una sorta di “protettorato” del Comune capoluogo, in tale ottica, indirettamente primus inter pares rispetto agli altri Comuni dell’area metropolitana, chiamato però a giocare un ruolo nella composizione degli altri organi dell’ente metropolitano[45].

Ancora, siffatto sistema comporta che i cittadini degli altri Comuni appartenenti all’ente metropolitano vedono calarsi dall’altro, ex lege, un organo che ad essi non appare riferibile non solo direttamente ma nemmeno – ancor più grave – indirettamente. Sembra in tal maniera palesarsi una violazione del principio democratico e di rappresentatività: un sindaco metropolitano – rappresentativo dell’intera area metropolitana, esponenziale di comunità – che viene eletto dai cittadini di un solo Comune.

Appare opportuno allora chiedersi in che maniera il Sindaco del capoluogo possa rappresentare anche i cittadini di altri Comuni, alla luce dell’automatico[46] affidamento della sua elezione ai (soli) cittadini residenti nel Comune capoluogo.

  • Democrazia e rappresentanza. La Provincia dopo la legge 56/2014: da casa delle comunità a casa dei Comuni?

La Provincia è, storicamente, ente rappresentativo della comunità, alla luce dell’articolo 114 della Costituzione nonché del principio autonomistico sancito dall’articolo 5 della stessa Grundnorm

Proprio quest’ultimo principio si pone come intrinsecamente connesso con il carattere rappresentativo – democratico degli enti di cui si articola l’organizzazione territoriale del nostro ordinamento, elevando così gli organi di tali enti – proprio perché scelti direttamente dai cittadini della comunità – come deputati a definire l’indirizzo politico – amministrativo.  

Infatti, se la Repubblica italiana è democratica e se, ai sensi dell’articolo 114 della Costituzione è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, diretto corollario di tale disposizione è il seguente: ciascuno di tali enti costitutivi della Repubblica deve essere a sua volta “democratico”, ovverosia organizzato in guisa da rispecchiare il principio di sovranità popolare.

Le Province, inoltre, si sono storicamente consolidate quali unità esponenziali di tutti i cittadini che convivono in una dimensione territoriale di area vasta, costituita da una pluralità di Comuni contigui, con un proprio capoluogo, tutti legati da alcuni interessi comuni per il fatto stesso della stabile convivenza territoriale.

Queste realtà, originariamente contrassegnate in una visione autarchica  soprattutto da una pluralità di articolazioni periferiche statuali di identica circoscrizione territoriale (a partire dalle Prefetture), si sono progressivamente affrancate da questa configurazione strictu sensu statalista, acquisendo così nel tempo una specifica identità comunitaria, qualificata dalla residenza nel medesimo territorio e dal riferimento ad interessi comuni facenti capo ad una istituzione rappresentativa della collettività (analogamente a quanto storicamente avvenuto per i Comuni e, per certi versi, pure per le Regioni, di massima espressive di identità comunitarie territoriali)[47]

Quanto appena riportato viene totalmente sconfessato dalla riforma Delrio, la quale, come precedentemente evidenziato, a differenza della disciplina abrogata che prevedeva l’elezione diretta del Presidente e del Consiglio, attribuisce alle “nuove” Province una struttura fondata su tre organi – Presidente, Consiglio provinciale, Assemblea dei sindaci – per la designazione dei cui componenti hanno un apporto fondamentale e caratterizzante i Comuni[48].

Tale procedimento di elezione di secondo grado, in base al quale il diritto di elettorato spetta ad un numero ristretto di amministratori pubblici, comporta una menomazione nel collegamento con i cittadini- amministrati. 

Peraltro, non appare coerente con la sopra evidenziata natura delle Province quali enti costitutivi della Repubblica, dotati di autonomia e proprie funzioni, la loro trasformazione in enti ormai strumentali ai Comuni e, conseguentemente, privi di una propria identità politico- amministrativa.

A parere di chi scrive, infatti, tale configurazione dell’ente Provinciale “tradisce” tout court l’assetto autonomista enfaticamente proposto dalla riforma costituzionale del 2001, rappresentando, al più, un ritorno all’antico, proprio perché una siffatta configurazione appare meglio confacente al vecchio testo dell’articolo 114, ai sensi del quale la Repubblica era ripartita in Stato, Regioni, Province e Comuni. 

 Ancora, la poco sopra menzionata strumentalità appare ancor più evidenziata dalla circostanza per la quale i “rappresentanti intermedi”, Sindaci e Consiglieri comunali dei comuni inclusi nel territorio della Provincia, sono amministratori di enti diversi dalle Province, le cui funzioni non coincidono con quelle di area vasta: sostanzialmente una siffatta configurazione degli organi politici provinciali comporta il delineare la Provincia come una sorta di “associazione tra Comuni”, gestita da amministrazioni comunali, scelti da altri amministratori comunali.

Peraltro – non da sottovalutare – è il verbo della Corte Costituzionale[49]  in cui, occupandosi di ricostruire il rapporto tra principio della sovranità popolare ed il sistema delle autonomie territoriali – facendo emergere l’affermazione netta secondo cui le autonomie territoriali concorrono a “plasmare l’essenza[50]” del principio democratico e della sovranità popolare essendo parte integrante di quei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico attraverso i quali i due principi si affermano e si sviluppano – si è espressa nei termini che seguono: “…si deve in proposito osservare che il legame Parlamento-sovranità popolare costituisce inconfutabilmente un portato dei principi democratico-rappresentativi, ma non descrive i termini di una relazione di identità, sicché la tesi per la quale, secondo la nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la sovranità popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a plasmarne l’essenza, non può essere condivisa nella sua assolutezza. Sebbene il nuovo orizzonte dell’Europa e il processo di integrazione sovranazionale nel quale l’Italia é impegnata abbiano agito in profondità sul principio di sovranità, nuovamente orientandolo ed immettendovi virtualità interpretative non tutte interamente predicibili, un apparato concettuale largamente consolidato nel nostro diritto costituzionale consente di procedere, proprio sui temi connessi alla sovranità, da alcuni punti fermi. L’articolo 1 della Costituzione, nello stabilire, con formulazione netta e definitiva, che la sovranità “appartiene” al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali. Per quanto riguarda queste ultime, risale alla Costituente la visione per la quale esse sono a loro volta partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all’affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare.”

Alle perplessità appena richiamate si aggiungono quelle inerenti alla dubbia compatibilità della riforma in parola con il dettato della Carta Europea dell’autonomia locale[51]. Infatti, tra la Carta[52] in parola e la legge Delrio traspare una evidente antinomia laddove la prima, in difformità dalle modalità elettive definite dalla seconda, precisa, da un lato, nel Preambolo che “le collettività locali costituiscono uno dei principali fondamenti di un regime democratico, richiedendo che l’esistenza di collettività locali dotate di organi decisionali democraticamente costituiti, che beneficino di una vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, modalità di esercizio delle stesse, ed i mezzi necessari all’espletamento dei loro compiti istituzionali[53] e, dall’altro che “per autonomia locale deve intendersi il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante degli affari pubblici e che tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituite da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti[54]

Il chiaro tenore letterale della disposizione pattizia appena ricordata non lascerebbe scampo alla legge 56/2014 dalla quale vien fuori una forma di governo in cui gli organi provinciali non sono eletti direttamente; non sono eletti a suffragio universale né, tantomeno, sono legati tra loro da un rapporto di fiducia[55].

  • La sovrapposizione tra Province e Città metropolitane dal punto di vista territoriale

Il legislatore del 2014, istituendo le Città metropolitane, ha dovuto affrontare anche il problema – invero noto anche alle esperienze straniere – della individuazione dell’area su cui insiste la Città metropolitana, ente di governo diverso dal Comune ma anche dalla Provincia. 

Come osservato da parte della dottrina[56], la delimitazione del territorio metropolitano è questione assai complessa nel dibattito italiano, nel quale – a lungo – urbanisti, sociologi, politologi, giuristi si sono divisi, per sintetizzare in termini non propriamente eleganti, in sostenitori di una perimetrazione di area vasta, estesa dunque all’intero bacino di territori e i sostenitori di una delimitazione circoscritta al solo ambito urbanizzato e edificato, senza soluzione di continuità.

Le Città metropolitane, determinandosi in relazione ai rapporti di forte integrazione tra un Comune ed il suo hinterland dovrebbero, infatti, essere una forma di risposta istituzionale differenziata per alcune aree che hanno delle specifiche caratteristiche, in quanto tali aree sono caratterizzate da elementi di forte integrazione di carattere non solo territoriale ma anche economica, di trasporti.

Orbene, il legislatore, attraverso la legge 56/2014, compie una operazione assolutamente comprensibile (solo) dal punto di vista politico: fa coincidere l’area metropolitana con la provincia attuale, ai sensi del comma 6 dell’art.1[57]

In sede di prima attuazione, infatti, si prevede un’automatica corrispondenza tra territorio della Città metropolitana istituita e territorio della Provincia sostituita.

Ciò non toglie, però, che l’ambito dimensionale delle Città metropolitane così delineato possa subire una revisione, secondo un procedimento appositamente previsto nella disposizione citata. Si tratta di un procedimento che sembra poter portare ad una modifica territoriale solo in un unico senso, ossia ampliando i confini della Città metropolitana, e non nel senso inverso[58].

Infatti, i Comuni delle Province limitrofe, anche quelli capoluogo, possono aderire alla Città metropolitana proponendo la modifica delle circoscrizioni elettorali mediante il ricorso all’art. 133, comma 1, Cost. 

Giova chiedersi se possa essere ipotizzato un percorso contrario, ossia una iniziativa comunale diretta a permettere la fuoriuscita di uno o più comuni dalla Città metropolitana.

La legge 56/2014, non prevedendo tale possibilità, sembra costruire una “gabbia” senza uscite principali- né tantomeno di sicurezza – dalla Città metropolitana per i Comuni che ne fanno parte.

Ancora, il dato legislativo di cui all’articolo 6 della legge 56/2014, questa volta, non pare effettivamente considerare il dato fattuale per il quale il territorio provinciale non sembra – quantomeno in tutti i casi – poter combaciare con le caratteristiche proprie del territorio che dovrebbe attagliarsi al concetto di Città metropolitana. 

Emblematico, in tal senso è il caso della Città metropolitana di Roma. Non si possono considerare tutti e 118 i comuni che ne fanno parte come metropolitani, anche e soprattutto per caratteristiche territoriali, di trasporti. 

Sullo sfondo di quanto fino ad ora asserito, la vexata quaestio della potestà statale o regionale sulla perimetrazione territoriale delle Città metropolitane la quale si collega alla ulteriore questione inerente alla potestà legislativa statale o regionale nell’istituzione delle Città metropolitane, di cui non si tratterà, non solo, per la complessità e delicatezza della tematica, ma anche, perché tematica che esula dal thema tractandum.

  1. La legge 56/2014 e il sistema di governo di secondo grado davanti alla Consulta

L’insieme delle criticità esposte, hanno indotto le Regioni Lombardia, Campania, Veneto e Puglia a sollevare censure di incostituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale, la quale con sentenza 26 marzo 2015, n. 50, ha emanato una pronuncia molto attesa in un momento – va detto – di avanzamento della riforma soprattutto per ciò che concerneva l’iter costitutivo[59] delle Città metropolitane[60].

Orbene, l’introduzione di un sistema di governo di secondo grado per le Province e Città metropolitane è stata oggetto di vivacissimi dibattiti inerenti alla legittimità costituzionale.

La Consulta, con la sentenza 26 marzo 2015, n. 50, ha ritenuto non fondate le questioni sollevate dalle sopra citate Regioni. La sentenza è stata oggetto di pesanti critiche in ordine alla debolezza argomentativa che la contraddistingue[61].

In primis, come sopra evidenziato, l’elezione di secondo grado sembra arrecare nocumento al principio autonomistico nonché a quello di rappresentatività della comunità di cui Città metropolitana a Provincia sono esponenziali.

Riguardo alla prima, non si vede perché la legge n. 56/2014 preveda che l’elezione del Sindaco – il quale dovrebbe rappresentare tutti, e non solo una parte, degli abitanti della città metropolitana – sia affidata appunto non a tutti gli abitanti stessi, e nemmeno alla maggioranza di questi (cioè gli esterni al Capoluogo), ma addirittura in maniera automatica ai soli cittadini maggiorenni residenti nel Comune capoluogo, ossia alla minoranza dei cittadini residenti nella Città metropolitana.

Certamente, non appare come democratica l’elezione del Sindaco se ad essa non partecipano tutti i cittadini di tutti i Comuni. Non a torto, in ogni caso, le Regioni lamentavano che «nessuno dei tre organi rappresentativi è espressione della volontà popolare diretta[62]».

La Corte ha ritenuto che la legge n. 56/2014 «supera il vaglio di costituzionalità» perché – e qui il perché è assolutamente decisivo – «La natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’art. 114 Cost., come “costitutivi della Repubblica”, ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’art. 5 Cost. non implicano, infatti, ciò che le ricorrenti pretendono di desumerne, e cioè l’automatica indispensabilità che gli organi di governo di tutti questi enti siano direttamente eletti». Su queste basi la Corte ha avuto, poi, buon gioco nel richiamare sue precedenti decisioni, volte a confermare la «possibilità di diversificare i modelli di rappresentanza politica ai vari livelli» e «la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico»[63].

Volendo sintetizzare le argomentazioni attraverso le quali la Corte ha fatto salva la legge Delrio, potrebbero menzionarsi le seguenti: il principio di sovranità popolare non si identifica ineludibilmente con gli istituti di democrazia diretta, né il carattere autonomistico degli enti comportano automaticamente l’indispensabile assunto per cui questi enti siano direttamente eletti; i diversi livelli del governo territoriale non sono necessariamente equiparati, potendo essere diversificati in ossequio ai principi costituzionali di adeguatezza e differenziazione[64]; la Corte, affermando la compatibilità del meccanismo di elezione di secondo grado con il principio democratico e quello autonomistico, da un lato,  pone in essere un quantomeno forzato riferimento alla elezione del Presidente della Repubblica[65] e, dall’altro, pone quale condizione di ammissibilità della elezione di secondo grado la presenza di meccanismi alternativi che assicurino una effettiva partecipazione dei soggetti coinvolti[66].

A parere di chi scrive, il riferimento al Capo dello Stato appare quantomeno inopportuno per due ordini di motivi: in primis, il Presidente della Repubblica non è certo ontologicamente  un organo di amministrazione attiva e, in secundis, egli è attualmente parte di una forma di governo nella quale il Parlamento, punta del compasso del sistema, ha legittimazione democratica diretta ed è legato da un rapporto di fiducia con il Governo.

 Sullo specifico tema della forma di governo le risposte della Corte appaiono come “fuori fuoco”: le Regioni ricorrenti, infatti, sulla scorta dei rilievi critici avanzati da buona parte della dottrina maggiormente attenta alla legge 56/2014, non avevano affatto evidenziato la illegittimità tout court di ogni sistema elettorale di secondo grado ma, piuttosto, l’illegittimità di un sistema elettorale, a Costituzione invariata, in virtù del quale tutti gli organi (decisivi) di governo dell’ente di area vasta sono eletti indirettamente  ed in cui la cittadinanza non ha alcuno strumento per far valere un giudizio di responsabilità politica su detti organi[67].

 In conclusione, non può negarsi l’enorme influenza che ha avuto sul giudizio della Corte la incompletezza – nell’attesa della presumibile decostituzionalizzazione dell’ente Provincia – del processo riformatore nel momento in cui questa ha emanato la sentenza 50/2015.

Ma, con buona pace del processo riformatore, la legge 56/2014 avrebbe dovuto essere sottoposta al vaglio della Corte alla luce del vigente articolo 114 e non certo di una futuribile modifica al testo Costituzionale. In un momento storico in cui il rischio di assopire il principio democratico inizia ad assumere preoccupante consistenza[68], la partecipazione democratica del 4 dicembre 2016 avrebbe meritato – e oggi ancora più di ieri – merita ben altra considerazione.

  1. Le prospettive di riforma della legge 56/2014 alla luce delle proposte in sede governativa

La bocciatura referendaria del 4 dicembre del 2016 nonché le criticità di cui la legge 56/2014, che nel corso del presente lavoro si è cercato di evidenziare, hanno portato parte della dottrina ed il legislatore ad elaborare soluzioni al deficit democratico e ad una vera modifica della stessa, in modo da adeguarla all’attuale assetto Costituzionale.

Invero, con tutte le sue criticità, la legge Delrio risultava coerente, come più volte specificato, rispetto alla prospettiva della decostituzionalizzazione dell’ente provincia perseguita con la abortita riforma costituzionale. Il risultato di quanto appena esposto è la configurazione di una Provincia “mutilata” in via legislativa ma, al contrario, sana e integra sul piano Costituzionale.

Gioco forza è il bivio in cui il legislatore viene a trovarsi ma, comunque, con un auspicabile punto fermo: non appare possibile, alla luce della transitorietà e della mancanza di un fermo e univoco addentellato costituzionale, che l’opera di revisione del Tuel possa tradursi in un mero coordinamento normativo tra le disposizioni sulle province del Testo unico, in larga parte superate, rispetto a quelle della l. n. 56/2014 [69].

Ad ogni modo il legislatore si troverà, come sopra accennato difronte ad un bivio: l’accantonamento della legge 56/2014 magari nell’ottica di un ritorno della Provincia quale ente rappresentativo della comunità di riferimento o, al contrario, affidare al Governo una rivisitazione della l. n. 56, ma nel solco dei tratti caratterizzanti introdotti nel 2014, a partire dalla connotazione della provincia quale ente di secondo grado, rappresentativo delle istituzioni locali di base.

Il legislatore appare orientato, sulla base del Ddl di riforma, per la seconda possibilità[70].

Sul piano delle funzioni dell’ente di area vasta, il Ddl persegue un’ottica di potenziamento, in netta controtendenza con la legge 56/2014, ma – va detto- pur sempre sotto il condizionamento del contesto normativo nel quale va ad operare, la legge 56, appunto.

Appare quantomai opportuna la rivitalizzazione dell’ente provinciale sotto il punto di vista della pianificazione strategica, di promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, di realizzazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici. Così come appare opportuna la maggiormente dettagliata e comprensiva individuazione dei compiti fondamentali in materia ambientale, che storicamente ha caratterizzato l’esperienza provinciale[71].

Sempre nell’alveo delle modifiche inerenti all’ambito provinciale, appare apprezzabile anche il riallineamento delle cadenze temporali tra i mandati di Presidente e del Consiglio nonché la reintroduzione della giunta provinciale, a supporto dell’azione di governo dell’ente, previsti rispettivamente dall’articolo 11, lettera n) e h).

Venendo, ora, alle Città metropolitane, va affermato che il Ddl sembra mantenere le distanze da un globale ripensamento della legge Delrio, introducendo, però la Giunta Metropolitana[72]. Rimangono sullo sfondo, tra gli altri, i problemi inerenti alla sovrapposizione territoriale ed il forte – spero sia consentito – “capoluogocentrismo” nell’elezione del Sindaco metropolitano.

  1. Il recentissimo intervento della Consulta con la sentenza n. 240 del 2021: la Corte che “stimola” il legislatore.

Proprio sull’ultima fattispecie problematica della legge 56/2014 – l’elezione ope legis del Sindaco metropolitano ad opera dei soli cittadini della Città capoluogo – è intervenuta la Corte costituzionale, adita dalla Corte di appello di Catania, con la sentenza 7 dicembre 2021, n. 240.

Giova, per completezza, fare riferimento alla già menzionata sentenza della Corte n. 50 del 2015 in cui la Consulta ritenne non incompatibile con i parametri costituzionali il meccanismo di individuazione del Sindaco metropolitano nella figura del sindaco del comune capoluogo. 

Non incompatibilità, potremmo dire, a “tempo determinato” poiché circoscritta alla “fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale”. 

Esemplificativo in tal senso è il mancato   perfezionamento   della   riforma   costituzionale – esplicitamente e inseparabilmente connessa alla legge n. 56 del 2014 – che mirava a collocare le Province fuori dal novero degli enti costitutivi della Repubblica dotati di garanzia costituzionale e identificava nella Città metropolitana l’unico ente di area vasta, con compiti di pianificazione strategica e di coordinamento di funzioni intercomunali era il presupposto normativo – come noto- non realizzatosi sul quale si basavano sia  la  legge n. 56 del 2014, sia la pronuncia costituzionale che ha giustificato in termini di non irragionevolezza il meccanismo di designazione “di diritto” del Sindaco metropolitano.

Ancora, nemmeno risulta più invocabile, a sostegno della complessiva compatibilità costituzionale di tale meccanismo di designazione il fatto che gli statuti delle Città metropolitane possano prevedere che il sindaco e il consiglio metropolitano siano eletti in via diretta «con il sistema elettorale che sarà determinato con legge statale»[73]né tantomeno, aggiunge la Corte, la legge statale che avrebbe dovuto disciplinare il nuovo sistema elettorale è mai stata approvata.

In estrema sintesi, secondo la Corte, si sono dissolte le contingenze che avevano fatto sì che la stessa, nel 2015, avesse ritenuto compatibili con il dettato costituzionale il sistema di individuazione del Sindaco metropolitano.

Non a caso secondo la Consulta, siffatto meccanismo di individuazione del Sindaco metropolitano e il differente sistema di elezione indiretta del Presidente della Provincia potevano essere giustificati in termini di ragionevolezza solo “nel presupposto di una generale diversità dei rispettivi assetti organizzativi e nella prospettiva della abolizione delle Province”. Venuto meno questo presupposto, ogni differenziato trattamento fra enti che l’art. 114 Cost. colloca, con pari dignità costituzionale, fra quelli costitutivi della Repubblica, diventa irragionevole e contrario al principio di eguaglianza e richiede anzi con urgenza un riassetto degli organi delle Città metropolitane.

Non solo, tale sistema di elezione menoma in maniera rilevante il principio di sovranità popolare e della responsabilità democratica – no taxation without rapresentation – degli organi politici.

Si badi, tali riflessioni effettuate dalla Corte si muovono comunque nell’alveo di una sentenza di inammissibilità in quanto “rientra  evidentemente  nella  discrezionalità  del  legislatore  il  compito  di  predisporre  le  soluzioni normative  in  grado  di  porre  rimedio  al  vulnus  evidenziato,  che  rischia  di  compromettere,  per  la  mancata rappresentatività dell’organo di vertice della Città metropolitana, tanto l’uguale godimento del diritto di voto dei  cittadini  destinatari  dell’esercizio  del  potere  di  indirizzo  politico-amministrativo  dell’ente,  quanto  la necessaria responsabilità politica dei suoi organi”[74].

In altre parole, la Corte chiede di introdurre un nuovo sistema di elezione del sindaco metropolitano, ma tale potere rientra unicamente nella valutazione discrezionale del Legislatore a cui la Corte non può sostituirsi.

Sic stantibus rebus non resta che attendere un intervento del legislatore su tale aspetto della legge Delrio che per tutte le motivazioni fino ad ora esposte, forse, è giunta per taluni aspetti al suo termine massimo di “scadenza”.

In conclusione la legge 56/2014 sembra, allo stato attuale delle cose,  non accontentare nessuno: da un lato, pare aver tolto alle Province qualcosa che la Costituzione attribuisce loro (rappresentatività della comunità, funzioni proprie, centralità nel governo dell’area vasta) e dall’altro, nonostante la chiara spinta verso l’introduzione dell’ente metropolitano, sembra privare queste della rappresentatività proprio il soggetto – il Sindaco metropolitano – che maggiormente dovrebbe rappresentare la popolazione della Città metropolitana.  

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[1] Le prime elezioni per il rinnovo dei consigli provinciali avvennero alla luce della legge n. 122 dell’8 Marzo 1951 recante “Norme per l’elezione dei Consigli provinciali”; il sistema elettorale adottato è di tipo misto, uninominale per i 2/3 dei seggi e proporzionale per 1/3 degli stessi (corretto in senso proporzionalistico nel 1960).

[2] IX Disp. Transitoria della Costituzione italiana: “La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”.

[3] Tutte le norme vennero poi raccolte nel “Testo Unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali” (DPR n. 570/1960) e nel successivo “Testo Unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e passivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali” (DPR n. 223/1967).

[4] F. FABRIZZI, La Provincia: storia istituzionale dell’ente locale più discusso. Dalla Assemblea costituente ad oggi, 2008.

[5] Giova precisarlo, anche alla luce del c.d. pactum ad excludendo.

[6] Giova ribadirlo, fino alla legge 142/90 le autonomie locali sono state disciplinate dai Testi Unici del 1915 e 1934, privi di qualsivoglia elemento di differenziazione. 

[7] C. BACCETTI, Il capro espiatorio. La provincia italiana nell’evoluzione del sistema politico italiano in Istituzioni del federalismo, 2014

[8] Legge 8 giugno 1990 n. 142, articolo 54.

[9] Dlgs 267/2000, Art. 3. Autonomia dei comuni e delle province:

  1. Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome.
  2. Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo.
  3. La provincia, ente locale intermedio tra comune e regione, rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo.
  4. I comuni e le province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica.
  5. I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, secondo il principio di sussidiarietà. I comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni

 

[10] Espressione utilizzata in SANDRO STAIANO, Art. 5, Carrocci editore, 2017, pag. 39

[11] G. ROLLA, L’evoluzione dello Stato regionale italiano: dalle riforme centrifughe al fallimento di quelle centripete, in Fundamentos, 2019, pag.92

[12]R. D’AMICO, Per una storia dell’ordinamento provinciale in Italia tra XVIII e XX secolo, in S. BOLGHERINI e P. MESSINA (a cura di), Oltre le Province. Enti intermedi in Italia e in Europa, Padova, 2014.

[13] https://www.istat.it

[14] L. VANDELLI, Il Sistema delle autonomie locali, Il Mulino, pag. 103.

[15] S. CIVITAVESE MATTEUCCI, La garanzia costituzionale della Provincia in Italia e le prospettive della sua trasformazione, in Istituzioni del Federalismo, 2011.

[16] C. BACCETTI, op. cit. , 2014, Cit. pag. 308

[17] Il testo della lettera è rinvenibile su Il sole 24 Ore del 29 settembre del 2011.

[18] Espressione di A. DEFFENU, Il ridimensionamento delle Province nell’epoca dell’emergenza finanziaria tra riduzione delle funzioni, soppressione dell’elezione diretta e accorpamento, in www.osservatoriosullefonti.it.

[19] C. BENETAZZO, Le Province a cinque anni dalla legge “Delrio”: profili partecipativi e funzionali-organizzativi, 2019, in Federalismi.it. 

[20] D. TRABUCCO, Il territorio delle Province: tra riordini generali e puntuali. Dal Decreto – legge n. 95/2012 alla legge ordinaria dello Stato n. 56/2014, 2015, in Federalismi.it

[21] Ibidem

[22] L. VANDELLI, Il Sistema delle autonomie locali, Il Mulino, 2020

[23] F. FABRIZZI, Il caos normativo in materia di Province, 2014, in Federalismi.it

[24] M. BERTOLISSI, G. BERGONZONI, Province. Decapitate e risorte, Giappichelli Editore, 2017, Torino. 

[25] E. FURNO, Il nuovo governo di area vasta: Province e Città metropolitane alla luce della c.d. legge Delrio nelle more della riforma costituzionale degli enti locali, in Federalismi.it

[26] F. STADERINI, P. CARRETTI, P. MILAZZO, Diritto degli enti locali, XIV ed. Padova 2014.

[27]Art. 1 comma 2, legge 7 aprile 2014, n. 56.

[28]Ai sensi dei commi che vanno dall’85 al 97 della legge 56/2014

[29]Art. 1, comma 44: “… alla città metropolitana sono attribuite le funzioni fondamentali delle province e quelle attribuite alla città metropolitana nell’ambito del processo di riordino delle funzioni delle province ai sensi dei commi da 85 a 97 del presente articolo, nonché, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, le seguenti funzioni fondamentali:

  1. adozione e aggiornamento annuale di un piano strategico triennale del territorio metropolitano, che costituisce atto di indirizzo per l’ente e per l’esercizio delle funzioni dei comuni e delle unioni di comuni compresi nel predetto territorio, anche in relazione all’esercizio di funzioni delegate o assegnate dalle regioni, nel rispetto delle leggi delle regioni nelle materie di loro competenza;
  2. pianificazione territoriale generale, ivi comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture appartenenti alla competenza della comunità metropolitana, anche fissando vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio metropolitano;
  3. strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano. D’intesa con i comuni interessati la città metropolitana può esercitare le funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive;
  4. mobilità e viabilità, anche assicurando la compatibilità e la coerenza della pianificazione urbanistica comunale nell’ambito metropolitano;
  5. promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, anche assicurando sostegno e supporto alle attività economiche e di ricerca innovative e coerenti con la vocazione della città metropolitana come delineata nel piano strategico del territorio di cui alla lettera a);
  6. promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano.

[30] “Le province di cui ai commi da 51 a 53, quali enti con funzioni di area vasta, esercitano le seguenti funzioni fondamentali:

  1. a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;
  2. b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esseinerente;

    c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;

d)raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;

  1. e) gestione dell’edilizia scolastica;

    f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale

 

[31] Legge 56/2014, articolo 16, ai sensi del quale “ Il 1º gennaio 2015 le città metropolitane subentrano alle province omonime e succedono ad esse in tutti i rapporti attivi e passivi e ne esercitano le funzioni, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica e degli obiettivi del patto di stabilità interno; alla predetta data il sindaco del comune capoluogo assume le funzioni di sindaco metropolitano e la città metropolitana opera con il proprio statuto e i propri organi, assumendo anche le funzioni proprie di cui ai commi da 44 a 46. Ove alla predetta data non sia approvato lo statuto della città metropolitana, si applica lo statuto della provincia. Le disposizioni dello statuto della provincia relative al presidente della provincia e alla giunta provinciale si applicano al sindaco metropolitano; le disposizioni relative al consiglio provinciale si applicano al consiglio metropolitano”.

[32] M.R. RICCI, La Città metropolitana nell’ordinamento giuridico italiano, 2020, Il Mulino, pag. 125

[33] Ibidem

[34] L.VANDELLI, op. cit., Il Mulino, 2020.

[35] M.R. RICCI, La Città metropolitana nell’ordinamento giuridico italiano, 2020, Il Mulino

[36] Legge 56/2014. Articolo 25: “Il consiglio metropolitano è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della città metropolitana. Sono eleggibili a consigliere metropolitano i sindaci e i consiglieri comunali in carica. La cessazione dalla carica comunale comporta la decadenza da consigliere metropolitano”.

[37] E. CARLONI, F. CORTESE, Diritto delle autonomie territoriali, CEDAM, 2021.

[38] Così L. Vandelli, Città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni, cit. pag. 60

[39] Comma 22, legge 56/2014: “È inoltre condizione necessaria, affinché si possa far luogo a elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio universale, che entro la data di indizione delle elezioni si sia proceduto ad articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni. A tal fine il comune capoluogo deve proporre la predetta articolazione territoriale, con deliberazione del consiglio comunale, adottata secondo la procedura prevista dall’articolo 6, comma 4, del testo unico. La proposta del consiglio comunale deve essere sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della città metropolitana, da effettuare sulla base delle rispettive leggi regionali, e deve essere approvata dalla maggioranza dei partecipanti al voto. È altresì necessario che la regione abbia provveduto con propria legge all’istituzione dei nuovi comuni e alla loro denominazione ai sensi dell’articolo 133 della Costituzione. In alternativa a quanto previsto dai periodi precedenti, per le sole città metropolitane con popolazione superiore a tre milioni di abitanti, è condizione necessaria, affinché si possa far luogo ad elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio universale, che lo statuto della città metropolitana preveda la costituzione di zone omogenee, ai sensi del comma 11, lettera c), e che il comune capoluogo abbia realizzato la ripartizione del proprio territorio in zone dotate di autonomia amministrativa, in coerenza con lo statuto della città metropolitana”.

[40] Commi da 54 a 57, dedicati al Presidente della Provincia

[41] A. VOLPI, D.DI MARIO, Provincia Italia. Dal Flop della legge Delrio a un vero riordino degli enti locali, 2018, Ecletica Edizioni.

[42]Articolo 1, legge 56/2014:

Comma 58. “Il presidente della provincia è eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia”.

Comma 59. “Il presidente della provincia dura in carica quattro anni.”

Comma 60. “Sono eleggibili a presidente della provincia i sindaci della provincia, il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento delle elezioni.”

Comma 61. “L’elezione avviene sulla base di presentazione di candidature, sottoscritte da almeno il 15 per cento degli aventi diritto al voto. Le candidature sono presentate presso l’ufficio elettorale appositamente costituito presso la sede della provincia dalle ore otto del ventunesimo giorno alle ore dodici del ventesimo giorno antecedente la votazione.”

Comma 62. “Il presidente della provincia è eletto con voto diretto, libero e segreto. L’elezione avviene in unica giornata presso un unico seggio elettorale costituito presso l’ufficio elettorale di cui al comma 61 dalle ore otto alle ore venti. Le schede di votazione sono fornite a cura dell’ufficio elettorale.”

Comma 63. “Ciascun elettore vota per un solo candidato alla carica di presidente della provincia. Il voto è ponderato ai sensi dei commi 33 e 34.”

Comma 64. È eletto presidente della provincia il candidato che consegue il maggior numero di voti, sulla base della ponderazione di cui ai commi 33 e 34. In caso di parità di voti, è eletto il candidato più giovane.”

Comma 65. “Il presidente della provincia decade dalla carica in caso di cessazione dalla carica di sindaco.”

Comma 66. “Il presidente della provincia può nominare un vicepresidente, scelto tra i consiglieri provinciali, stabilendo le eventuali funzioni a lui delegate e dandone immediata comunicazione al consiglio. Il vicepresidente esercita le funzioni del presidente in ogni caso in cui questi ne sia impedito. Il presidente può altresì assegnare deleghe a consiglieri provinciali, nel rispetto del principio di collegialità, secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallo statuto.”

[43] F. PIZZETTI, La legge Delrio: una grande riforma in un cantiere aperto, in rivista AIC, 2015 cit. pag. 4

[44] E. FURNO, op. cit. in Federalismi.it

[45] E. CARLONI, Differenziazione e centralismo nel nuovo ordinamento delle autonomie locali: note a margine della sentenza 50/2015.

[46] A. SPADARO, La sentenza cost. 50/2015. Una novità rilevante: talvolta la democrazia è un optional, 2015, in Rivista AIC. 

[47] G.C. DE MARTIN, La vicenda delle Province emblematica di un disegno costituzionale disatteso, 2021, in Istituzioni del federalismo.

[48] C. BENETAZZO, Le Province a cinque anni dalla legge “Delrio”: profili partecipativi e funzionali organizzativi.

[49] Sentenza n 106 del 10 aprile 2002

[50] G. SERGES, Soppressione delle Province e “temporanea” ridefinizione della loro posizione nel sistema delle autonomie locali”, in amministrazioneincammino.luiss.it

[51] V.G. BOGGERO, La conformità della riforma delle Province alla Carta europea dell’autonomia locale, 2012, in Federalismi.it

[52] Ratificata con legge 30 dicembre 1989, n. 439

[53] T.F. GIUPPONI, Verso un diritto europeo degli enti locali? Il ruolo europeo della Carta europea delle autonomie locali, in forumcostituzionale.it

[54] Articolo 3 della Carta delle autonomie locali. 

[55] M.BERTOLISSI, G. BERGONZINI, Province, decapitate e risorte, Giappichelli editore, Torino. 

[56] L. VANDELLI, Città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni, Maggioli editore, 2014

[57] Comma 6 – Estensione delle Città metropolitane

“Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia omonima, ferma restando l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe, ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione, per la modifica delle circoscrizioni provinciali limitrofe e per l’adesione alla città metropolitana. Qualora la regione interessata, entro trenta giorni dalla richiesta nell’ambito della procedura di cui al predetto articolo 133, esprima parere contrario, in tutto o in parte, con riguardo alle proposte formulate dai comuni, il Governo promuove un’intesa tra la regione e i comuni interessati, da definire entro novanta giorni dalla data di espressione del parere. In caso di mancato raggiungimento dell’intesa  entro il predetto  termine, il Consiglio dei ministri, sentita la relazione del Ministro per gli affari regionali e del Ministro dell’interno, udito il parere del presidente della regione, decide in via definitiva in   ordine all’approvazione e alla presentazione al Parlamento del disegno di legge contenente modifiche  territoriali  di province  e  di città metropolitane, ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione”. 

[58] G. PIPERATA, La città metropolitana nel sistema dei poteri pubblici secondo il giurista, in www.urbanit.it

[59] Infatti, già dal primo gennaio 2015 le Città metropolitane di Torino, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Napoli erano subentrate alle Province corrispondenti. 

[60] G. MOBILIO, Le Città Metropolitane non si toccano: la Corte costituzionale si pronuncia sulla legge Delrio, 2015, in Osservatoriosullefonti.it

[61] D. MONE, La sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2015 e la Carta europea della autonomia locale: l’obbligo di elezione diretta tra principi e disposizioni costituzionali, 2015, in www.forumcostituzionale.it

[62] Così il ricorso lombardo: n. 39/2014 in cui, tra le altre cose, si afferma: «è evidente l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 19, per violazione degli artt. 1 e 48 Cost. La norma in esame, stabilendo l’investitura di diritto del Sindaco del Comune capoluogo come Sindaco della Città metropolitana, impone agli elettori degli altri Comuni parimenti appartenenti al nuovo ente metropolitano un organo che ad essi non risulta riferibile». Analogamente, nel ricorso della Regione Veneto (n. 42/2014) si parla, fra l’altro, di un «sindaco etero-imposto agli elettori degli altri Comuni parimenti appartenenti al nuovo ente metropolitano» e di «violazione degli standard minimi di democraticità»

[63] G. MOBILIO, op. cit. 2015, in Osservatoriosullefonti.it

[64] Rinviando ad altre precedenti decisioni: Corte cost, 24 luglio 2003, n 274; Corte cost 7 novembre 2007, n. 365; Corte cost, 8 maggio 2009, n. 144.

[65] Così Corte cost, 26 marzo 2015, n. 50, punto 3.4.3. del Considerato in diritto, con riferimento alle città metropolitane. A tale motivazione la Corte rinvia, per relationem, anche nell’esaminare le analoghe questioni poste con riferimento alle Province (punto 4.3.2. del Considerato in diritto).

[66] G. BOGGERO, In attesa della riforma del Titolo V. L’attesa è finita: quid juris?  2016, in Istituzioni del Federalismo.

[67] O. CHESSA, La forma di governo provinciale nel Ddl n. 1542: profili di incostituzionalità e possibili rimedi, 2013, in Federalismi.it, pag. 11. 

[68]Come evidenziato da A. SPADARO, La sentenza cost. 50/2015. Una novità rilevante: talvolta la democrazia è un optional, 2015, in Rivista AIC, pag. 27.

[69] G. MELONI, Revisione del TUEL e attuazione delle norme costituzionali sugli enti locali in Amministrazione in cammino, 2021.

[70] Disegno di legge, delega al governo per la revisione del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e altre disposizioni per la funzionalità degli enti locali: articolo 11, alla legge 7 aprile 2014, n. 56, all’articolo 1, sono apportate le seguenti modifiche:

 lettera q) il comma 69 è sostituito dal seguente: 

“Il consiglio provinciale è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della provincia nello stesso giorno in cui è eletto il presidente della provincia. Sono eleggibili a consigliere provinciale i sindaci e i consiglieri comunali in carica. La cessazione dalla carica comunale comporta la decadenza da consigliere provinciale.”

[71] Disegno di legge, delega al governo per la revisione del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e altre disposizioni per la funzionalità degli enti locali, articolo 11, alla legge 7 aprile 2014, n. 56, sono apportate le seguenti modifiche.

  1. aa) al comma 85:

1)al primo periodo le parole “quali enti con funzioni di area vasta” sono sostituite dalle parole “oltre alle funzioni di cui alle lettere a), c), e) e f) del comma 44”;

2)la lettera a) è sostituita dalla seguente: “a) pianificazione territoriale di coordinamento e pianificazione di protezione civile”;

3)alla lettera c) sono aggiunte alla fine le seguenti parole “e gestione dell’edilizia scolastica”;

4) la lettera e) è sostituita dalla seguente: “tutela e valorizzazione dell’ambiente, inquinamento acustico, caccia e pesca nelle acque interne, protezione della flora e della fauna, organizzazione della polizia provinciale nel rispetto della legge dello Stato”.

 

[72] 1. Alla legge 7 aprile 2014, n. 56, all’articolo 1, sono apportate le seguenti modifiche:

il comma 7 è sostituito dal seguente: “7. Sono organi della città metropolitana:

  1. a) il sindaco metropolitano;
  2. la giunta metropolitana;
  3. il consiglio metropolitano;
  4. la conferenza metropolitana.”;

 

[73] G. SCACCIA, La sentenza 240 del 2021: prime note, 2021, in Federalismi.it

[74]  Sent. Corte Cost. 7 dicembre 2021, n. 240.

 

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