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La riforma del codice di comportamento dei dipendenti pubblici (dPR 62/2013) è la classica cosa con la quale o senza la quale il mondo resta tale e quale.

Di fronte alla sostanziale inanità della riforma, lo spazio riservato ad essa dai media nei giorni scorsi dà il segnale che probabilmente nelle redazioni scarseggi materiale di attualità o di cronaca.

Osserviamo alcuni dei contenuti proposti dallo schema di decreto di riforma. Un primo è un ammiccamento alle politiche “ecologiche”: “Il dipendente esercita i propri compiti nel rispetto dei principi di economicità, efficienza ed efficacia. La gestione di risorse pubbliche ai fini dello svolgimento delle attività amministrative deve seguire una logica di contenimento dei costi e del consumo energetico, dell’ecosostenibilità e di rispetto dell’ambiente, che non pregiudichi la qualità dei risultati dell’azione amministrativa”. Parole bellissime e condivisibili. Peccato che la grandissima parte delle attività connesse alla gestione delle risorse pubbliche spetti agli organi di governo e non ai dipendenti pubblici; nei pochi casi in cui ciò avventa, quando dipendenti pubblici, cioè, sono chiamati alla gestione delle risorse pubbliche, a farlo sono una parte limitatissima (dirigenti e funzionari di vertice) e, per altro, nel rigoroso rispetto delle indicazione dei bilanci di previsione, comunque approvati dagli organi politici. Vabbè: il segnale “green” è stato dato e questo piace molto alla gente che piace.

Ma il clamore maggiore nella stampa è dovuto alle regole sull’utilizzo delle tecnologie informatiche o la netiquette.

In primo luogo, si prevede che “L’amministrazione, attraverso i propri responsabili di struttura, ha facoltà di svolgere gli accertamenti necessari e adottare ogni misura atta a garantire la sicurezza e la protezione dei sistemi informatici, delle informazioni e dei dati. Le modalità di svolgimento di tali accertamenti sono stabilite mediante linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale, sentito il Garante per la protezione dei dati personali. In caso di uso di dispositivi elettronici personali, trova applicazione l’articolo 12, comma 3-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.

Bellissimo anche questo. Ma, nuovamente, peccato che si tratti di un fuori contesto. Si inserisce, infatti, nel codice di comportamento del singolo dipendente pubblico una previsione, per altro largamente ripetitiva di indicazioni già contenute nel codice dell’amministrazione digitale, rivolta invece all’amministrazione od organizzazione nel suo complesso. La sede ove riportare questa norma, quindi, avrebbe dovuto essere il Cad e non certo il dPR 62/2013. Vabbè, il segnale “tecnologico” è stato dato e questo piace alla gente che piace[1].

Poi, soprattutto, lo schema introduce regole di condotta del dipendente pubblico che utilizza i social network:

  1. È fatto divieto di utilizzare account istituzionali per fini diversi da quelli connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili nel caso in cui l’utilizzo possa compromettere la sicurezza o la reputazione dell’amministrazione. Non è consentito l’utilizzo di caselle di posta elettronica personali per le comunicazioni istituzionali salvo casi di forza maggiore.
  2. […] è fatto divieto di utilizzare strumenti informatici forniti dall’amministrazione per fini diversi da quelli connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili nel caso in cui l’utilizzo possa compromettere la sicurezza o la reputazione dell’amministrazione
  3. È vietato l’invio di messaggi di posta elettronica, all’interno o all’esterno dell’amministrazione, che siano oltraggiosi, discriminatori o che possano essere in qualunque modo fonte di responsabilità dell’amministrazione;
  4. Il dipendente utilizza gli account dei social media di cui è titolare in modo che le opinioni ivi espresse e i contenuti ivi pubblicati, propri o di terzi, non siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio o l’immagine;
  5. In ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale;
  6. È fatto, altresì, divieto, al dipendente di trattare comunicazioni, afferenti direttamente o indirettamente al servizio, attraverso conversazioni pubbliche svolte su qualsiasi piattaforma digitale;
  7. Se dalle piattaforme social siano ricavabili o espressamente indicate le qualifiche professionali o di appartenenza del dipendente, ciò costituisce elemento valutabile ai fini della gradazione della eventuale sanzione disciplinare in caso di violazione delle disposizioni dei commi 1, 2 e 3.

Tutto molto bello (cit.). Ma, l’articolo 3, comma 3, del dPR 62/2013 già sin dall’origine prevede che “Il dipendente non usa a fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni di ufficio, evita situazioni e comportamenti che possano ostacolare il corretto adempimento dei compiti o nuocere agli interessi o all’immagine della pubblica amministrazione. Prerogative e poteri pubblici sono esercitati unicamente per le finalità di interesse generale per le quali sono stati conferiti”. E l’articolo 11, comma 3, primo periodo dispone: “Il dipendente utilizza il materiale o le attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio e i servizi telematici e telefonici dell’ufficio nel rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione”.

Insomma, non c’era alcuna necessità di ritoccare il dPR 62/2013, poiché i precetti generali contenuti sul punto sono molto chiari e, per altro, specie in tema di corretto utilizzo degli strumenti informatici e di comunicazione sarebbe spettato a ciascuna singola amministrazione dettare regole di comportamento di dettaglio.

Invece, il Governo, come sempre più spesso accade, indossa la giacca del “capo ufficio” e si cimenta nell’impervia impresa di fissare regole di dettaglio. Poi, però, qualcuno si meraviglia che le PA non esercitano adeguata autonomia, dolendosi che non vi è sufficiente cultura manageriale e di direzione del “capitale umano”.

In ogni caso, qualche inquietudine l’imposizione di non far nemmeno indirettamente percepire le qualifiche professionali di appartenenza dei dipendenti qualche inquietudine la desta, specie se riferita alla libertà di manifestazione del pensiero. Se si dispone che chi utilizza i social deve evidenziare di esprimere pensieri personali non impegnativi per l’amministrazione, come si fa a non far comprendere che, allora, dipende da una certa amministrazione? E siccome la normativa anticorruzione, della quale il dPR 62/2013 è parte integrante, impone di pubblicare in internet, nella sezione Amministrazione Trasparente, nome, cognome, mail, n. di telefono, ruolo e posizione rivestiti, come si fa materialmente a rispettare il precetto?

Infine, un’ultima previsione degna di nota, in tema di divieto di discriminazioni:

  1. Il dipendente imposta la sua condotta sul luogo di lavoro al rispetto della personalità, della dignità e dell’integrità fisica e psichica degli altri dipendenti e degli utenti.
  2. Il dipendente ha l’obbligo di astenersi da azioni arbitrarie che abbiano effetti negativi sugli altri dipendenti o che comportino, nei confronti di questi ultimi, discriminazioni basate su genere, nazionalità, origine etnica, lingua, religione o credo, convinzioni personali o politiche, appartenenza a una minoranza nazionale, disabilità, condizioni sociali o di salute o di fragilità, età e orientamento sessuale.
  3. Il dipendente si astiene da ogni forma di condotta inopportuna che si realizzi attraverso comportamenti, parole, scritti, gesti e atti intenzionali che ledono la personalità, la dignità o l’integrità fisica o psichica di una persona.

Anche in questo caso, tutto condivisibile. Ma, la sensazione che ancora una volta il Governo sia sceso in un dettaglio da scansione elettronica esiste, posto che tutti i principi enucleati sono contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione. Inoltre, lo stesso dPR 62/2013 all’articolo 3, comma 5, dispone già da sempre, sia pure in modo più sintetico, esattamente gli stessi princìpi: “Nei rapporti con i destinatari dell’azione amministrativa, il dipendente assicura la piena parità di trattamento a parità di condizioni, astenendosi, altresì, da azioni arbitrarie che abbiano effetti negativi sui destinatari dell’azione amministrativa o che comportino discriminazioni basate su sesso, nazionalità, origine etnica, caratteristiche genetiche, lingua, religione o credo, convinzioni personali o politiche, appartenenza a una minoranza nazionale, disabilità, condizioni sociali o di salute, età e orientamento sessuale o su altri diversi fattori”.

Il fatto è che anche la riforma del codice di comportamento è un adempimento previsto dal Pnrr, uno degli obiettivi da raggiungere al fine dello sblocco dei finanziamenti. Il che fa appunto seriamente dubitare che sotto alcuni aspetti l’attuazione del Pnrr badi abbastanza più alla forma che alla sostanza.

Lo stesso neo inquilino di Palazzo Vidoni, chiamato a commentare lo schema di riforma, non ha potuto che diffondere dichiarazioni diciamo “di maniera”: “Tutta insieme la Pa, centrale e territoriale, quale infrastruttura strategica per lo sviluppo del Paese, impegnata nella messa a terra dei progetti del Pnrr, non può prescindere dalla giusta valorizzazione delle persone che lavorano per l’interesse collettivo e dalla loro responsabilizzazione, quali leve indispensabili per la crescita degli stessi lavoratori e delle organizzazioni”. Cosa abbia a che vedere questo dettaglio pulviscolare di regole di condotta già esistenti con la “messa a terra” del Pnrr e con crescita, valorizzazione e responsabilizzazione dei dipendenti non è del tutto chiaro. Ma, qualcosa il Ministro doveva pur dire.


[1] E’ vero che poi la riforma dedica specifiche regole di comportamento anche i singoli dipendenti in tema di “green”:

Art. 11-quater – (Rispetto dell’ambiente) 1. Il dipendente conforma la sua condotta sul luogo di lavoro al rispetto dell’ambiente e per contribuire agli obiettivi di riduzione del consumo energetico, della risorsa idrica e più in generale dei materiali e delle risorse fornite dall’amministrazione per l’assolvimento dei propri compiti, nonché per la riduzione dei rifiuti e per il loro riciclo, in piena aderenza alle direttive impartite dall’amministrazione di appartenenza.

2. Il dipendente utilizza gli arredi, il materiale, le attrezzature, gli strumenti tecnologici e, più in generale, qualsiasi risorsa messa a disposizione dall’amministrazione con scrupolo, cura e diligenza.

3. Ciascuna amministrazione, in relazione alla propria specificità e alle proprie caratteristiche, adotta linee di indirizzo comportamentali finalizzate a orientare la condotta dei propri dipendenti, in relazione al grado di responsabilità rivestito, al conseguimento di obiettivi di risparmio energetico, della risorsa idrica e dei materiali di consumo, nonché alla raccolta differenziata dei rifiuti

 

 

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