26/08/2022 – Vincoli culturali di destinazione d’uso e relativo perimetro applicativo. Il caso de “Il Vero Alfredo” al Consiglio di Stato.

NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE SESTA, ORDINANZA 28 giugno 2022, n. 5357

I fatti di causa

La vicenda riguarda il ristorante «Il vero Alfredo» situato nel centro storico di Roma e conosciuto in tutto il mondo per un piatto di notevole successo, le “fettuccine all’Alfredo”. Si tratta di un ristorante molto noto, sia in Italia che all’estero, frequentato da diverse personalità dello spettacolo, della vita culturale e politica, come attestato dalle numerose foto apposte sulle pareti. Il successo del Vero Alfredo è il frutto di una formula vincente di natura gastronomica ma anche di un’ospitalità perpetuatasi nel tempo attraverso immutate prassi di attività e profondamente nutrita da elementi di tradizione popolare romana. Il “Vero Alfredo”, fondato nel 1908 a Roma, si è trasferito nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato “Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza sociale” dichiarato di interesse storico- artistico ai sensi dell’art. 10 comma 1 Dlgs 22 gennaio 2004 n. 42 con D.D.R. 22.8.2006. L’ edificio, in origine di proprietà pubblica, è stato poi acquistato in blocco da una società privata la quale, subentrata nella titolarità del complesso immobiliare, tenuto conto del mancato spontaneo rilascio alla scadenza del rapporto contrattuale dell’unità immobiliare detenuta dal “ Vero Alfredo”, ha intimato al conduttore lo sfratto per finita locazione. Di qui, inizia la storia, stavolta legale, del “Vero Alfredo” che approderà al Consiglio di Stato e la cui decisione definitiva sarà rimessa all’Adunanza Plenaria del medesimo.

Il giudizio di primo grado

La società proprietaria delle mura, ricorrendo dinanzi al TAR Lazio, sede di Roma, ha impugnato il decreto ministeriale n. 50 del 13/07/2018 e gli atti connessi. Per comprendere meglio tale punto, è necessario un passo indietro nella vicenda in questione: il Ministero della Cultura, infatti, era intervenuto con proprio decreto a tutela del ristorante dichiarando il “Vero Alfredo “, con le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati all’interno, di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10 comma 3 lettera d) del Dlgs n. 42/2004 cd Codice dei beni culturali e del paesaggio e tutelato anche dall’art. 7-bis del medesimo Dlgs come “espressione di identità culturale collettiva”. L’Amministrazione aveva dunque ritenuto che il ristorante in questione detenesse un vero e proprio patrimonio immateriale costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Il Ministero, peraltro, non si era limitato a questa analisi ma aveva anche richiamato la relazione storico critica e il repertorio fotografico predisposti durante l’istruttoria: un lungo e dettagliato elogio della particolarità e della singolarità di questo locale che diventa, nel suo insieme, molto più che un semplice ristorante; il “Vero Alfredo” è , infatti, espressione di identità culturale, di cultura gastronomica e di socialità arricchita da elementi storico-culturali tramandati nel corso del tempo, di generazione in generazione. La società ricorrente ha ritenuto che il provvedimento in esame avesse imposto un vincolo di destinazione d’uso esclusivo al fine di garantire la continuazione dell’attività imprenditoriale da parte del gestore attuale, in assenza di una norma attributiva del relativo potere. L’Amministrazione, in questo modo, avrebbe violato i presupposti applicativi dell’art. 7-bis e dell’art. 10 comma 3 lettera d) del Dlgs n. 42/2004 in quanto non sussisterebbero i presupposti di legge per ritenere assoggettabile a tale particolare tipologia di tutela l’attività di ristorazione e non sarebbe stato possibile riscontrare il carattere particolarmente importante per giustificare la tutela del bene culturale. Il Tar Lazio, sede di Roma, ha accolto il ricorso ritenendo che il provvedimento fosse irragionevole e sproporzionato: oltre a non rispettare i citati articoli del Codice dei beni culturali e del paesaggio, esso prevedrebbe un vincolo di destinazione d’uso ulteriore e diverso rispetto a quelli espressamente previsti dalla legge (come avviene, ad esempio, per gli studi d’artista ex art. 51 del medesimo codice) e , pertanto, inammissibile. Inoltre, il già citato art. 7-bis non includerebbe le attività artigianali e commerciali tradizionali ma si riferirebbe soltanto a quelle che sono “espressione di identità culturale collettiva”, insieme ben più circoscritto.

I tre orientamenti sul vincolo culturale di destinazione d’uso

Secondo un primo indirizzo esegetico, dovrebbe escludersi l’ammissibilità di un vincolo culturale di 3 destinazione d’uso, in quanto incompatibile con il dato positivo e contrastante con la tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica. Una tale lettura, infatti, vincolerebbe l’immobile non alla sua identità strutturale ma ad una sua specifica destinazione seguendo una visione autoritaria e svalutativa del diritto di proprietà; sarebbe altresì violato il principio di legalità che caratterizza i poteri ablatori in senso lato dell’amministrazione pubblica. Tale primo indirizzo si fonda sulla necessaria distinzione tra vincolo strutturale e vincolo di destinazione d’uso, escludendo l’ammissibilità di vincoli culturali di mera destinazione specie per attività commerciali o imprenditoriali anche se attinenti a valori storici e culturali presi in considerazione dalla legge di riferimento. Si tratterebbe di uno strumento di tutela non previsto dalla disciplina di riferimento e, comunque, irragionevolmente e sproporzionatamente limitativo dei diritti di proprietà e della libertà di iniziativa economica che non ammettono, in quanto liberi, limitazioni di questo tipo. Una seconda tesi, che potrebbe definirsi intermedia, pur riaffermando il tendenziale divieto di vincoli culturali di destinazione d’uso (non potendo tutelarsi le gestioni commerciali o l’esercizio di attività artificiali anche se attinenti ad alcuni valori storici, culturali o filosofici presi in considerazione dalla legge di riferimento) ha ritenuto ammissibile, in circostanze determinate e specifiche, una deroga a tale regola generale qualora il bene abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione ed un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza. Secondo una terza impostazione esegetica, infine, la legittimità del vincolo di destinazione d’uso dovrebbe essere valutata, anziché verificando se nella specie vi sia stata una particolare trasformazione della res con una sua specifica destinazione ed un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico- culturale di rilevante importanza (e , dunque, anziché sulla base di fattispecie derogatorie predeterminate in via astratta), avendo riguardo all’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta. In particolare, si ritiene non estranea al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico – artistico la previsione di limiti alla loro destinazione senza che ciò si risolva nell’obbligo di gestire una determinata attività. Al fine di prevedere un vincolo di destinazione come una modalità di uso ritenuto compatibile con il bene tutelato, occorrerebbe, in particolare, una puntuale motivazione sulla sussistenza di valori culturali, estetici e storici tutelabili in quanto incarnati in una determinata struttura, avendo riguardo al riferimento della res alla storia della cultura e alla rilevanza artistica degli arredi ivi conservati.

La posizione del Consiglio di Stato e il deferimento all’Adunanza Plenaria

Il Collegio, nella pronuncia in commento, ritiene espressamente di aderire al terzo degli orientamenti illustrati in quanto compatibile con il dato positivo, maggiormente aderente agli obiettivi di interesse generale volti alla tutela dei beni culturali e coerente con il quadro legislativo e costituzionale di riferimento. Il Massimo Organo di Giustizia Amministrativa, ritiene, infatti, che il potere di prescrivere limiti all’uso del bene culturale possa derivare dalla lettura in combinato disposto degli articoli 18 comma 1, 20 comma 1 e 21 comma 4 del Dlgs 42 del 2004. La disciplina positiva valorizza, dunque, l’importanza dell’uso del bene culturale la cui modifica deve essere attentamente vagliata dall’Amministrazione statale la quale potrebbe anche vietare usi incompatibili con le caratteristiche o la conservazione della res. Tale posizione sembra assolutamente condivisibile nella misura in cui sia supportata da idonea motivazione in grado di dimostrare che un uso diverso della res rispetto all’attuale, possa comprometterne l’integrità materiale e le sue caratteristiche storico, artistiche e culturali; conferire la giusta importanza alla motivazione, permette altresì il raggiungimento degli obiettivi di interesse generale sottesi alla disciplina in oggetto e collegati alla corretta conservazione del patrimonio culturale. Non si tratterebbe di una valutazione irragionevole o sproporzionata: premesso che i vincoli culturali non hanno valenza espropriativa ma conformativa e che l’interesse culturale, ex art. 9 della Costituzione, prevale su qualsiasi altro interesse nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 118 del 1990, nel trattare i beni culturali “per riferimento” – oggi previsti dall’art. 10 comma 3 lettera d) del Dlgs n. 42/2004 sembra avere ammesso la legittimità dei vincoli di destinazione d’uso. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non si è pronunciato però definitivamente sui ricorsi in appello – incidentale e principale- ma ne ha disposto il deferimento, per la risoluzione, all’Adunanza Plenaria. Infatti, come già evidenziato nel secondo paragrafo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato non ha in maniera univoca risolto la questione di diritto relativa all’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso e pertanto è necessario un intervento chiarificatore e uniformatore sul punto. In secondo luogo, il Consiglio di Stato, nell’ordinanza in commento, ha rilevato che il tema dell’ammissibilità di un tale vincolo potrebbe essere condizionato anche dalla disciplina, introdotta nell’ambito del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dell’art. 7-bis idonea a porre all’attenzione 5 della giurisprudenza questioni giuridiche nuove con riguardo alla tutela del patrimonio culturale immateriale. Si tratta di un ambito che può porre delicati problemi di coordinamento anche con il diritto convenzionale, suscettibile di differenti soluzioni in ambito giurisprudenziale.

Conclusioni

La vicenda in questione offre lo spunto per una riflessione di ampio respiro riguardo la possibilità di prevedere un vincolo di destinazione d’uso ulteriore rispetto a quelli canonici previsti dalla legge. Data la delicatezza dell’argomento e l’esistenza di diversi indirizzi interpretativi sul punto, si attende l’intervento nomofilattico da parte dell’Adunanza Plenaria che farà luce su un tema così ricco di implicazioni sia giuridiche che socio- culturali.

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