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 “– Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,… – cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.

 

– Si piglia gioco di me?- interruppe il giovine

– Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”. (A. Manzoni, I promessi sposi).

Quando non si ha molto da dire, ma si vuole sviare il tema e confondere; oppure, quando il poco che si ha da dire lo si vuol rendere enfatico e roboante, non c’è migliore scelta di ricorrere al caro vecchio “latinorum”.

 

Oggi, il nostro latinorum è l’inglese, in particolare se il tema da trattare riguarda la pubblica amministrazione e la gestione dei dipendenti pubblici.

 

Da decenni immani sforzi per introdurre nozionismi del New Public Management (e si scusi il latinorum) e cascami di un aziendalismo che nelle aziende non esiste e si ritrova solo in pensosi “paper” sulle metodologie organizzative nella PA.

Un vuoto spinto, che negli anni ha prodotto solo caos e formalismi. In particolare proprio in uno degli aspetti più delicati del rapporto di lavoro: la definizione delle attività e delle mansioni.

Le PA da sempre non sono capaci di andare molto oltre titoli o lemmi che non significano nulla, come istruttore amministrativo, funzionario contabile, operatore di macchine complesse.

Declaratorie vuote, che evidenziano il vero vuoto: la conoscenza dei compiti svolti dai lavoratori. Un vuoto di conoscenza particolarmente spinto nel mondo degli enti locali, anche perché molti di essi hanno pochissimi dipendenti e sottilizzare sulla specifica descrizione del lavoro non ha senso pratico. Nei fatti, con soli 5, 10 anche 30 dipendenti è un po’ un tutti fanno tutto, salvo incompatibilità marcate (il tecnico che non si occupa di tributi – ma non è detto – il giuridico che non fa il Rup – ma non è detto – il contabile che non fa l’agente di PM – ma anche qui, non è detto).

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