Print Friendly, PDF & Email

La libertà di culto (non) può essere una scelta discrezionale

 

La libertà di culto, vagliata dal potere locale, viene rimessa al giudizio della Corte Costituzionale sul bisogno di professare, liberamente e senza vincoli, nei luoghi e negli edifici tale libertà costituzionalmente garantita.

La questione viene riproposta alla Consulta della sez. seconda Milano del TAR Lombardia, con la sentenza 8 ottobre 2018, n. 2227 (il precedente, con ordinanza 3 agosto 2018, n. 1939, si tratta dei commi 1 e 2 dell’art. 75), per scrutinare la legittimità costituzionale dell’art. 75, della legge regionale Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2 che non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando determinarsi (comma 5, «I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi») e in che senso (commi 1 e 2) a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto.

Sulla questione, chi scrive, aveva già evidenziato (Libertà di culto o di pianificazione urbana, 8 agosto 2018) i limiti di un percorso decisionale «già segnato» che contrastava con «i principi di natura costituzionale sulla libertà religiosa, correlato alla laicità dello Stato…, che portarono prima ai “Patti Lateranensi”, dopo all’art. 7 Cost., segnando il principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato», principi che «impediscono di limitare la libertà di culto attraverso la selezione, con strumenti di natura urbanistica, dei luoghi deputati ad esprimere e manifestare la sensibilità religiosa (la c.d. professione di fede), sentimento necessariamente soggettivo», rilevando – nel concreto – la serietà (aliasdifficoltà) di un bilanciamento tra esigenze non necessariamente contrapposte e i temi dell’integrazione sul piano sociale e dello sviluppo urbano.

In effetti, se l’Amministrazione pubblica – per principio generale – deve rispondere in tempi certi delle istanze dei cittadini (ex art. 2 della legge n. 241/1990), e l’adozione di un determinato “Piano urbano” preclude l’accoglimento dell’istanza, e tale inerzia non trova una equivalente sanzione da ritardo, ovvero un obbligo a provvedere, al di là del bene della vita negato, vengono meno dei diritti fondamentali (trattasi di un diritto soggettivo complesso) riconosciuti tali dall’ordinamento giuridico (ex art. 19 Cost.): la libertà religiosa e di culto rientra tra i c.d. “diritti universali”, indisponibili, inalienabili, inviolabili, intransigibili e personalissimi, invalicabili da un provvedimento limitativo dell’Autorità (con le precisazioni che seguono).

Il pronunciamento che rimette alla Corte Costituzionale «le questioni di legittimità costituzionale, relative all’articolo 72 comma 5 della legge regionale della Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1 lett. c) della legge regionale 3 febbraio 2015 n. 2, per contrasto con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., con l’art. 5 Cost., con l’art. 19 Cost., con l’art. 114 Cost., con l’art. 117 comma 2 lett. m) Cost., con l’art. 117 comma 6 terzo periodo Cost. e con l’art. 118 Cost.», giunge sulla spinta di un ricorso (più volte presentato in precedenza, anche con un giudizio di ottemperanza) di un’associazione (Comunità Islamica con circa trecento iscritti, questo per i profili della rappresentanza e della cura degli interessi degli iscritti), contro:

  • un provvedimento di diniego del Responsabile dell’area tecnica di un’Amministrazione locale per l’individuazione di un luogo di culto nel territorio comunale;
  • della delibera del Consiglio Comunale di rigetto della domanda di individuare un luogo di culto islamico nell’ambito dello strumento urbanistico (si motivava l’assenza dei requisiti di legge in capo all’Associazione riferiti alla percentuale, consistenza e incidenza sociale; l’inidoneità delle aree per l’assenza di standard; la mancanza di beni comunali idonei allo scopo; il trasferimento in altro comune).

La questione viene vagliata alla luce dell’applicazione dell’art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005, nella versione risultante dalle modifiche introdotte dalla menzionata L.R. n. 2/2015: illegittimità costituzionale «nella parte in cui condiziona l’esercizio del culto alla discrezionalità riservata al Comune nell’individuare o meno nello strumento urbanistico luoghi destinati a servizi religiosi».

Per i commi 1 e 2, del menzionato art. 72 della L.R. n. 12/2005, il TAR annota di aver già rimesso la questione di legittimità costituzionale, a mezzo della sentenza non definitiva n. 1939/2018, dovendo ora rimettere la questione anche per il comma 5 del cit. art. 72.

Prima di affrontare il tema della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, il Collegio ricostruisce, confermando, il quadro normativo profilato già analizzato nella sentenza della Sezione n. 1939/2018, compresa la ricostruzione anche a seguito dell’avvenuta abrogazione della L.R. Lombardia n. 2/2015 a mezzo della L.R. n. 5/2018, recante «Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge”».

Propriamente, essendo stata disposta l’abrogazione della legge regionale n. 2 del 2015, che ha novellato la legge regionale n. 12 del 2005, che detta la disciplina applicata dal provvedimento impugnato, si domanda il TAR «se tale previsione possa influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendono rimettere alla Corte costituzionale»: il provvedimento impugnato è precedente alla legge regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della sua adozione, peraltro non incidente dalle modificazioni normative sopraggiunte (si conclude nei termini anzidetti).

A questo punto, il Collegio interviene sull’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 sospettato di illegittimità costituzionale con una batteria di ragioni.

Il primo gruppo:

  1. la programmazione urbanistica comunale interviene con cadenze periodiche pluriennali, non fissate a priori (sine die), con la conseguenza che trovare una sede per esercitare il proprio culto è una questione incerta;
  2. decorso il termine, dei diciotto mesi per individuare o meno l’area da destinare alle attrezzature religiose (impregiudicato l’esito dell’istruttoria positiva o di rigetto): a. non vi è un obbligo giuridico di avviare il procedimento di revisione del Piano di Governo del Territorio (PGT) necessario per assolvere l’adempimento; b. non è prevista alcuna disposizione “sanzionatoria”, quale la sostituzione commissariale per l’adozione del piano de quo.

Tale situazione di oggettiva e perdurante incertezza (oltre il termine ragionevole, ex art. 3 Cost., nonché ex art. 2 della legge n. 241/1990) in cui versano i fedeli, i quali aspirano a che il Comune individui un luogo per il culto da essi professato, non è compatibile con il rango costituzionale del diritto di libertà religiosa, avuto riguardo a quanto affermato dalla Corte Costituzionale 24 marzo 2016, n. 63, secondo cui «Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione».

Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in violazione dell’art. 2 Cost..

Il secondo gruppo:

La norma «pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art. 117 comma 2 lett. m)» non stabilendo un termine certo per rispondere ad un’esigenza riguardante l’esercizio di un diritto fondamentale della persona contrasta con:

  1. il principio di “buon andamento” che deve presiedere l’attività della Pubblica Amministrazione;
  2. il principio di “imparzialità” dell’azione amministrativa, esprimendo uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso (contrasta, anche con gli artt. 2. 3 e 19 Cost.);
  3. il principio della “certezza del termine” di conclusione del procedimento, attinente al livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (c.d. LEP), nell’aspetto riguardante la predeterminazione della durata massima dei procedimenti (ex art. 29 della Legge n. 241/1990).

Il terzo gruppo:                       

Vi è un contrasto ulteriore «con l’art. 5 Cost., con l’art. 114 comma 2 Cost., con l’art. 117 comma 6 terzo periodo, Cost., con l’art. 118 comma 1 Cost.» poiché:

  1. condiziona l’adozione del “Piano delle attrezzature religiose” alla revisione complessiva del PGT; attività complessa e dispendiosa, rispetto al termine iniziale atteso che solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore della norma cit. le Amministrazioni potevano predisporre il cit. Piano senza mettere mano all’intera disciplina del governo del territorio;
  2. scaduto il termine iniziale dei diciotto mesi, l’inserimento del Piano richiede la revisione dell’intero PGT con un considerevole lavoro rispetto alla singola parte di revisione, con aggravamento procedurale.

Tale diversa metodologia di intervento normativo costituisce una ingiustificata compressione delle prerogative dei Comuni da parte della Regione, integrando una violazione:

  1. dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali “Autonomie locali”;
  2. dell’art. 114, comma 2 Cost., sotto un profilo generale dell’autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza;
  3. dell’art. 117 comma 6 terzo periodo Cost., sotto l’ulteriore profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
  4. dell’art. 118 comma 1 Cost, per il rilievo dell’incidenza del principio di sussidiarietà verticale.

Qualche riflessione.

La sentenza del TAR Lombardia, sez. II, n. 2227/2018, e il precedente, attengono ad un aspetto importante del vivere sociale e dell’integrazione tra culture e popoli, affrontando un tema, come quello della “libertà di fede” (pluralismo religioso), che attiene ad aspetti essenziali e primari della vita della persona (fonte passata e attuale di tante guerre e rivoluzioni), al di là dell’esito (che appare scontato) della Corte Costituzionale.

Allora, negare tali esigenze, anteponendo limiti ai “luoghi di culto” attraverso surrettizie norme di natura urbanistica, può sembrare e apparire antistorico, oltre che opporsi ad una architettura costituzionale proiettata su un ben diverso modo di concepire tale diritto (cfr. Corte Cost., sentenza n. 1 del 1969), non soltanto ai cittadini, ma anche agli stranieri e agli apolidi: un diritto di libertà esteso come garanzia alla persona umana, sia in quanto singolo (momento individuale) che in quanto partecipe di aggregazioni sociali (momento collettivo).

Andando oltre, lubi consistam è quello di pensare e pretendere che attraverso la limitazione delle attrezzature culturali e religiose si possa limitare – con norme tecniche – l’ingresso della libertà di culto nel tessuto urbano (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 25 gennaio 2017, n. 1323; Cons. Stato, sez. V, 3 maggio 2016, n. 4188; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17 febbraio 2016, n. 344 e ordinanza 12 gennaio 2015, n. 36; Cons. Stato, sez. I, parere 29 luglio 2014, n. 2489; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 28 dicembre 2009, n. 6226), quando la posizione dello Stato si caratterizza per la sua “laicità”, che fa pen-dànt con il sostantivo “neutralità” (non indifferenza, Corte Cost. sentenza n. 203 del 1989), avulso da ogni discriminazione basata sulla religione (ex art. 3 Cost).

Non vanno, inoltre, tralasciati altri aspetti legati all’ordine pubblico sottesi e non palesati, ma in questa ipotesi la questione va analizzata in termini diversi e con misure di prevenzione che non attengono alla libertà di religione ma alla sicurezza dello Stato.

Torna in alto