02/05/2018 – Il caso del responsabile anticorruzione della regione Lazio dimostra l’erroneità della tesi di Panebianco

Il caso del responsabile anticorruzione della regione Lazio dimostra l’erroneità della tesi di Panebianco

 
Sul Corriere della sera del 30 aprile Angelo Panebianco ha scritto un editoriale secondo il quale da Tangentopoli in poi una politica”debole” è sopraffatta dal potere delle tecnostrutture amministrative e giudiziarie.

Dirigenti amministrativi e giudici (senza cuore, cit.) indifferenti o ostili verso l’economia di mercato, tengono in ostaggio la politica, impedendole persino di tentare di “alzare il capino”. E con la politica, bloccano un intero Paese.

Cercare di fornire spiegazioni semplici a problemi molto complessi frequentemente non porta a risultati rilevanti. Soprattutto se la tesi è un postulato indimostrato.

Al netto della circostanza che sicuramente vi sarà qualche dirigente e qualche magistrato che possa aver travalicato ruoli e competenze, ingerendosi in campi non di spettanza, il postulato va dimostrato con fatti concreti.

Se il cruccio è che le “tecnostrutture” sopraffanno la politica perchè applicano le regole che la stessa politica dispone, allora non ci siamo proprio.

L’esempio della regione Lazio è eclatante. Il responsabile della prevenzione della corruzione aveva rilevato che la nomina di un commissario, designato dal presidente della regione Lazio, ad un ente, non aveva i requisiti, in quanto titolare di cariche in società private, segnalando il conflitto di interesse e le false dichiarazioni rilasciate.

Una legge, la legge Severino, la 190/2012, il Piano Nazionale Anticorruzione, il piano triennale di prevenzione della corruzione della regione Lazio, imponevano al responsabile anticorruzione di agire come ha agito.

E’ stato una prevaricazione senza cuore e con atteggiamento ostile all’economia di mercato? Sì, secondo il presidente della regione, che appena in due giorni ha inscenato una presunta “riorganizzazione” delle strutture di vertice della regione stessa, che, guarda caso, come risultato portava proprio alla revoca dell’incarico del responsabile anticorruzione.

L’Anac ha censurato questa revoca, evidentemente – nonostante le forme – figlia dei rilievi alla persona che il presidente della regione avrebbe voluto incaricare come commissario, ma la regione è andata avanti, col cuore ed attenta all’economia di mercato.

Ma, il Tar, al quale nel frattempo il responsabile anticorruzione si era rivolto, ha sospeso la revoca con provvedimento d’urgenza, in attesa della decisione nel merito.

Certo, dal punto di vista del Panebianco qui c’è una congiura di un dirigente, di un’authority e di un Tar (ah, questi Tar: nessuno li abolisce…), per altro sostenuti da alcune interrogazioni del movimento 5 stelle. Il paradigma sembra funzionare: una tecnostruttura amministrativo-giudiziaria, vicina idelologicamente al movimento ideato da Grillo, ostacola la politica, vittima di chi agisce contro di lei senza cuore.

La questione, al contrario, guardata dal punto di vista delle regole è messa in modo molto diverso. E’ la politica che, approvando la legge Severino, ha fissato regole generali ed astratte, come tali da rispettare da parte di ogni cittadino. Il presidente della regione Lazio, per svista sua o malafede dell’incaricando, stava assegnando un incarico ad una persona il cui status era incompatibile con le regole generali ed astratte fissate dalla politica. Un dirigente, voluto in quel ruolo dalla politica, ha rilevato il vulnus ed ha agito per impedire una nomina illegittima. Ma, un organo politico, come reazione, ha rimosso dall’incarico il dirigente reo di aver vigilato come la legge richiedeva.

Ora: dove sta la prevaricazione? Dov’è l’abuso?

Chiunque abbia esperienza lavorativa nelle strutture amministrative a contatto con la politica sa perfettamente che, secondo la visione di questa e di chi intende l’amministrazione come il Panebianco, l’attività del dirigente, come quella del giudice, viene considerata come finalizzata al fine della politica e non dell’interesse generale. Dunque, se una nomina, un incarico, un piano di lottizzazione, un permesso edilizio, una licenza, un contributo, un passaporto, un ricovero, una prestazione sociale, o qualsiasi altro esempio, non spettino perchè il destinatario non ha i requisiti, ma il destinatario è una persona col cuore e molto vicino alla politica, allora la “tecnostruttura” è brava e meritevole di non ricevere revoche dell’incarico se non vede o se agisce “in deroga”: sì, la legge, le norme dispongono in generale, ma nel “particolare” ciò che non sarebbe permesso agli altri è consentito alle persone “di cuore”.

Questo è in modo di intendere la politica, i rapporti tra questa e le strutture amministrative ed i giudici, e, ancora, con i cittadini, che ci porterebbe indietro di secoli e che di liberale non ha nulla. Infatti, spinge verso il trattamento speciale pur in presenza della regola generale. E’ esattamente quella visione secondo la quale il “primato della politica” deve poter prevedere salvacondotti per aziende decotte come Alitalia ed i suoi dipendenti, invece negati per qualsiasi altra azienda e lavoratore. E’ quella visione dell’amministrazione non per regole generali, definite da un Parlamento rappresentante di tutti i cittadini per garantire una regolazione preventiva, applicabile a tutti, bensì per decisioni estemporanee, specifiche, mirate a persone o gruppi o imprese ben individuati.

I rapporti tra politica e tecnostrutture possono benissimo essere ricondotti alla normalità: la politica, esprimendo l’indirizzo politico mediante leggi ed atti di governo e di gestione rispettosi delle regole che essa stessa detta, può tranquillamente guidare l’azione delle tecnostrutture e, anche, valutarne i risultati espellendo i non meritevoli, sulla base della misurazione della capacità di seguire, però, l’indirizzo politico e le regole e non di agire “in deroga” per le convenienze specifiche di singoli. Questo è proprio quel conflitto di interessi, quella corruzione non penale, ma amministrativa, che appunto corrode, inquina, l’azione politica e gestionale e porta ad un’amministrazione selettiva, non universale, nella quale chi non ha i requisiti ma “coperture” pretende (protetto dalle coperture) di avere incarichi cui non ha diritto, oppure di avere il documento per il quale tutti attendono due mesi in due giorni, o il ricovero saltando le liste d’attesa.

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