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Legittimo porre dei limiti alle grandi strutture di vendita

di Marilisa Bombi – Giornalista, consulente autonomie locali

 

Nessun provvedimento invasivo della competenza costituzionalmente riservata allo Stato in materia di tutela della concorrenza, introducendo limiti all’accesso al mercato per gli operatori della grande distribuzione; nel senso che è pienamente legittima la decisione della provincia di Trento di impedire la realizzazione, all’interno del proprio territorio, di strutture di vendita con superfici superiori ai 10 mila metri quadrati. Il Tribunale amministrativo regionale di Trento, Sezione unica, con la sentenza n. 120 depositata il 31 maggio scorso, ha respinto il ricorso di Federdistribuzione, la quale aveva eccepito diverse violazioni di legge, tra le quali quella del provvedimento invasivo della competenza costituzionalmente riservata allo Stato in materia di tutela della concorrenza, introducendo limiti all’accesso al mercato per gli operatori della grande distribuzione. Nel senso che il provvedimento provinciale ha operato nel rispetto dei principi e le norme disciplinanti il delicato rapporto intercorrente fra la tutela della libera concorrenza e di mercato e la tutela delle esigenze territoriali di carattere urbanistico-ambientale.

La tutela della popolazione. A tale proposito il Collegio ha evidenziato che la verifica della compatibilità dei limiti scaturenti dagli atti di pianificazione con i principi in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi, sanciti dalla direttiva n. 2006/123/CE (c.d. Bolkestein) e dalla legislazione statale di recepimento (art. 31D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito dalla L. 22 dicembre 2011 n. 214), non può prescindere dalla premessa secondo cui “la disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali”. In tal senso si è già pronunciato a suo tempo il Consiglio di Stato. La citata direttiva comunitaria, infatti, pur comportando, di regola, l’esclusione di autorizzazioni e limitazioni all’attività economica, specie se dirette ad incidere sul rapporto fra domanda ed offerta, deve essere applicata rimanendo tuttavia salva la considerazione sia di motivi di interesse generale, sia dell’adeguatezza e proporzionalità delle misure restrittive della libertà d’impresa con gli obiettivi perseguiti: conseguentemente, in sede di recepimento nell’ordinamento interno, l’art. 11D.Lgs. n. 59 del 2010 ha escluso dal divieto di restrizione i requisiti di programmazione che non perseguono obiettivi economici, ma che sono dettati da motivi imperativi d’interesse generale, potendo in tali casi venir legittimamente subordinato (art. 12) l’accesso e l’esercizio delle attività economiche a limitazioni quantitative o territoriali, con particolare rilievo alla tutela della popolazione. Successivamente, l’art. 31D.L. n. 201 del 2011 convertito nella L. n. 214 del 2011, nel riaffermare il principio generale di libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali, ha ribadito la legittimità dei limiti connessi alla tutela della salute, dei lavoratori e dell’ambiente, ivi incluso quello urbano, e dei beni culturali.

Va rilevato, a tale proposito, che le sopraindicate norme si limitano ad introdurre principi di carattere generale, e pertanto non individuano nel loro ambito una specifica e dettagliata determinazione dei criteri in forza dei quali il raffronto fra i valori tutelati (quello della libera concorrenza e quello della tutela di interessi imperativi) debba avvenire al fine di contemperare le diverse esigenze. Peraltro tale confronto non può che risentire delle diversità in cui si articola il territorio nazionale, tant’è che l’art. 31, comma 2, del citato D.L. n. 201 del 2011 richiede proprio alle Regioni e agli enti locali di “adeguare” i propri ordinamenti alle indicate prescrizioni di carattere generale. Ciò posto, ha sottolineato la Sezione, nell’applicazione dei criteri idonei a consentire il “giusto confronto” fra i valori in gioco, è stato condivisibilmente affermato che occorre distinguere gli atti di programmazione economica, i quali in linea di principio non possono più essere fonti di limitazione all’insediamento di nuove attività, dagli atti di programmazione aventi natura non economica, e fra questi quelli adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, con l’avvertenza, per questi ultimi, che occorre verificare in concreto se essi perseguono finalità di tutela dell’ambiente urbano o, comunque, sono riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese.

Scelte motivate. Se il provvedimento che vincola gli insediamenti, in pratica, non è finalizzato a regolare autoritativamente, o ad alterare, l’offerta dei servizi sul mercato, ma persegue responsabilmente e motivatamente scopi di organizzazione del territorio, di tutela dei valori paesaggistico-ambientali e della salute della popolazione, (annoverati fra i motivi imperativi di interesse generale in presenza dei quali, legittimamente, proprio la direttiva comunitaria n. 2006/123/CE e le disposizioni legislative statali di recepimento ammettono), l’esercizio di attività produttive o commerciali può essere legittimamente subordinato a restrizioni quantitative o territoriali.

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