10/04/2018 – Legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che utilizza in modo improprio i permessi previsti dalla legge 104

Legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che utilizza in modo improprio i permessi previsti dalla legge 104

di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale e giornalista pubblicista

 

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8209, del 4 aprile 2018, ha confermato la legittimità della sentenza dei giudici del merito in riferimento al licenziamento del dipendente pubblico che abusa in modo non corretto dei permessi retribuiti in base alla L. n. 104 del 1992.

Il fatto

Con sentenza del novembre 2016, la Corte d’Appello confermava la decisione resa dal Tribunale ordinario e rigettava la domanda proposta da una dipendente di una azienda Sanitaria Locale, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatole per aver abusivamente fruito del permesso ex lege n. 104 del 1992 e negato insistentemente l’abuso medesimo; i giudici del merito di secondo grado hanno ritenuto, a prescindere dall’assoluzione ottenuta dalla lavoratrice in relazione all’imputazione sollevata in sede penale, sussistente l’addebitato abuso del diritto, proporzionata l’irrogata massima sanzione.

Avverso la sentenza sfavorevole la dipendente è ricorsa in Cassazione.

I permessi previsti per la 104: quali requisiti

L’art. 33, commi 3 e 6, L. n. 104 del 1992, così come modificato dalla L. n. 183 del 2010 e dal D.Lgs. n. 119 del 2011, prevede agevolazioni lavorative per il lavoratore disabile e per il dipendente che assiste familiare con disabilità.

La situazione certificata di handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. n. 104 del 1992, costituisce il presupposto per la fruizione delle agevolazioni lavorative.

I soggetti legittimati alla fruizione dei permessi sono:

– dipendenti con handicap in situazione di gravità;

– genitori, anche adottivi, che assistono figli con handicap in situazione di gravità;

– dipendenti che assistono il coniuge, un familiare parente o affine entro il secondo grado in situazione di handicap grave .

Nel caso in cui i genitori o il coniuge del disabile in situazione di gravità abbiano compiuto il 65° anno di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, il diritto alla fruizione dei benefici spetta ai parenti od affini entro il terzo grado.

Il diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore per l’assistenza allo stesso disabile.

Il dipendente interessato ha l’onere di presentare apposita istanza per la fruizione delle agevolazioni e di dimostrare la sussistenza dei presupposti di legittimazione attraverso la produzione di idonea documentazione ovvero attraverso apposite dichiarazioni sostitutive.

In particolare è tenuto alla presentazione:

– del verbale della commissione medica dal quale risulti l’accertamento della situazione di handicap grave

– della documentazione ovvero di apposite dichiarazioni sostitutive che certifichino:

– il grado di parentela con il disabile;

– l’assenza di ricovero a tempo pieno dello stesso disabile.

Per ricovero a tempo pieno si intende il ricovero per le intere 24 ore presso le strutture ospedaliere o comunque presso le strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria.

Costituiscono eccezioni a tale presupposto: l’interruzione del ricovero per necessità del disabile per recarsi fuori dalla struttura per effettuare visite o terapie, ricovero a tempo pieno di un disabile in coma vigile e/o in situazione terminale, ricovero a tempo pieno di un minore in situazione di handicap grave per il quale risulti documentato il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare. Tali situazioni devono risultare da idonea documentazione medica:

– l’individuazione del dipendente quale unico referente del disabile;

– di una dichiarazione di responsabilità e consapevolezza dalla quale risulti che il dipendente presta assistenza nei confronti del disabile, è consapevole che le agevolazioni sono uno strumento di assistenza del disabile e, pertanto, il riconoscimento delle agevolazioni stesse comporta la conferma dell’impegno – morale oltre che giuridico – a prestare effettivamente la propria opera di assistenza; nella dichiarazione occorre indicare la consapevolezza che la possibilità di fruire delle agevolazioni comporta un onere per l’amministrazione e un impegno di spesa pubblica che lo Stato e la collettività sopportano solo per l’effettiva tutela dei disabile; che si impegna a comunicare tempestivamente ogni variazione della situazione di fatto e di diritto da cui consegua la perdita della legittimazione alle agevolazioni.

Va, inoltre, evidenziato che la Corte Costituzionale, con sentenza 5 luglio-23 settembre 2016, n. 213 (in G.U. 1ª s.s. 28 settembre 2016, n. 39) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “dell’art. 33, comma 3, della L. 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1, lett. a), L. 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché’ misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro) nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.”

Un recente orientamento

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 29613, dell’11 dicembre 2017, nel respingere il ricorso di un dipendente nei confronti della sua società, ha confermato la legittimità del licenziamento a seguito del fatto che, lo stesso dipendente in infortunio dal lavoro usufruiva anche del permesso per assistere un familiare disabile ai sensi della L. n. 104 del 1992, svolgeva un’altra attività lavorativa.

Come ha affermato la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al danno eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

Nel caso in esame i giudici del merito si sono attenuti a tali principi; nel valutare l’incidenza della condotta contestata sul vincolo fiduciario, hanno tenuto conto di tutti gli elementi del caso concreto, ma hanno valorizzato in particolare la condotta fraudolenta del dipendente che, ingannando la parte datoriale sull’effettività delle ragioni dell’astensione dal lavoro, svolgendo attività lavorativa in luogo distante da quello di lavoro per impedire l’accertamento della propria condotta, sottraendosi al proprio lavoro che comportava anch’esso cura e assistenza verso soggetti abbisognevoli, aveva realizzato una condotta idonea a ledere il vincolo fiduciario, “avuto riguardo altresì alla causale del permesso per disabilità disonorata dall’evidente disinteresse manifestato nei riguardi del familiare meritevole di negata assistenza”.

Per la Corte di Cassazione le affermazioni sostenute dal dipendente ricorrente non erano state, quindi, trascurate dalla Corte d’Appello, che tuttavia ha ritenuto però di attribuire decisiva rilevanza al fatto che il comportamento del dipendente che si avvalga del beneficio di cui all’art. 33L. n. 104 del 1992, per attendere ad esigenze diverse dall’assistenza al disabile integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, realizzando una condotta che assume anche disvalore morale e sociale, in coerenza con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità.

L’analisi della Cassazione

I giudici di legittimità osservano che la dipendente ricorrente, con il primo motivo, denuncia la nullità della sentenza impugnata, perché ritiene che la Corte territoriale ha reso la propria pronunzia solo apparentemente in conformità con l’orientamento espresso dalla Cassazione in tema di abuso dei permessi ex lege n. 104 del 1992, sostanzialmente incorrendo in un assoluto difetto di motivazione.

Con il secondo motivo, la ricorrente imputa alla Corte territoriale un superficiale esame della documentazione prodotta in atti.

Per la Corte di Cassazione entrambi i motivi, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, risultano infondati, dal momento che il principio espresso dalla stessa Cassazione con le decisioni richiamate nella motivazione dell’impugnata sentenza ha portata generale e non presuppone la reiterazione della condotta integrante l’abuso del diritto, risultando, pertanto, idoneo a sorreggere il percorso logico-valutativo intrapreso dalla Corte territoriale e condotto, secondo quanto emerge dalla motivazione espressa, tenendo ampiamente conto della documentazione invocata a sostegno della propria prospettazione dalla ricorrente e addivenendo, in puntuale contrappunto con le risultanze della medesima a sancirne l’irrilevanza sotto il profilo della loro incidenza limitativa della gravità della condotta, correttamente apprezzata in conformità ai criteri indicati dalla Cassazione, senza che possa ravvisarsi alcun vizio logico e giuridico nella prevalenza accordata all’elemento soggettivo della condotta medesima e nella qualificazione al medesimo attribuita in termini di “perdurante ipotesi di dolo”, profili che, rimessi al libero apprezzamento del giudice del merito, non risultano del resto qui neppure fatti oggetto di censura.

Per tali motivi la Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

Cass. Civ, Sez. VI – Lavoro, 4 aprile 2018, n. 8209

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