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Bastano “piccole riforme” a proseguire il declino

 
 
 
            Sul Corriere della sera del 10 settembre 2017, Francesco Giavazzi ha scritto l’editoriale “Servono (piccole) riforme” ai fini della crescita.
Di per sé l’idea appare condivisibile. E’ indirettamente un invito ad abbandonare (si spera per sempre) la strada delle “riforme epocali”, spesso rivelatesi sostanzialmente come inseguimento disperato del consenso mediante atti populisti o, anche peggio, illusione di poter risolvere problemi complicati con soluzioni semplici, figlie di “ideone”.

L’Italia è da anni affetta dalla drammatica malattia della “riformite”. La narrazione è quella di un Paese fermo, statico e refrattario alle riforme. I fatti dimostrano, invece, l’esistenza di una quantità spaventosa di riforme[1] che si inseguono, si affastellano, si sovrappongono, si correggono, si ricorreggono, si attorcigliano continuamente, in un rovo inestricabile, il cui esito è, regolarmente, il peggioramento della situazione di partenza (basti pensare, per esempio, all’ipotesi di riforma delle intercettazioni: un problema serio, che, se passasse il testo proposto, verrebbe risolto con il potere arbitrario della polizia giudiziaria di sunteggiare passaggi delle intercettazioni, col pericolo di ledere diritti della difesa e istruttoria dell’accusa).
Dunque, comprendere che è opportuno concentrare l’attenzione su poche riforme, “mirate” più che “piccole” sarebbe davvero un opportuno passo in avanti.
Il problema, comunque, come sempre non è solo la quantità o ampiezza delle riforme, quanto la loro qualità e la capacità di risolvere problemi che davvero esistono, piuttosto che, invece, mirare a risolvere problemi inesistenti in favore del populismo o del desiderio di consolidamento del potere politico od economico.
Il Giavazzi, evidentemente non informato delle riforme che in questi anni sono state approvate, elogia per il Jobs Act e per la riforma delle pensioni, ma rimbrotta: “Nulla invece su scuola e università, quasi nulla sulla concorrenza e soprattutto nulla sulla Pubblica amministrazione”. Nulla su scuola e università? Evidentemente dall’osservatorio del Giavazzi norme come “la buona scuola” non risultano pervenute.
Allo stesso modo, al Giavazzi evidentemente non risulta l’esistenza della legge 124/2015 e del pacchetto di riforme conseguenti, se afferma che non si è fatto “nulla” sulla pubblica amministrazione.
In realtà, l’editorialista poco dopo chiarisce il suo pensiero: egli reclamava la riforma della dirigenza, in effetti autoaffondata dal Governo, che violando la Costituzione ha chiesto solo il parere e non l’intesa con le regioni. Ecco cosa scrive il Giavazzi nell’editoriale: “Qui l’errore è stato pensare che ciò che non funziona sia lo «Stato». Non esiste uno «Stato», entità indistinta, che non funziona. Esistono individui, impiegati, funzionari, dirigenti pubblici, che personificando lo Stato e non facendo il loro dovere (nonostante i molti diligenti) non lo fanno funzionare. E con questi, soprattutto i dirigenti di rango più elevato, di severità se n’è vista davvero poca. Illudersi, come ha pensato la ministra Madia, che una riforma possa renderli magicamente responsabili del proprio operato è da ingenui. Questi mandarini poi — gli stessi che la settimana scorsa hanno giudicato illegali i test di ammissione all’Università Statale di Milano — ci hanno messo del loro facendo saltare, attraverso le sentenze del Consiglio di Stato, qualunque norma rischiasse di sottoporli al controllo della politica. Sì, della politica: di che altro se no?”.
Difficile reperire un’invettiva contro i dirigenti della pubblica amministrazione altrettanto immotivata e ricca di evidenti errori (gravissimi) di diritto amministrativo e costituzionale (del resto, il Giavazzi, è un economista: prima di scrivere di pubblica amministrazione sarebbe opportuno si consultasse con colleghi professori che potrebbero meglio indirizzarlo).
L’idea di base è che lo Stato non funziona perché pieno di dipendenti che non lo vogliono fare funzionare. Ci sono, per carità, anche i “diligenti” e, tra parentesi, si evidenzia che potrebbero essere “molti”, così lasciando passare il messaggio che, pur “molti”, in realtà sono pochi e che la regola invece è una PA composta da lazzaroni incompetenti. L’analisi di ciò che non funziona nell’organizzazione dello Stato, a partire da leggi incomprensibili che debbono essere corrette da strafalcioni vari a pochi mesi dalla loro vigenza (vedi il codice dei contratti) è totalmente assente, nelle conclusioni dell’editoriale.
Che rincara la dose: è da ingenui pensare che per legge in particolare i dirigenti possano davvero divenire responsabili del loro operato. Tali dirigenti sono, inevitabilmente, dei “mandarini”. Ma, il Giavazzi incorre in un altro clamoroso scivolone, quando afferma che detti mandarini (cioè i dirigenti) sarebbero autori della sentenza che ha giudicato illegittimo il numero chiuso all’Università di Milano. Peccato che, tuttavia, autori di questa sentenza non siano, ovviamente, i dirigenti pubblici, ma i giudici amministrativi del Tar, appartenenti ad un potere indipendente (quello giudiziario), non ad uffici amministrativi: sarebbe bastato leggere con un po’ di attenzione la Costituzione, per evitare di scrivere questa affermazione sfortunata.
Infine, il Giavazzi stigmatizza la circostanza che i dirigenti (ma anche i giudici? Probabilmente nel suo ragionamento sì) non siano sottoposti al “controllo” della politica. Anche in questo caso, basterebbe una lettura all’articolo 98 della Costituzione ed ai primi 5 articoli del d.lgs 165/2001, per scoprire che i dirigenti sono tenuti ad attuare gli indirizzi politici degli organi di governo che allo scopo dispongono, non a caso, di poteri di programmazione e proprio di “controllo”.
Ma, è evidente che il “controllo” cui si riferisce il Giavazzi è, in realtà, l’appartenenza, il tesseramento politico[2], come ebbe sostanzialmente a scrivere, insieme ad Alberto Alesina, quando però la tesi dell’elezione dei dirigenti pubblici: una violazione devastante della Costituzione e delle regole del buon andamento e dell’impazialità dell’amministrazione.
Finita la filippica, l’editoriale si dedica alla pars construens. Il Giavazzi ritiene una piccola ma fondamentale riforma l’arretramento dello Stato dall’esercizio dell’economia. Il tema è sempre quello dei servizi pubblici locali, in particolare (ci si torna dopo). Nell’affermare questo dettame, l’editoriale sostiene che la proprietà pubblica è un elemento di inefficienza e cattiva spesa. Spiega il Giavazzi: “Francesco Lippi e Fabiano Schivardi (Corporate control and executive se¡ection, 2010) analizzando un campione rappresentativo di 1200 imprese italiane con più di 50 addetti, trovano che le imprese a controllo pubblico (statale o locale) sono, a parità di settore di attività, significativamente meno produttive delle corrispondenti imprese private. Questo risultato dipende soprattutto dal fatto che la proprietà pubblica non seleziona i manager sulla base della competenza, ma della fedeltà. Per la verità ciò è in parte vero anche nelle imprese a controllo familiare i cui dirigenti sono in media il 17% meno efficienti dei manager di aziende equivalenti che sono parte di un grande gruppo industriale. Anche qui (sebbene non necessariamente in tutti i casi) l’apertura del capitale e il trasferimento del controllo dalla famiglia al mercato aumenterebbero la produttività”.
Ohibò. Qualche riga prima, l’editoriale urla a gran voce la necessità del “controllo” della politica sui dirigenti pubblici, che è lo stesso che chiedere l’autodafè di appartenenza al partito da cui dipenderebbe la nomina (che, sostanzialmente, era proprio lo scopo della riforma Madia della dirigenza); poche righe dopo, però, sostiene che la “fedeltà” dei dirigenti nominati dai partiti nelle società partecipate (ricordiamo che Franco Bechis ha svelato l’esistenza di strumenti non proprio meritocratici della loro selezione) è una delle cause dell’inefficienza delle società pubbliche.
E’ troppo chiedere un minimo di coerenza nelle conclusioni tratte in analisi sulle riforme, sull’economia e sulla pubblica amministrazione?
Le proposte di piccole riforma si incentrano, come ovvio (e per tornarvi, come preannunciato) sulla riduzione del perimetro di intervento dello Stato. L’esempio inevitabilmente è quello dell’Atac. Riflette Giavazzi: “Numerosi economisti, negli anni recenti, hanno cercato di quantificare i benefici di queste riallocazioni. Evidentemente, tanto peggiore è l’allocazione da cui si parte, tanto maggiori sono i benefici di anche piccole riallocazioni. Immaginate che il prossimo anno i cittadini romani, chiamati a votare sul referendum per il quale quest’estate i radicali hanno raccolto trentatremila firme, decidano che i trasporti nella Capitale non possano più essere gestiti dall’Atac, ma debbano essere messi all’asta. Supponete che l’asta la vinca Marchionne. Di quanto migliorerebbe la vita dei romani e la loro produttività con un sistema di trasporti pubblici meno simile a quello di Karachi?
Che le società pubbliche chiamate a gestire i servizi pubblici siano altamente indebitate e inefficienti (ma non è il caso di generalizzare: a Milano non è affatto così) è notorio. Ma, se il problema è la politicizzazione dei manager, forse, allora, una “piccola” riforma potrebbe consistere nell’abolire il potere di nomina di sindaci e presidenti di regione. Forse, sarebbe il caso che i manager venissero selezionati con procedure di valutazione dei curriculum, svolte da soggetti totalmente terzi e slegati dalla politica (non è questa la sede per indicare chi e con quali modalità).
La privatizzazione è una modalità possibile, ma non garantisce di per sé l’assenza di legami con la politica, né il pericolo che l’intento, correttissimo, dell’imprenditore di massimizzare i profitti lo induca a scelte gestionali che poi riducano l’estensione dei servizi. Il trasporto ferroviario, con l’eccellenza delle frecce e degli itali, costata incrementi tariffari enormi per gli abbonamenti e il quasi abbandono delle tratte locali, dovrebbe essere di insegnamento.
Anche qui, una conoscenza nemmeno troppo approfondita della Costituzione sarebbe consigliabile. L’articolo 41, comma 2, della Carta dispone che la l’iniziativa economica privata è libera, ma che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. Il successivo articolo 43 ci dà un’idea della nozione di utilità sociale: “servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, che possono perfino essere espropriati.
Allora, una privatizzazione dei servizi potrebbe andare benissimo, a condizione che, però, il privato non tagli quelli che ritiene arbitrariamente “rami secchi” in base ai propri conti economici; la massimizzazione del profitto, da garantire, deve rispettare gli specifici fini dei servizi pubblici, che dovrebbero essere in primo luogo quello dell’estensione massima del beneficio al cittadino. L’esempio dei treni o delle concessioni autostradali dimostra che in Italia fin qui le privatizzazioni hanno consentito di rimettere in piedi i conti dei gestori, ma a costo di penalizzare gravemente la qualità dei servizi.
Servono, quindi, “piccole” riforme? Certo. Ma, se le strade che si vogliono seguire sono ancora quelle di 30 anni di “grandi” riforme fallimentari, meglio cambiare strada e anche iniziare a dare meno ascolto a opinon leader che come un disco rotto ripetono formule, per altro molte volte attuate, dai risultati oggettivamente sotto gli occhi di tutti.
 

 

 


[1] –          Elezione diretta del sindaco e presidente della provincia;
–          Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali;
–          Ordinamento degli enti locali;
–          Legge elettorale regionale;
–          Decentramento amministrativo (pacchetto di riforme-Bassanini);
–          Riforma della scuola 1 (Berlinguer);
–          Riforma della scuola 2 (Brichetto-Moratti);
–          Riforma della scuola 3 (Gelmini);
–          Riforma della scuola 4 (Renzi-Giannini)
–          Riforma del mercato del lavoro 1 (Treu);
–          Riforma del lavoro a tempo determinato, 1, 2 e3;
–          Riforma del mercato del lavoro 2 (cosiddetto pacchetto Biagi);
–          Riforma del lavoro 3 (Jobs Act)
–          Riforma del Titolo V della Costituzione;
–          Riforma delle Fondazioni bancarie;
–          Riforma del condominio 1 e 2;
–          Riforme fiscali:
o       Introduzione dell’Irap;
o       Abolizione dell’Invim;
o       Introduzione dell’Ici;
o       Abolizione Ici sulla prima casa;
o……Iuc, Imu, Tari, Tasi
o       Modifca almeno tre volte delle aliquote Irpef;
o       Dall’Irpeg all’Ires;
o       Riforma a getto continuo delle imposte e tasse locali per i servizi;
o       Condoni di ogni tipo;
–          depenalizzazione del falso in bilancio;
–          riforma dei servizi pubblici locali 2001, 2003, 2006, 2007, 2009, 2010; 2012, 2013 e 2016;
–          riforma della pubblica amministrazione: 1993, 1998, 2001, 2005, 2008, 2009, 2010 e 2017;
–          riforma del procedimento amministrativo: 2005, 2009, 2013 e 2916;
–          riforma del commercio: 1997, 2011 e 2916;
–          riforma del diritto societario;
–          riforma della legge fallimentare;
–          riforme del diritto processuale civile;
–          riforme a getto continuo e senza interruzione del diritto processuale penale;
–          giudici di pace;
–          conciliazione, eliminata e poi ripristinata;
–          espropriazione per pubblica utilità;
–          disciplina dell’edilizia;
–          documentazione amministrativa (autocertificazioni), 2000 e 2012;
–          Durc 2003;
–          Appalti: 1994, 1997, 2000, 2003, 2006, 2008, 2010, 2016 e correttivi vari (per restare solo alle principali);
–          Introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione;
–          Riforma delle telecomunicazioni (legge Gasparri);
–          Privatizzazioni varie;
–          soppressione della leva obbligatoria;
–          riforma dell’Università;
–          riforma del diritto alla privacy;
–          riforma e controriforma delle prestazioni dei medici intramoenia;
–          introduzione delle Agenzie autonome, scoporate dai Ministeri (o ora, trasformazione dell’Agenzia delle entrate);
–          riforma delle pensioni Dini, Maroni, Damiano e Fornero.
–          Riforma elettorale Mattarellum, Porcellum (incostituzionale), Italicum (incostituzionale) e ora il vuoto;
– riforme del codice della strada
– riforma del processo amministrativo
– riforma della sicurezza nei luoghi di lavoro.
L’elenco è, in effetti, sterminato e chiunque, sol che non voglia mentire a se stesso e alla propria intelligenza, sa quali altre aggiungere.
[2] Corriere della Sera del 5 dicembre 2012: “I distruttori delle riforme”.
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