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Passaggio diretto di personale: istituto, detto anche mobilità, dalle molte incognite

 
 
Il tema del passaggio diretto dei dipendenti da un ente all’altro, regolato dall’articolo 30 del d.lgs 165/2001 continua a restare di difficile comprensione ed attuazione per gli operatori.

La causa di tutto ciò risiede nella giurisprudenza e dottrina che nel corso degli anni si sono arroccate nell’interpretazione secondo la quale la mobilità è una cessione di contratto. Per un certo lasso di tempo lo stesso testo dell’articolo 30 del d.lgs 165/2001 disponeva ciò espressamente. Previsione che è stata cancellata (molto opportunamente) dall’articolo 4,comma 1, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014.
Nemmeno la constatazione che il legislatore ha eliminato il riferimento (inopportuno) all’istituto della cessione del contratto è stato sufficiente a comprendere che il passaggio diretto di personale o mobilità è un istituto del tutto peculiare e particolare, che ha solo analogie con le norme del codice civile regolanti la cessione del contratto, ma costituisce una fattispecie del tutto peculiare ed autonoma.
Chi insiste sulla qualificazione della mobilità come cessione del contratto nemmeno considera le previsioni contenute nell’articolo 2, comma 2, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”. Con ogni evidenza, la regolamentazione del passaggio diretto di dipendenti pubblici è senz’altro una “diversa disposizione” da quelle che disciplinano il rapporto di lavoro privato e, dunque, dal codice civile e dalle leggi dell’impresa, ed è contenuta certamente nel d.lgs 165/2001.
Sulla base della semplice interpretazione letterale dell’articolo 30, comma 1, e della ancora più semplice fissazione delle fonti di regolazione del rapporto di lavoro pubblico, non vi deve essere alcun dubbio sulla circostanza che il passaggio diretto è un istituto di diritto pubblico speciale, avente solo alcune analogie rispetto alla cessione del contratto, ma differenziandosi da essa per molti aspetti.
Consideriamo il testo dell’articolo 1406 del codice civile: “Ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta”. Come si nota, la possibilità di cedere il contratto, nell’impianto del codice civile, è rimessa ad entrambe le parti.
Ma, questo è vero nell’ambito del rapporto di lavoro? No. La dottrina e la giurisprudenza consolidata relative al lavoro privato considerano del tutto nulla la cessione del contratto di lavoro da parte del lavoratore subordinato, che sostituisca a sé un altro lavoratore subordinato, secondo lo schema:
datore di lavoro= ceduto
lavoratore subordinato A= cedente
lavoratore subordinato B= cessionario.
La nullità di tale tipologia di cessione del contratto discende dalla natura personale della prestazione del lavoratore.
Pertanto, scopriamo che il diritto del lavoro di per sé già si presenta come speciale rispetto allo schema generale della cessione del contratto, potendo ammettere solo la cessione del contratto ad iniziativa del lavoratore verso solo un altro datore, oppure la cessione ad iniziativa di un datore verso un altro datore (purchè vi sia, ovviamente, il consenso nel primo caso del datore di provenienza e nel secondo caso del lavoratore).
Leggiamo, adesso, l’articolo 30, comma 1, del d.gls 165/2001, per metterlo in rapporto con lo schema dell’articolo 1406 del codice civile: “Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimentoprevio assenso dell’amministrazione di appartenenza. Le amministrazioni, fissando preventivamente i requisiti e le competenze professionali richieste, pubblicano sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno a trenta giorni, un bando in cui sono indicati i posti che intendono ricoprire attraverso passaggio diretto di personale di altre amministrazioni, con indicazione dei requisiti da possedere. […]”.
Si notano differenze abissali tra le due discipline:
Articolo 1406 c.c.
Articolo 30, comma 1, d.lgs 165/2001
Entrambe le parti possono svolgere sia il ruolo di cessionario, sia il ruolo di ceduto, a seconda di chi assuma l’iniziativa e di chi resti passivo
L’iniziativa può essere assunta solo dall’amministrazione di destinazione (cessionario, in analogia al codice civile) e dal lavoratore (cedente). L’amministrazione di provenienza può solo svolgere una funzione passiva, qualificandosi come ceduto.
Poiché entrambe le parti possono essere o cessionario o ceduto, entrambe le parti possono essere chiamate a prestare il consenso alla cessione del contratto.
Nel caso dell’istituto del passaggio diretto, l’assenso è prestato esclusivamente dall’amministrazione di appartenenza del lavoratore che partecipi alla procedura.
L’accordo di ognuna delle due parti di un contratto cedibile viene raggiunto senza alcuna procedura obbligatoria particolare.
L’amministrazione di destinazione è obbligata a pubblicare un avviso pubblico, col quale promuovere la presentazione di una specifica domanda da parte di qualsiasi lavoratore interessato, cui far seguire un sistema di valutazione a cui, ulteriormente consegue la scelta ai fini della prestazione del consenso tra cessionario e cedente.
Nello schema civilistico, l’incontro di volontà tra cedente e cessionario è immediato.
Nello schema del passaggio diretto, il consenso si forma solo a conclusione della selezione delle varie domande presentate dagli interessati a seguito dell’avviso pubblico.
 
Alla luce di quanto sopra, è ovvio che non può essere nemmeno considerato, ai fini della mobilità, un accordo tra l’ente di destinazione e quello di provenienza tale da qualificare i due enti come cedente e cessionario, mentre ceduto è il dipendente. Ciò è radicalmente impedito dalla disposizione normativa che impone all’ente di provenienza di prestare l’assenso al passaggio diretto. Nello schema della cessione del contratto chi presta l’assenso all’accordo di cessione del contratto già raggiunto dalle altre due parti del negozio (che è trilaterale) è sempre, soltanto e solo il ceduto.
Dovrebbe essere più che sufficiente fermarsi solo a queste poche differenze per rassegnarsi definitivamente sulla natura speciale della mobilità pubblica.
Ma vi sono ulteriori fondamentali particolarità. Per esempio, la forma del consenso tra le parti. Poiché si tratta di contratto di lavoro, nel rapporto tra privati è necessaria certamente la forma scritta, in particolare per il consenso del lavoratore ceduto.
Nella pubblica amministrazione, come si è visto sopra, il passaggio diretto ha per parte ceduta solo l’amministrazione di provenienza. Il consenso del ceduto anche in questo caso ed a maggior ragione deve essere prestato per iscritto, poiché tutti gli atti della PA, a pena di nullità, debbono avere la forma scritta.
Ma, questo influisce su un altro tema fondamentale: la revocabilità del consenso prestato.
Con una sentenza relativa alla materia urbanistica, la Corte di cassazione civile, Sezione III, con la sentenza 23 febbraio 2004, n. 3547, ha stabilito che poiché la cessione del contratto è un atto trilatero richiedente il consenso di tutte le parti, e quindi anche del contraente ceduto per il quale è essenziale conoscere il momento dell’efficacia della sostituzione ai fini della liberazione del cedente, qualora il contratto trasferito sia un contratto con la PA, lacessione anche quando sia stata preventivamente autorizzata dal soggetto pubblico non si perfeziona nei suoi confronti fino a quando non le sia stata notificata oppure essa non l’abbia accettata in forma scritta. Infatti, si deve escludere, per i principi che regolano la forma dei contratti in cui interviene la PA, ogni spazio per eventuali comportamenti taciti concludenti.
Quanto stabilito dalla Cassazione vale senz’altro anche per il contratto di lavoro pubblico ed è utilissimo per risolvere un equivoco nel quale molti operatori incappano quando, leggendo l’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001, reperiscono l’espressione “previo assenso”. Secondo questa chiave di lettura erronea, le amministrazioni sarebbero tenute a rilasciare un assenso preventivo alla formazione del consenso tra dipendente che presenta domanda e amministrazione che pubblica l’avviso. Molto diffusa è la prassi – del tutto erronea ed illegittima – delle amministrazioni che pubblicano avvisi per attivare la mobilità i quali pretendono che la domanda dei lavoratori sia corredata appunto del “previo assenso” dell’amministrazione di appartenenza.
Niente di più contrario allo schema previsto dalla norma. L’assenso dell’amministrazione di provenienza non è “previo” all’attivazione della procedura, ma è necessariamente “previo” all’effetto sostitutivo del passaggio diretto. Insomma, il dipendente che abbia presentato domanda non può passare alle dipendenze dell’ente che lo abbia scelto a seguito della procedura, se prima non abbia ottenuto il consenso o “nulla osta”. Ma, perché questo consenso sia validamente espresso così da dare efficacia all’istituto, occorre che l’ente di provenienza sia messo al corrente dell’avvenuto accordo tra dipendente ed amministrazione di destinazione. Quindi, è necessario che l’ente di destinazione o il dipendente stesso notifichino all’amministrazione l’intervenuto accordo, così che sia espresso in forma scritto l’assenso al trasferimento.
Secondo le indicazioni della Cassazione, non è sufficiente un assenso preventivo alla formazione del consenso tra dipendente ed ente di set inazione, seguito dal fatto concludente della presa di servizio presso il nuovo ente.
Ciò chiarisce che l’assenso previo rispetto alla conclusione della procedura “selettiva” in cui consiste la mobilità richiesto dalle amministrazioni procedenti alle amministrazioni di provenienza dei dipendenti è totalmente illegittimo e contrario alle regole di buon andamento e anche di buona fede.
Potrebbe, infatti, accadere che un’amministrazione presti l’assenso “previo” al lavoratore, nel momento in cui questo glielo chieda ai fini della presentazione della domanda. Tale nulla osta potrebbe, in ipotesi, essere rilasciato dal dirigente o responsabile di servizio A (è radicalmente da escludere che il nulla osta sia rilasciato o anche in ogni misura condizionato dagli organi di governo, poiché è un atto di gestione del rapporto di lavoro, rimesso alla competenza esclusiva dei dirigenti, ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del d.lgs 165/2001). Ma, potrebbe anche darsi il caso che nelle more dello svolgimento della procedura “selettiva” da parte dell’amministrazione di destinazione, il dipendente sia interessato da una mobilità interna nel proprio ente e, quindi, giunga sotto la direzione del dirigente B, che non ha alcun modo per giustificare la privazione di un dipendente. L’assenso preventivo, dunque, sarebbe privo di qualsiasi vincolo per l’ente di provenienza, che, rivalutata la situazione alla luce delle intervenute modifiche organizzative interne (si potrebbero fare molti altri esempi) può ben rivedere la propria posizione, finchè non gli pervenga la notifica della conclusione della procedura (è solo con l’intervenuto consenso tra lavoratore ed amministrazione di provenienza che la posizione giuridica del lavoratore da mera aspettativa legittima si qualifichi ad interesse), cui deve necessariamente conseguire un consenso scritto che sia successivo alla formazione del consenso tra lavoratore ed amministrazione di destinazione, ma preventivo alla presa di servizio, con la quale si perfeziona la fattispecie, grazie all’efficacia conseguita dal negozio derivante proprio dalla prestazione del consenso dell’amministrazione ceduta.
Certo, le amministrazioni procedenti sono esposte all’alea dell’inutilità della procedura di mobilità attivata se nessuno dei dipendenti che presentino domanda ottengano il consenso dell’amministrazione di provenienza. Ma, le amministrazioni non possono dirsi certo obbligate a lasciar andar via i propri dipendenti, né questi dispongono di un diritto soggettivo al trasferimento. Al contrario, esiste un obbligo giuridico di esperire un fattivo tentativo di coprire i propri fabbisogni di personale mediante mobilità prima di procedere ad immettere nuovo personale ed aumentare la spesa pubblica. L’onere procedurale è finalizzato al rispetto del principio di legalità e di buon andamento, inteso, in questo caso, come necessario tentativo di esperire la mobilità, tentativo che, però, senza il consenso dell’amministrazione ceduta può andare a vuoto.
Semmai è il legislatore ad aver ecceduto nel pretendere la proceduralizzazione imposta con l’articolo 30, comma 1. Se, come prima dell’introduzione dell’obbligo dell’avviso pubblico – da considerare eccessiva e poco utile perché si tratta solo di mutare le condizioni lavorative di chi già lavora nella PA e non di assumere nuovi dipendenti – si procedesse in modo più diretto ed informale, le probabilità che contatti diretti tra amministrazioni e lavoratori ottengano il consenso dell’amministrazione cedente sarebbero maggiori e, comunque, gli oneri procedurali immensamente inferiori.
Quanto fin qui visto, porta necessariamente a concludere che all’istituto speciale del passaggio diretto o mobilità non si applichi l’articolo 1407 del codice civile, in tema di rilascio preventivo di assenso ai fini della cessione del contratto.
E’, infine, opportuno chiarire che la mobilità volontaria tra dipendenti delle amministrazioni pubbliche deve essere necesariamente preceduta dalla verifica di dipendenti inseriti nelle liste di disponibilità, prevista dall’articolo 34-bis del d.lgs 165/2001.
La disciplina sugli esuberi del personale pubblico, introdotta dalla “spending review”, il d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012, non lascia dubbi sulla necessità di superare il diverso avviso espresso dalla Funzione Pubblica col parere 198/2005 e ritenere obbligatorio per le amministrazioni di verificare se nelle liste di disponibilità siano presenti lavoratori in esubero, prima di effettuare qualsiasi assunzione a qualsiasi titolo, compresa la mobilità.
A suo tempo, Palazzo Vidoni in merito ai rapporti tra articoli 30 (sulla mobilità volontaria) e 34-bis (sulle misure di tutela nel mercato del lavoro per i dipendenti in disponibilità) aveva sostenuto che l’interpretazione più corretta fosse di “escludere l’obbligo di comunicazione preventiva rispetto l’acquisizione di personale in mobilità”. Secondo il parere della Funzione Pubblica, ormai molto risalente nel tempo, poiché la mobilità non comporta l’ingresso di nuove unità nella pubblica amministrazione, bensì uno spostamento tra enti di personale già dipendente, ciò non crea “pregiudizio per i dipendenti in situazione di disponibilità”, dal momento che si copre un posto vacante presso un ente, ma se ne libera simmetricamente un altro, presso un diverso ente.
La motivazione non appariva persuasiva nemmeno all’epoca dell’emanazione del parere, perché influenzata esclusivamente da logiche finanziarie. E’ evidente che per il lavoratore pubblico in disponibilità e, dunque, alle soglie del licenziamento, è fondamentale poter contare sulla possibilità di ricollocarsi in un ente ove sia evidenziata la carenza di organico, piuttosto che in un altro. Condizioni come la distanza dalla residenza, le modalità lavorative, l’organizzazione sono, ovviamente, fondamentali per un incontro domanda offerta.
Altrettanto fondamentale, per un lavoratore alle soglie del licenziamento, è conoscere in anticipo se un ente abbia possibilità ed intenzione di assumere qualcuno, per categoria, profilo e mansione corrispondenti, in modo da potersi proporre per ottenere l’assunzione.
Lo scopo precipuo dell’articolo 34-bis del d.lgs 165/2001 è consentire ai dipendenti in disponibilità di ottenere una proposta di assunzione mediante mobilità obbligatoria, da parte di un’amministrazione che intenda bandire un concorso, così da tirare fuori il dipendente in esubero dal rischio del licenziamento. E’ evidente che se l’articolo 34-bis si esclude dal campo di applicazione delle procedure di mobilità volontaria di cui all’articolo 30 del d.lgs 165/2001, le tutele e le opportunità per il lavoratore in disponibilità si riducono drasticamente. Il che risulta contrastare con un nuovo assetto normativo, introdotto nel 2009, che rende le procedure per mobilità sostanzialmente identiche a quelle dei concorsi, essendo necessario un avviso pubblico. Non pare abbia coerenza ridurre le tutele ai lavoratori in disponibilità ai meri adempimenti obbligatori connessi ad assunzioni per concorsi (sempre più rare), senza coinvolgerli in procedure per trasferimenti, ormai per altro pubbliche.
Il tutto, comunque, non regge più alla luce dell’articolo 2, comma 13, della legge 135/2012. Tale disposizione impone al Dipartimento della Funzione Pubblica di censire e redigere un elenco dei posti vacanti nelle pubbliche amministrazioni, da pubblicare sul relativo sito web. I dipendenti in disponibilità avranno il diritto di presentare domanda di ricollocazione in quei posti vacanti, con simmetrico obbligo di accoglimento, da parte delle amministrazioni, che, in caso contrario “non possono procedere ad assunzioni di personale”.
Non pare più possibile, allora, che un’amministrazione assuma mediante mobilità volontaria, senza curarsi di attuare le previsioni dell’articolo 34-bis. Infatti, visto il diritto soggettivo riconosciuto ad un dipendente in disponibilità di presentare domanda su un posto vacante, se si consentisse all’amministrazione di rendere indisponibile il posto si vulnererebbe il diritto del lavoratore di attivarsi autonomamente, per ricollocarsi.
In ogni caso, ai sensi dell’articolo 4, comma 1 della Costituzione si stabilisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. L’articolo 34-bis è evidentemente attuativo della norma programmatica che impegna la Repubblica a promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro, attraverso, nel caso di specie, una cautela volta a mettere in condizioni chi si trovi alle soglie del licenziamento di avere privilegio rispetto a chi già lavora nella ricollocazione presso altre PA che denuncino vuoti di organico.
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