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Immigrati e case popolari: i numeri contro i miti

 
31.10.17
Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin
 
 

 

Nelle graduatorie per le case popolari gli stranieri sono spesso ai primi posti. Perché hanno redditi nettamente inferiori agli italiani e perché molte famiglie italiane hanno già una casa di proprietà. Ben diversi i numeri delle reali assegnazioni.

 

Politiche abitative in Italia

Il fenomeno migratorio è ovunque accompagnato da timori sulla equa distribuzione dei servizi di welfare. In Italia uno dei più sentiti riguarda l’assegnazione delle case popolari, sia per la forte visibilità a livello locale, sia perché il patrimonio immobiliare pubblico del nostro paese è scarso.

Le assegnazioni sono di competenza dei singoli comuni e si basano soprattutto su criteri di reddito, prendendo però in considerazione anche gli eventuali elementi di disagio sociale nei nuclei familiari (come presenza di anziani, disabili, genitori separati con figli). È una realtà frammentata che rende difficile ottenere dati complessivi a livello nazionale. Dati ufficiali di Federcasa (2014) indicano 770mila alloggi in locazione, più 50mila a riscatto e 108mila alloggi non residenziali in locazione.

Nelle città medio-grandi la presenza degli stranieri nelle case popolari si concentra in alcuni quartieri e dà luogo a contenziosi condominiali legati anche a diversi stili di vita. Nell’opinione pubblica si è così radicato l’assioma secondo cui la presenza degli immigrati nelle case popolari è sovradimensionata, penalizzando le fasce più povere della popolazione italiana.

Questa convinzione ha portato molti comuni a introdurre tra i criteri di assegnazione la residenza da alcuni anni (in alcuni casi è condizione indispensabile), che penalizza pure gli italiani provenienti da comuni limitrofi. Sono intervenute anche alcune regioni, con normative che in genere si attestano sui cinque anni di residenza (coincide con il permesso di soggiorno di lunga durata previsto dalla normativa europea). La Lombardia chiede inoltre di dimostrare di non essere proprietari di casa nel paese d’origine, elemento non sempre facile da provare (specie per i titolari di protezione internazionale, che non possono fare richiesta alle autorità del proprio paese). Numerosi piccoli comuni, soprattutto in Veneto, hanno adottato regolamenti che richiedono più di dieci anni di residenza.

Timori infondati?

Si tratta di timori giustificati? E quali provvedimenti si possono adottare per evitare l’ennesimo conflitto tra poveri? In realtà, il confronto tra stranieri residenti e presenze nelle case pubbliche trascura (spesso volutamente) il contesto di partenza, almeno per tre elementi chiave.

Prima di tutto, la differenza di reddito. Dai dati relativi alle dichiarazioni 2016, si ricava che mediamente un contribuente straniero dichiara 13.629 euro annui, contro i 21.386 degli italiani: una differenza di quasi 8mila euro medi, con picchi di 10mila euro in alcune regioni, specie al Nord.

In secondo luogo, gli stranieri spesso non dispongono della rete familiare e di conoscenze che per gli italiani rappresenta un’ancora di salvezza nei periodi di difficoltà (basti pensare al ruolo di garante nell’accesso al mutuo).

Il terzo elemento, riguarda la proprietà della casa: secondo un’indagine della Banca d’Italia (2014), tra gli stranieri solo il 23,4 per cento è proprietario dell’abitazione principale, contro il 78,6 per cento degli italiani.

Ecco dunque spiegato perché la partecipazione degli stranieri ai bandi per l’assegnazione di case popolari è molto più alta, avvicinandosi spesso alla metà del totale. Alcuni anni fa, il comune di Bologna aveva calcolato che mediamente presenta la domanda per un alloggio pubblico una famiglia straniera su cinque, contro una sola famiglia italiana su cinquanta.

I criteri legati al reddito fanno sì che nelle graduatorie le famiglie straniere risultino spesso ai primi posti, con percentuali che al Nord arrivano attorno al 30 per cento degli alloggi disponibili.

In realtà, se consideriamo le reali assegnazioni agli stranieri le percentuali risultano alquanto ridimensionate, principalmente per il fatto che gli alloggi residenziali pubblici sono quasi sempre di piccole dimensioni, mentre le famiglie straniere sono di norma numerose. Si aggiunge poi il problema dello scarso ricambio, per cui molti beneficiari (e a volte i loro figli e nipoti) mantengono la casa popolare anche una volta persi i requisiti, penalizzando i nuovi richiedenti.

La ricerca Federcasa ha calcolato la presenza di 142mila stranieri “extracomunitari” su due milioni di inquilini totali (7 per cento), mentre sono 413mila gli anziani sopra i 65 anni e 145mila i disabili. Anche aggiungendo un 20 per cento in più di possibili presenze rumene (paese comunitario), il totale degli stranieri si attesta sull’8,5 per cento del totale, di fatto in linea con l’incidenza degli stranieri residenti oggi in Italia (8,3 per cento).

L’allarme sulle presenze straniere nelle case pubbliche appare quindi fortemente esagerato, con chiare motivazioni politiche. Allo stesso modo, l’ipotesi di graduatorie separate è irrealizzabile per evidenti presupposti di incostituzionalità. Anche la regola dei cinque anni di residenza ha dato risultati parziali e ne darà sempre meno perché ormai la maggioranza dei cittadini stranieri possiede il requisito.

In un paese con circa 7 milioni di alloggi sfitti (Istat, censimento 2011) la soluzione non può essere quella di nuove costruzioni, ma va ricercata in accordi tra Anci, singoli comuni e associazioni di costruttori per permettere di ampliare il patrimonio di alloggi popolari, a costi non proibitivi, partendo da quelli già esistenti e ampliando le agevolazioni fiscali per i contratti a canone concordato, che in alcune città sono già la maggioranza.

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