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Riforma Tupi: più netta la demarcazione tra fonti normative e contrattuali

di Paola Cosmai – Dirigente Avvocato S.S.N.

 

Dopo il parere favorevole della Conferenza Unificata il 6 aprile 2017 e del Consiglio di Stato il 21 aprile 2017, col n. 916 (Cosmai, Consiglio di Stato e riforma del pubblico impiego: bocciate le “linee guida ministeriali”, su Questo Quotidiano 15 maggio 2017) anche la Commissione parlamentare permanente “Affari Costituzionali” nella seduta del 2 maggio 2017 ha dato il suo assenso alla bozza di riforma Madia circolata nelle ultime settimane e solo in pochi punti ritoccata dal Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, pubblicato nella G.U. 7 giugno 2017, n. 130.

La riforma, come evidenziato dal Parlamento con gli artt. 123 e 11 – sintonia con l’accordo siglato dal Governo con le organizzazioni sindacali il 30 novembre 2016 – intende realizzare un riequilibrio tra le fonti che disciplinano i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, onde affidare un ruolo più incisivo alla contrattazione collettiva soprattutto con riferimento alle misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro che determinano ricadute sui diritti e sulle tutele dei dipendenti, limitando per certi versi il processo di rilegificazione intrapreso dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 150. Al contempo, però, riduce l’ambito di intervento negoziale ristretto a determinate materie.

L’assetto delle fonti disegnato dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75

Il Capo I della riforma dedicato alla “Disciplina delle fonti” novella gli artt. 25 e 30D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (da ora anche Tupi) in maniera circoscritta ma determinante.

L’art. 1, in particolare, incide sul comma 2, secondo periodo, dell’art. 2D.Lgs. n. 165 del 2001, e modifica il rapporto tra fonti normative e negoziali stabilendo che eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili.

Invero anche la vecchia versione dell’art. 2, comma 2 cit., sacramentava la possibilità per i contratti collettivi di derogare disposizioni normative che disciplinassero specifici aspetti del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con l’effetto di renderle inapplicabili, tuttavia essa era limitata solo dalla espressa previsione della legge di tale facoltà derogatoria; viceversa, la recente novella, da un lato, restringe detto potere negoziale di deroga normativa alle sole materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’altrettanto novellato art. 40 Tupi e, dall’altro, impone in ogni caso il rispetto dei principi fissati dal D.Lgs. n. 165 del 2001.

Detto in altri termini, mentre secondo il precedente assetto la singola norma, di volta in volta, poteva prevedere la derogabilità da parte dei contratti collettivi, alla stregua della riforma Madia non sarà necessaria tale espressa previsione, tuttavia la derogabilità è in via preventiva e generale circoscritta alle materie oggetto di contrattazione individuate nell’art. 40 Tupi.

Innovazione di rilievo essendo evidente che, a fronte di una più netta ed auspicata demarcazione dei rispettivi confini delle fonti normative e pattizie, l’intervento di queste ultime si riduce a monte in maniera stabile, senza aperture in itinere, giacchè esse dovrebbero passare per un espressa modifica ampliativa degli istituti rimessi alla disciplina paritetica dall’art. 40 cit.

Il nuovo art. 2, comma 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165

(in grassetto le modifiche apportate dall’art. 1D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75)

2. I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili.

Tanto spiega la necessità per la riforma Madia di intervenire anche sugli artt. 5 e 30 del Tupi.

L’art. 5, infatti, in ordine al potere di organizzazione degli uffici l’ha sin dall’origine assegnato in via esclusiva alla Pubblica Amministrazione, prevedendo solo l’esame congiunto di quelle misure incidenti sui rapporti di lavoro ed escludendo pertanto condivisioni paritetiche con le parti sindacali. Con la novella, invece, se per un verso viene eliminato l’esame congiunto, per altro verso è introdotto l’obbligo dell’informativa o di altre forme di partecipazione previste dai contratti di cui all’art. 9 su tutte le determinazioni aventi ad oggetto l’organizzazione degli uffici e la gestione dei rapporti di impiego.

Il nuovo art. 5, comma 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165

(in grassetto le modifiche apportate dall’art. 1D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75)

2. Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro nel rispetto del principio di pari opportunità, e in particolare la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici, sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione ove previsti nei contratti di cui all’art. 9.

Del pari l’art. 30 del Tupi, avente ad oggetto la disciplina della mobilità, sottratta al potere negoziale delle parti, viene modificato dall’art. 3 della riforma Madia laddove sancendo che i contratti collettivi nazionali possono integrare le procedure e i criteri generali per l’attuazione del passaggio diretto di personale tra gli enti estende la contrattazione a tale materia, prima esclusa e che, in mancanza, avrebbe continuato ad esserlo ai sensi del novellato assetto delle fonti perché non inserita nell’ambito dell’art. 40 cit.

Il richiamato articolo, dopo le modifiche apportate dall’art. 11D.Lgs. n. 75 del 2017, al comma 1, precisa, da un lato, che nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge (con ciò riallacciandosi al novellato art. 2 cit.); e, dall’altro lato, che sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti:

– all’organizzazione degli uffici;

– a quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’art. 9;

– a quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli artt. 5, comma 2, 16 e 17;

– alla materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali;

– nonché a quelle di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), L. 23 ottobre 1992, n. 421.

Il nuovo art. 30, comma 2.2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165

(in grassetto le modifiche apportate dall’art. 3, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75)

2.2. I contratti collettivi nazionali possono integrare le procedure e i criteri generali per l’attuazione di quanto previsto dai commi 1 e 2. Sono nulli gli accordi, gli atti o le clausole dei contratti collettivi in contrasto con le disposizioni di cui ai commi 1 e 2.

Il nuovo modello di contrattazione

Il D.Lgs. n. 75 del 2017 incide anche sui rapporti tra le fonti pattizie, recependo le esigenze di contenimento della spesa e di raccordo tra i diversi livelli di contrattazione che la prassi ha mostrato deficitarie, nonostante l’art. 40 del Tupi avesse disposto sin dall’origine che i contratti decentrati (da qui Ccdi) non potessero disciplinare materie ulteriori rispetto a quelle assegnate dai contratti collettivi nazionali (anche Ccnl) e prevedere trattamenti economici aggiuntivi rispetto a quelli da questi ultimi fissati a pena di nullità.

Fenomeno, quello della deroga esorbitante, ancorchè nulla, che in considerazione della sua diffusione con conseguente esposizione erariale delle amministrazioni, aveva reso manifesta l’inutilità sotto il profilo economico della sanzione comminata, non riuscendo il datori di lavoro pubblici a recuperare il surplus di retribuzione erogata ai dipendenti.

Da ciò, dunque, un primo tentativo del Governo di risolvere la questione con l’art. 4D.L. 6 marzo 2014 n. 16, convertito con modifiche dalla L. 2 maggio 2014 n. 68, intitolato “Misure conseguenti al mancato rispetto di vincoli finanziari posti alla contrattazione integrativa e all’utilizzo dei relativi fondi” (cd. decreto Salva Roma).

Disposizione che, in qualche modo, ha traslato gli effetti delle violazioni finanziarie dei Ccdi sui fondi futuri, scongiurando i recuperi individuali.

L’art. 4 cit., in particolare, disponeva che:

– le regioni e gli enti locali che non avessero rispettato i vincoli finanziari posti alla contrattazione collettiva integrativa fossero obbligati a recuperare integralmente, a valere sulle risorse finanziarie a questa destinate, rispettivamente al personale dirigenziale e non dirigenziale, le somme indebitamente erogate mediante il graduale riassorbimento delle stesse, con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle in cui si fosse verificato il superamento di tali vincoli (in dette ipotesi, le regioni avrebbero potuto adottare misure di contenimento della spesa per il personale, con piani di riorganizzazione finalizzati alla razionalizzazione e allo snellimento delle strutture burocratico-amministrative);

– le Regioni e gli enti locali avrebbero dovuto trasmettere entro il 31 maggio di ciascun anno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica, al Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato e al Ministero dell’interno – Dipartimento per gli affari interni e territoriali, ai fini del relativo monitoraggio, una relazione illustrativa ed una relazione tecnico – finanziaria in merito al rispetto dei vincoli finanziari ed alle misure contenitive adottate;

– le regioni e gli enti locali che avessero rispettato il patto di stabilità interno avrebbero potuto compensare le somme da recuperare anche attraverso l’utilizzo dei risparmi effettivamente derivanti dalle misure di razionalizzazione organizzativa di cui sopra;

– infine, fermo restando l’obbligo di recupero predetto, non si sarebbero applicate le disposizioni di cui al quinto periodo del comma 3-quinquies dell’art. 40 del Tupi, agli atti di costituzione e di utilizzo dei fondi, comunque costituiti, per la contrattazione decentrata adottati anteriormente ai termini di adeguamento previsti dall’art. 65D.Lgs. n. 150 del 2009 (ossia fino al 31 dicembre 2012).

Successivamente, irrisolti i nodi e le perdite determinati dalla Ccdi, la L. 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», in Gazzetta Ufficiale 30 dicembre 2015, n. 302, Supplemento Ordinario n. 70, si è nuovamente occupata della questione cercando – invano, secondo quanto si registra a distanza di un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore – di agevolare i recuperi erariali.

In particolare, l’art. 1, comma 226, della legge di stabilità per l’anno 2016, ha previsto che «Le regioni e gli enti locali che hanno conseguito gli obiettivi di finanza pubblica possono compensare le somme da recuperare di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 del decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 maggio 2014, n. 68, anche attraverso l’utilizzo dei risparmi effettivamente derivanti dalle misure di razionalizzazione organizzativa adottate ai sensi del comma 221, certificati dall’organo di revisione, comprensivi di quelli derivanti dall’applicazione del comma 228».

In buona sostanza, dunque, un incentivo a razionalizzare e snellire gli apparati burocratici, i cui risparmi di spesa potranno essere scomputati dalle somme stanziate in surplus per i fondi destinati alla C.c.d.i. e non ancora recuperati secondo le modalità del cd. decreto Salva Roma.

E su tale tracciato che si inserisce il comma 3 quinquies ultimo periodo inserito dal D.Lgs. n. 75 del 2017, secondo cui, in caso di superamento dei vincoli finanziari accertato da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica e del Ministro dell’economia e delle finanze, è fatto obbligo di recupero nell’ambito della sessione negoziale successiva, con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle di cui si è verificato il superamento di tali vincoli.

Tuttavia, il D.Lgs. n. 75 del 2017 onde non pregiudicare l’ordinaria prosecuzione dell’attività delle amministrazioni interessate, fissa la percentuale massima di recupero nel 25% delle risorse destinate alla contrattazione integrativa ovvero la dilatazione del termine di recupero fino a cinque anni, a condizione che adottino le misure di contenimento della spesa di cui forniscano dettagliata relazione da allegare al conto consuntivo di ciascun anno in cui è effettuato il recupero.

La riforma, inoltre, obbliga i Ccnl a prevedere apposite clausole che impediscano incrementi della consistenza complessiva delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori qualora i dati sulle assenze, a livello di amministrazione o di sede di Ccdi, rilevati a consuntivo, evidenzino, anche con riferimento alla concentrazione in determinati periodi in cui è necessario assicurare continuità nell’erogazione dei servizi all’utenza o, comunque, in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, significativi scostamenti rispetto a dati medi annuali nazionali o di settore.

Infine, il D.Lgs. n. 75 del 2017 prevede la semplificazione del calcolo dei fondi predetti che, secondo il neo introdotto comma 4-ter dell’art. 40 cit., è affidato ai Ccnl che dovranno provvedere al riordino, alla razionalizzazione ed alla semplificazione delle discipline in materia di dotazione ed utilizzo dei fondi destinati ai Ccdi.

Il nuovo art. 40D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165

(in grassetto le modifiche apportate dall’art. 11D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75)

1. La contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si svolge con le modalità previste dal presente decreto. Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti dalle norme di legge. Sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli artt. 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), L. 23 ottobre 1992, n. 421.

3-bis. Le pubbliche amministrazioni attivano autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa, nel rispetto dell’art. 7, comma 5, e dei vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. La contrattazione collettiva integrativa assicura adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance destinandovi, per l’ottimale perseguimento degli obiettivi organizzativi ed individuali, una quota prevalente delle risorse finalizzate ai trattamenti economici accessori comunque denominati ai sensi dell’art. 45, comma 3. A tale fine destina al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato Essa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono; essa può avere ambito territoriale e riguardare più amministrazioni. I contratti collettivi nazionali definiscono il termine delle sessioni negoziali in sede decentrata. Alla scadenza del termine le parti riassumono le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e decisione.

Comma 3-quater abrogato.

3-quinquies …. In caso di superamento dei vincoli finanziari accertato da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica e del Ministro dell’economia e delle finanze è fatto altresì obbligo di recupero nell’ambito della sessione negoziale successiva, con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle di cui si è verificato il superamento di tali vincoli. Al fine di non pregiudicare l’ordinaria prosecuzione dell’attività amministrativa delle amministrazioni interessate, la quota di recupero non può eccedere il 25 per cento delle risorse destinate alla contrattazione integrativa ed il numero di annualità di cui al periodo precedente, previa certificazione degli organi di controllo di cui all’art. 40 bis, comma 1, è corrispondentemente incrementato. In alternativa a quanto disposto dal periodo precedente, le regioni e gli enti locali possono prorogare il termine per procedere al recupero delle somme indebitamente erogate, per un periodo non superiore a cinque anni, a condizione che adottino o abbiano adottato le misure di contenimento della spesa di cui all’art. 4, comma 1, D.L. 6 marzo 2014, n. 16, dimostrino l’effettivo conseguimento delle riduzioni di spesa previste dalle predette misure, nonché il conseguimento di ulteriori riduzioni di spesa derivanti dall’adozione di misure di razionalizzazione relative ad altri settori anche con riferimento a processi di soppressione e fusione di società, enti o agenzie strumentali. Le regioni e gli enti locali forniscono la dimostrazione di cui al periodo precedente con apposita relazione, corredata del parere dell’organo di revisione economico-finanziaria, allegata al conto consuntivo di ciascun anno in cui è effettuato il recupero.

4-bis. I contratti collettivi nazionali di lavoro devono prevedere apposite clausole che impediscono incrementi della consistenza complessiva delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori, nei casi in cui i dati sulle assenze, a livello di amministrazione o di sede di contrattazione integrativa, rilevati a consuntivo, evidenzino, anche con riferimento alla concentrazione in determinati periodi in cui è necessario assicurare continuità nell’erogazione dei servizi all’utenza o, comunque, in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, significativi scostamenti rispetto a dati medi annuali nazionali o di settore.

4-ter. Al fine di semplificare la gestione amministrativa dei fondi destinati alla contrattazione integrativa e dì consentirne un utilizzo più funzionale ad obiettivi di valorizzazione degli apporti del personale, nonché di miglioramento della produttività e della qualità dei servizi, la contrattazione collettiva nazionale provvede al riordino, alla razionalizzazione ed alla semplificazione delle discipline in materia di dotazione ed utilizzo dei fondi destinati alla contrattazione integrativa.

D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75 (G.U. 7 giugno 2017, n. 130)

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