07/02/2017 – Produttività del personale pubblico: cara legge Brunetta quanto ti odio, tanto ti amo

Produttività del personale pubblico: cara legge Brunetta quanto ti odio, tanto ti amo

 
 
L’ex Ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta dovrebbe essere contento. Tutto quello che ha seminato in passato con la sua riforma, il d.lgs 150/2009, nonostante la nuova inquilina di Palazzo Vidoni annunci una “riforma epocale” della pubblica amministrazione, ha messo saldissime radici, inestirpabili.

I temi della “riforma epocale” targata Madia, infatti, sono sempre gli stessi due: “fannulloni” (leggasi normativa sugli accertamenti medici per gli assenti per malattia” e “performance”, orrida parola per definire in un lemma solo il problema estremamente complesso della valutazione della produttività nel lavoro pubblico.
Ovviamente, la riforma Madia tutto è tranne che epocale e il rimestamento continuo di temi propagandati da anni difficilmente farà fare anche un solo passo in avanti all’efficienza nella PA: le esperienze passate delle altre “riforme epocali” (circa una quindicina) che hanno preceduto la “riforma epocale” Madia, dovrebbe insegnare che se non si cambia percorso, qualsiasi riforma che insista sempre sugli stessi argomenti è destinata a lasciare la PA dov’è. Con tutti i suoi problemi aperti: il che fa comodissimo, poi agli “inchiestisti” e alla stampa generalista che può parlare ogni sei mesi di “riforma epocale” e di “stretta per il pubblico impiego”: slogan un po’ vuoti, ma molto accattivanti nelle arene chiassose delle televisioni.
Trascuriamo qui il versante delle visite fiscali, evidenziando che rispetto al tema delle assenze per malattia l’unica soluzione è un tutor personalizzato per ognuno dei 3 milioni dei dipendenti pubblici: suggeriamo di affiancare a ciascun dipendente un pedinatore-medico, che lo segua passo passo, in ogni momento della giornata. Sarebbe anche un’ottima occasione per rilanciare l’occupazione in Italia.
Per quanto concerne, invece, i “premi” per la produttività, dai giornali trapela la notizia: il Governo, d’accordo con i sindacati sulla base dell’accordo prereferendario (che non è servito a molto) del 30 novembre 2016, aveva assunto l’impegno inderogabile di eliminare le famigerate fasce di valutazione previste dal d.lgs 150/2009: quel meccanismo di stampo dirigista secondo il quale il 50% delle risorse per i “premi” debbono andare al 25% dei dipendenti; il restante 50% deve essere distribuito tra un 50% dei dipendenti, in modo che al restante 25% dei dipendenti non vada alcun premio.
Ma l’impronta “brunettiana” a Palazzo Vidoni è ancora troppo forte. Che nostalgia desta il sistema forzoso di divisione dei dipendenti pubblici in capaci, mediocri ed incapaci. Dunque, pare che la scelta non sarà proprio quella razionale di abbandonare per sempre, annullandone il ricordo, un sistema forzato come quello delle fasce. A Palazzo Vidoni l’idea che vi sia un 25% di dipendenti pubblici che si stagli rispetto a tutti gli altri piace davvero tantissimo.
Quindi, l’idea è di ridurre le fasce da tre a due. Nella prima andrebbe appunto il 25% dei dipendenti molto bravi, ai quali distribuire il 50% dei fondi per la produttività; nella seconda si assesterebbe il restante 75% del personale, al quale assegnare il rimanente 50% dei fondi.
La convinzione radicata e inderogabile è che così solo si possa valorizzare i capaci, che si presumono essere presenti appunto in una quantità del 25%: né il 24%, né il 26%, ma proprio il 25%. Anche se la “limatura” delle percentuali dei fondi da assegnare alle due fasce di dipendenti pare potrà essere di competenza dei contratti collettivi decentrati aziendali.
Si sarebbe, per la verità, ancora in tempo per scongiurare che vengano ripetute ancora una volta scelte legislative esiziali. Basterebbe avere quel minimo di prudenza e cognizione dei fatti, per comprendere che la forzatura negli esiti delle valutazioni è solo fonte di problemi e non riesce in alcun modo a cogliere l’obiettivo voluto della valorizzazione dei capaci.
Pensiamo alla questione delle percentuali. Il Legislatore dispone dall’alto della sua torre d’avorio, incurante delle dinamiche operative e gestionali. I “premi” dovrebbero essere una leva esclusivamente gestionale, totalmente al di fuori di regole normative che non siano connesse a soli limiti di finanza pubblica, lasciata al dirigente per realizzare azioni di incentivazione mirate e anche diversificate a seconda della dimensione dell’ufficio diretto, delle attività svolte e della stessa misurabilità dei risultati previsti. La forzatura sugli esiti della valutazione, più che dare come risultato un apprezzamento per il 25% dei dipendenti con valutazioni più elevate, finirebbe per certo per demotivare il rimanente 75% dei dipendenti. Il sistema immaginato, dunque, produrrebbe l’effetto deleterio di una schiacciante maggioranza dei dipendenti che si sentirebbe forzosamente considerata come mediocre e deprezzata. A tutto svantaggio della “managerialità” e della “capacità di unire e motivare” che si chiede alla dirigenza.
In secondo luogo, il Legislatore evidentemente non conosce le dinamiche della contrattazione decentrata nelle amministrazioni pubbliche. La fissazione obbligatoria di fasce di valutazione scatenerebbe con ogni certezza la micidiale richiesta sindacale di una “rotazione” periodica dei dipendenti da inserire tra il 25% dei più efficienti, in modo appunto da sedare in qualche misura il malcontento del restante 75% e fornire a tutti la possibilità ogni tre anni circa di ricevere un premio più sostanzioso.
Ovviamente, simile richiesta non sarebbe rituale e non rientrerebbe nemmeno nelle relazioni sindacali lecite, visto che i contratti decentrati non debbono occuparsi della materia dell’individuazione di “chi” possa ottenere la produttività. Ma, si potrebbe scommettere qualsiasi cifra, che le organizzazioni sindacali chiederanno con insistenza meccanismi di quel genere, adottando allo scopo ogni strumento ostruzionistico, ivi compresa la mancata sottoscrizione dei contratti decentrati. Evento, questo, che, poi, produce effetti assolutamente deleteri, come l’impossibilità di assumere la spesa e la perdita delle risorse (o il rischio di danno erariale molto forte), oppure la strada necessitata dell’atto unilaterale (che però l’accordo del 30 novembre vorrebbe si eliminasse) sostitutivo del contratto, dal quale però deriverebbe un’ulteriore recrudescenza di relazioni sindacali compromesse. Ne vale la pena?
Ancora, il Legislatore evidentemente non tiene conto che non esiste, in realtà, un fondo unico della produttività. In modi e misure molto differenziate, le amministrazioni frazionano il fondo in tanti sub-fondi, assegnandoli alle strutture amministrative di vertice, allo scopo di scongiurare i pericoli della disomogeneità delle valutazioni tra dirigenti, da un lato, e di avvicinare la quantità delle risorse per premiare la produttività al valore ipotetico dei progetti previsti dai piani di gestione e anche a criteri di quantificazione del personale in dotazione. Non solo: vi sono anche molte amministrazioni che attivano una produttività “collettiva”, come prevedono i contratti collettivi, finalizzata ad incentivare gruppi di lavoro. Anche in un gruppo di lavoro chiamato a conseguire un risultato di gruppo e, dunque, complessivo e non individuale, si dovrebbe differenziare il 25% dal restante 75%? E se quelli davvero bravi fossero solo il 10%? E se, invece, tutti avessero dato esattamente il massimo previsto dalla progettazione operativa? E come gestire l’obbligatoria divisione tra 25% di bravi e 75% di mediocri tra diversi fondi, se poi aggregando i dati magari quelle percentuali non sono poi rispettate? Ancora una volta: ne vale la pena?
Infine, consigliamo vivamente al Legislatore, convinto di riformare in modo “epocale” il lavoro pubblico con piglio aziendalista ed utilizzando le “migliori pratiche” del “privato”, di leggere il volume prodotto da Adapt “Il premio di risultato nella contrattazione aziendale”. Si potrebbe scoprire che nel privato sistemi forzati e dirigistici di assegnazione dei premi come quelli previsti dal d.lgs 150/2009 e che verrebbero di fatto confermati dalla riforma “epocale” Madia non li sognano nemmeno.
Il premio di risultato nel privato è congegnato in modo estremamente semplice: i contratti decentrati definiscono l’ammontare massimo che il datore è disposto ad assegnare ai dipendenti, raggiunti pochissimi (di solito, al massimo 3) indicatori di produttività. I premi sono assegnati in maniera trasversale pro capite, in modo indifferenziato, perché si parte dalla logica che se l’azienda nel suo complesso ottiene gli obiettivi preventivati, tutti hanno contribuito allo scopo. Le differenziazioni tra dipendenti per lo più discendono dalla misurazione della presenza in servizio: in generale i contratti prevedono che oltrepassate alcune soglie di assenza, il premio viene progressivamente ridotto secondo percentuali fissate sempre dalla contrattazione decentrata.
Le aziende non possono permettersi il lusso né di attivare sistemi di valutazione bizantini e complessi come quelli imposti dalla normativa, né di pagare Nuclei di valutazione o Organismi Indipendenti di valutazione, né ancor meno di creare diffuso malcontento tra i dipendenti.
Tra l’altro, le notizie che in questi giorni diffondono i giornali forniscono indicazioni paradossali proprio sulle assenze. Infatti, pare che la riforma (epocale, sia chiaro), allo scopo di combattere l’assenteismo, prevederà l’obbligo di ridurre l’ammontare delle risorse da destinare alla produttività, qualora il tasso delle assenze dei dipendenti (dell’ente o di settori dell’ente? Non si è al momento in grado di capirlo) risulti superiore a standard medi rilevati.
Pertanto, accade il surreale: nel privato, le aziende definiscono un ammontare pro capite che “mettono in palio” tra i dipendenti, chiarendo loro regole oggettive di riduzione progressiva legati ad eventi di assenze individuali; invece, nel pubblico, avverrebbe il paradosso che dipendenti molto presenti si vedrebbero comunque ridotto l’ammontare del premio perché il tasso di assenza (causato da altri) potrebbe rivelarsi troppo elevato. Con l’ulteriore assurdità che mentre si nega valore alla valutazione collettiva di gruppo, insistendo sulle “pagelle” e la differenziazione forzata in “bravi” e “mediocri”, si persegue, invece, un risultato collettivo quando esso è negativo, invece di incentivare la presenza sul lavoro con decurtazioni ai singoli dipendenti, programmate in base ad un certo tasso di assenze individuali, come appunto avviene nel privato[1].
Non sarebbe molto difficile, per favorire la differenziazione nelle valutazioni, imporre ai dirigenti formule molto semplici: imporre di distribuire quanto più possibile la forcella dei punteggi disponibili per la valutazione (se si dirigono 30 dipendenti, richiedere che vi siano almeno 10 livelli di range); o anche, convincere Corte dei conti, Mef ed Aran che il sistema del “privato” sulle presenze è utilizzabile e giustificabile e ridurre i premi in considerazione delle assenze individuali di servizio; o, ancora, puntare alla valorizzazione di alcuni dipendenti che si distinguano particolarmente, abbandonando per sempre l’idea delle “fasce”, ma migliorando la funzionalità di un istituto già esistente e anch’esso previsto dalla riforma Brunetta: il “bonus annuale delle eccellenze” attualmente previsto dall’articolo 21 del d.lgs 150/2009, utilizzando allo scopo una quota obbligatoria delle risorse destinate alla produttività (sia che sia finanziata solo dalla parte fissa dei fondi del salario accessorio, sia che sia finanziata anche dalle risorse di parte variabile).
Ovviamente, molte altre potrebbero essere le misure per rendere la valutazione una cosa, finalmente, ad un tempo seria e semplice e realmente incentivante. Dovremo aspettare altre decine di “riforme epocali” per capire quello che nel “privato”, sempre inseguito e sempre pessimamente scimmiottato, hanno capito da sempre?
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