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Licenziamento legittimo per il dipendente pubblico che denunci ipotesi di corruzione rilevatesi del tutto infondate
di Federico Gavioli – Dottore commercialista, revisore legale dei conti e giornalista pubblicista

 

Anche se dopo la riforma Severino di cui alla L. n. 190 del 2012 e s.m.i., i dipendenti pubblici devono cooperare per denunciare elementi di possibile corruzioni all’interno dell’ente in cui lavorano, nei casi di eccessivo zelo per il funzionario pubblico che denunci alla Procura presunti illeciti, può scattare il licenziamento per giusta causa; è quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la Sent. n. 1752, del 24 gennaio 2017.

La vicenda vede coinvolti un funzionario architetto e il Comune da cui dipendeva.

La Corte di appello con sentenza del 2014, ha respinto l’appello proposto da un funzionario architetto e così ha confermato la pronuncia dì primo grado, con cui il Tribunale aveva dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato dal Comune , del quale l’architetto ricorrente era dipendente, con qualifica di tecnico comunale responsabile del lavori pubblici e inquadramento nella VIII qualifica funzionale.

La condotta contestata al funzionario dell’ente locale era quella di avere inviato la memoria difensiva nel dicembre del 2000, da lui presentata a giustificazione di quanto oggetto di una precedente contestazione disciplinare, alla Procura della Repubblica , alla Prefettura e alla competente Soprintendenza ai beni architettonici, circa pretese illegittimità commesse dall’amministrazione comunale. Il Comune aveva ritenuto che tale comportamento fosse contrario all’obbligo di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c., da coordinarsi con i principi generati di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., stante il contenuto della memoria stessa, diretto a gettare discredito su detta amministrazione.

La Corte di appello aveva ritenuto che il lavoratore, inviando la memoria a soggetti estranei all’amministrazione comunale, avesse posto in essere un atto esorbitante dalle finalità del procedimento disciplinare ed avesse adombrate anche presunti illeciti dell’amministrazione idonei a screditarla e della cui veridicità, anche solo putativa, non vi era prova.

Per i giudici di secondo grado la trasmissione di tale memoria costituiva un comportamento non giustificato, posto in essere senza alcuna necessità, se non la volontà di proseguire l’opera di discredito del datore di lavoro, iniziata con la denuncia di asserite violazioni edilizie del 24 luglio 2000. Tale denuncia non aveva avuto alcun esito, se non la nota riservata con richiesta di chiarimenti ricevuta dal Comune da parte della Prefettura, con cui l’Ente locale ebbe notizia dell’iniziativa del suo dipendente. Il comportamento integrava, pertanto, una violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.; “(……) le affermazioni contenute nella memoria insinuavano nel lettore la convinzione di una gestione oscura, opaca e per non dire del tutto illegittima del Comune da parte dei suoi vertici istituzionali, primo fra tutti dei sindaco, che spaziano dall’asseriva manipolazione del protocollo, alla lamentata correzione di delibere di giunta, dal contenzioso con i cittadini nel settore delle concessioni edilizie a pretese variazioni del piano regolatore adottate in modo illegittimo e così via”.

La Corte territoriale ha concluso che il comportamento era di gravita tale da giustificare la massima sanzione disciplinare, avuto riguardo al grado di affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore ed all’intensità dell’elemento intenzionate.

Avverso la sentenza sfavorevole il dipendente è ricorso in Cassazione.

L’analisi della Cassazione

Diverse sono le motivazioni del ricorso del funzionario dell’ente locale, in Cassazione.

I giudici di legittimità evidenziano che i motivi del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto tra loro connessi, sono infondati.

I giudici di legittimità premettono che, in caso di ricorso per cassazione avverso le sentenza del giudice di rinvio fondato sulla deduzione della infedele esecuzione dei compiti affidatigli con la precedente pronuncia di annullamento, il sindacato della Suprema Corte, si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice di rinvio, per effetto di tale affidamento e dell’osservanza dei relativi limiti, la cui estensione varia a seconda che l’annullamento stesso sia avvenuto per violazione di norme di diritto ovvero per vizi della motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in quanto, nella prima ipotesi, egli è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, già acquisiti ai processo, mentre, nel secondo caso, la sentenza rescindente non limita il potere del giudice di rinvio dei soli punti indicati, da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, ma conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento. In quest’ultima ipotesi, poi, il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente od implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento in sede di esame della coerenza del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati.

Nel caso in esame, l’annullamento disposto dalla sentenza rescindente ha riguardato unicamente un vizio di motivazione. Non risultano enunciati, in relazione alle questioni di diritto all’epoca sottoposte a questa Corte di legittimità dall’allora ricorrente, principi di diritto cui il giudice di rinvio dovesse uniformarsi, pur nel rinnovato accertamento dei fatti che gli era demandato.

L’assenza di una motivazione

La Corte di Cassazione evidenzia come la sentenza all’epoca impugnata mancasse di un’effettiva motivazione sia sull’esistenza che sull’intensità delle violazione disciplinare, con particolare riferimento alla asserita divulgazione della memoria difensiva e al pregiudizio all’immagine che sarebbe derivato per l’amministrazione.

In particolare, nessuna motivazione era stata spesa con riguardo all’assunto difensivo secondo cui la missiva fu di fatto inviata solo ad alcuni (e non a tutti) i destinatari.

I giudici del merito, nel rinnovare l’accertamento e la valutazione dei fatti, ha ritenuto che non vi fosse alcuna necessità di nuove indagini, essendo sufficienti gli elementi già acquisiti agli atti ai fini di un apprezzamento complessivo della vicenda, in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassato. Ha difatti osservato che, una volta espunto il vizio che inficiava la sentenza cassata (il mancato accertamento di quanti, tra i soggetti indicati nell’intestazione della missiva, fossero stati effettivi destinatari dei documento), le risultanze processuali portavano a ritenere acquisito al processo “il fatto storico di tale invio al Prefetto, al Procuratore della Repubblica, alla Corte dei Conti, a due consiglieri comunali, a rappresentati sindacali territoriali esterni e interni oltre che al naturale destinatario segretario comunale in qualità di responsabile del procedimento disciplinare”.

Alla stregua di tale accertamento di fatto, rinnovato in esecuzione del dictum della sentenza rescindente, ha ritenuto dimostrata sia l’entità della diffusione, sia la lesività insita nella circostanza che ” fatti ivi descritti erano risultati del tutto infondati e tanto rivelava l’effettivo intento di discredito perseguito dal ricorrente”.

Le conclusioni

I giudici di legittimità pur dovendo evidenziare che è doverosa la cooperazione del pubblico dipendente per l’emersione di fatti illeciti o comunque illegittimi, di interesse collettivo, posti in essere dalla pubblica amministrazione, l’art. 54-bis, D.Lgs. n. 165 del 2001, successivamente introdotto dalla legge anticorruzione n. 190 dei 2012 e, da ultimo, modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge il agosto 2014, n. 114, ha espressamente previsto, al primo comma, che “fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’art. 2043 del codice civile“, il pubblico dipendente che denuncia “all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, o all’Autorità Nazionale Anticorruzione (…..) condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione dei rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposta od una misura discriminatoria , difetta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”; nel caso in esame, il giudice di rinvio ha tratto argomenti di convincimento dal riscontro della palesa infondatezza dei fatti denunciati.

Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.

Cass. Civ., Sez. lavoro, 24 gennaio 2017, n. 1752

 
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