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Sgravi contributivi per giovani, come cannibalizzare l’apprendistato

Pubblicato il 26 agosto 2017 

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

l’illusione che gli “800 mila posti di lavoro in più” (dei quali non si è accorto nessuno) siano frutto del Jobs Act e non conseguenza preponderante della permanenza al lavoro forzata dalla legge Fornero, continua a sedurre il Governo. In particolare, l’Esecutivo resta fortemente convinto che l’occupazione possa crescere per imposizione di legge; lo stesso errore commesso per gli appalti che si supponeva dovessero essere rilanciati dal nuovo codice dei contratti. E invece?

Caro Titolare: invece, accade che la legge può solo creare condizioni per facilitare le transazioni in un mercato (come quello del lavoro o degli appalti), mediante regole più chiare e procedure più efficaci; ma, non può certo spingere la domanda verso l’alto, se non vi sono le condizioni economiche per farlo. Ergo, le imprese continuano ad assumere poco, perché la spinta alle assunzioni non può derivare dalla carta, cioè dalle norme, ma occorre ovviamente che sia il mercato, l’economia, il Pil a determinare questo effetto.

Sicché, appare abbastanza stucchevole (come rileva Marta Fana nell’articolo su Il Fatto Quotidiano, “Gli sgravi ai giovani servono solo alle imprese”) constatare come il Governo pensi sempre e solo alle solite “ricette”: incidere per legge sulle assunzioni, agendo, in particolare, mediante “sgravi” alle imprese, creando, di fatto, la cannibalizzazione tra istituti contrattuali.

L’ultima idea è lo sgravio del 50% dei contributi per le assunzioni di giovani (fino a 29 o 32 anni), per una spesa complessiva di 2 miliardi e l’ambizione di ottenere 300 mila nuove assunzioni. Come dice, Titolare? Siamo sempre alla politica dei “bonus” e non si giunge mai ad una vera riduzione universalizzata del costo del lavoro (come della pressione fiscale)? Indubbiamente. Ma, la cosa che con questa occupazione degli spazi del Suo portale si intende rilevare è appunto l’ennesima mortificazione del contratto di apprendistato, l’unica vera forma di “tutele crescenti” attualmente in vigore.

Lo si è fatto prima, col decreto-Poletti, nella primavera del 2014, quando si è consentito di attivare contratti a tempo determinato, con la possibilità di 5 proroghe entro 3 anni, senza più dover indicare cause giustificative: perché, quindi, le imprese avrebbero dovuto investire in formazione, con anche l’onere, magari solo morale, di trasformare l’apprendistato in contratto a tempo indeterminato, se potevano limitarsi ad assumere anche per brevi e reiterati periodi, scrutando (come anche comprensibile) l’orizzonte e guardando ad ordini e fatturato?

Si è ripetuta l’operazione con gli sgravi triennali previsti dalla legge 190/2014, per le nuove assunzioni effettuate in vigenza del d.lgs 23/2015, che consente di licenziare senza più la reintegra: ha reso poco appetibile l’apprendistato, perché aveva sgravi anche maggiori, a fronte della mancanza di oneri formativi a suo carico, ferma restando la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro, esattamente come per l’apprendistato.

L’idea dello sgravio per i 300 mila giovani è un’ulteriore compressione del contratto di apprendistato. Sostanzialmente, infatti, se ne ricalca la struttura: assunzione per giovani (anche se l’apprendistato oggi può essere esteso, senza limiti di età, ai percettori di trattamenti di disoccupazione), incentivata da sgravi e possibilità di recesso indirettamente connessa sempre alle nuove regole del d.lgs 23/2015 (peraltro, si sta studiando qualche sistema per indurre i datori a non licenziare i lavoratori così assunti, a conferma degli effetti di spiazzamento del Jobs Act); senza il “peso” organizzativo ed economico dell’attività formativa e del riconoscimento della qualifica.

Il rischio è di generare nuova spesa pubblica per sostenere una domanda di lavoro sostanzialmente congiunturale e non connessa ad incrementi occupazionali legati ad evidenze di crescita economica complessiva e, quindi, a sviluppo di clientela dei datori, che, infatti, vengono esentati dall’investimento nella formazione proprio dell’apprendistato. Investimento che, da un lato, rafforza la fidelizzazione tra datore e lavoratore e, dall’altro, consente di colmare il gap inevitabilmente presente tra competenze acquisite mediante gli studi e specifiche competenze operative nell’azienda, facilitando la crescita professionale dei lavoratori.

Probabilmente, esimio Titolare, sarebbe più produttivo utilizzare le poche risorse disponibili per la riduzione universale del cuneo fiscale, auspicabilmente attraverso la razionalizzazione della spesa e non aggredendo margini di maggiore spesa pubblica aperti da una crescita del Pil sicuramente vera e positiva, ma ancora asfittica, e da volatili margini di “flessibilità” sul rapporto debito/Pil. Come dice, Titolare? Ma, in qualche modo la campagna elettorale deve essere pur fatta?

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